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Pertanto, proprio la convinzione della necessità di contribuire a colmare,
almeno in parte, una simile lacuna ha guidato la scelta di effettuare la
ricerca che si presenta in questo elaborato.
Ma perché è importante capire cosa è successo all'interno della dirigenza
pubblica italiana?
È innegabile che la riforma della dirigenza è stato uno dei momenti
cruciali della strategia di riforma: la managerializzazione della pubblica
amministrazione ha significato il tentativo di trasformare radicalmente il
ruolo della dirigenza italiana; tutte le altre principali innovazioni – dalla
privatizzazione del pubblico impiego all'introduzione del controllo di
gestione e dei bilanci per obiettivi, dalla riforma del sistema di carriera
dei dipendenti pubblici fino alla valutazione (dei dipendenti, delle
prestazioni) – possono avere effetti concreti significativi sulla realtà solo
se la dirigenza è capace di assumere un atteggiamento poliedrico ed
eclettico nei processi amministrativi, nella gestione e
nell'organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nei processi di
produzione ed attuazione delle politiche pubbliche.
Un elemento essenziale della managerializzazione è rappresentato dalla
capacità di fare della gestione delle risorse umane uno strumento per
migliorare le prestazioni delle amministrazioni pubbliche. Infatti, se
certamente il buon manager deve essere professionalmente attrezzato a
svolgere le attività di programmazione e coordinamento organizzativo,
non vi è dubbio che, senza una adeguata capacità nella gestione del
personale, l'efficacia della prestazione dirigenziale viene notevolmente
ad affievolirsi.
Insomma, da questo punto di vista, è evidente come le abilità
professionali nella gestione del personale rappresentino una condizione
necessaria, pur se non sufficiente, per una buona performance manageriale.
8
Inoltre, nel caso italiano, non si può non ricordare come le recenti
riforme amministrative aspirino a riorientare completamente le politiche
del personale.
In questo processo, il ruolo della dirigenza è, ovviamente, centrale ed
ineludibile. Volendo fotografare le caratteristiche professionali della
dirigenza post–riforma, non si poteva, quindi, prescindere,
dall'affrontare ampiamente la questione delle politiche di gestione del
personale.
Tuttavia, è importante conoscere anche il profilo, le competenze, il ruolo
e gli atteggiamenti della dirigenza pubblica per il semplice motivo che i
dirigenti sono attori essenziali dei processi attraverso i quali si allocano i
beni pubblici. Sapere chi sono, da dove vengono, che background
educativo hanno, cosa fanno, come percepiscono il proprio ruolo, è
essenziale per capire come funzionano i processi di politica pubblica nel
nostro Paese e, più in generale, nelle democrazie contemporanee.
Il famoso luogo comune secondo cui "i responsabili politici passano, i
dirigenti restano" non ha perso di validità, anche in tempi di spoil system e
di accessi all'esterno, che significa, sostanzialmente, che i dirigenti
svolgono un ruolo strategico nelle decisioni che hanno rilevanza
collettiva.
Così, partendo dal considerare la dirigenza pubblica come un bene
pubblico a tutela dell’imparzialità ma anche del principio di buon
andamento, come ha ricordato la stessa giurisprudenza della Corte
Costituzionale quando ha voluto difendere la contrattualizzazione
dell’alta dirigenza, precisando il vincolo di scopo rispetto a questi due
principi, è d’obbligo giungere alla constatazione di tutti quegli elementi
che oggi rendono la dirigenza pubblica un’ “emergenza istituzionale”.
Ponendo infine, l'accento, oltre che sulle diverse criticità di ruolo,
funzioni e poteri della dirigenza pubblica anche sui delicati profili di
9
separazione dal vertice politico, ci si interroga, stimolando riflessioni e
approfondimenti, se la dirigenza abbia i "numeri" per accettare la sfida di
una amministrazione moderna – obiettivo irrinunciabile – nel contesto
di una società globale che deve recuperare spazi e occasioni di crescita e
competitività.
D’altra parte, poiché esistono già alcune ricerche quantitative (promosse
dal Dipartimento della Funzione Pubblica, dalla Ragioneria generale
dello Stato, dall'Aran e dal Formez) su questa tematica, e tenuto conto
dei dati significativi emersi anche dalle indagini campionarie eseguite
nell'ambito dei rapporti "Cantieri" si è deciso di affrontare la questione
anche attraverso lo studio di un caso – quello della Prefettura–UTG di
Latina – e attraverso un'indagine di tipo qualitativo, intervistando, come
si dirà in seguito, direttamente alcuni dirigenti pubblici.
In ultima analisi, in un contesto in cui le esigenze di sviluppo del Paese
richiedono amministrazioni pubbliche in grado di elaborare e attuare
politiche efficaci, sviluppare un clima favorevole all'innovazione,
valorizzare le energie e capacità presenti negli ambienti di lavoro,
migliorare l'organizzazione del lavoro per renderla sempre più
rispondente ai nuovi bisogni, sono alcune delle sfide che si devono
affrontare.
A questo proposito, si è fermamente convinti che le amministrazioni
pubbliche possano svolgere un ruolo di primaria importanza per
valorizzare le differenze di genere nelle loro politiche del personale e
promuovere la presenza delle donne in posizioni di vertice per
raggiungere un "equilibrio di genere a livello decisionale", così come
affermato anche dalla Comunità Europea.
Tenuto conto di ciò, si è quindi ritenuto necessario esplorare anche
questa dimensione.
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CAPITOLO PRIMO
La nuova dirigenza e il cambiamento della P.A.
in Italia
11
1.1 I nuovi profili manageriali
“Sopra la cornice della porta c'è una placca metallica lunga e stretta, rivestita di
smalto. Su sfondo bianco, le lettere nere annunciano Conservatoria Generale dell'Anagrafe.
Lo smalto è crepato e sbrecciato in alcuni punti. La porta è antica, l'ultimo strato di vernice
marrone si sta scostando, le venature del legno, visibili, ricordano una pelle striata. Ci sono
cinque finestre sulla facciata. Appena si varca la soglia, si sente l'odore della carta vecchia.
Subito dopo la porta compare un alto paravento a vetri con due battenti da cui si
accede alle enorme sala rettangolare dove lavorano gli impiegati, separati dal pubblico da un
lungo bancone che unisce le due pareti laterali, a eccezione, a una delle estremità, del ripiano
mobile che permette il passaggio all'interno. La disposizione dei posti nella sala rispetta
naturalmente le priorità gerarchiche, ma essendo, come ci si aspetterebbe armoniosa da
questo punto di vista, lo è anche dal punto di vista geometrico, il che serve a dimostrare che
non esiste alcuna insanabile contraddizione fra estetica e autorità. La prima fila di tavoli,
parallela al bancone, è occupata dagli otto scritturali ausiliari a cui compete ricevere il
pubblico. Dietro questa, altrettanto centrata rispetto all'asse mediano che, partendo dalla
porta, si perde giù in fondo, negli oscuri confini dell’edificio, c'è una fila di quattro tavoli.
Questi appartengono ai funzionari. Dopo di loro si vedono i vice, che sono due. Infine, isolato,
da solo, come doveva essere, il conservatore, a cui quotidianamente si rivolgono
chiamandolo capo.
La distribuzione dei compiti fra tutti gli impiegati risponde a una sola regola
semplice, e cioè che gli elementi di ciascuna categoria hanno il dovere di eseguire tutto il
lavoro che sia loro possibile, in modo che solo in minima parte debba passare alla categoria
successiva. Ciò significa che gli scritturali ausiliari sono obbligati a lavorare senza sosta da
mane a sera, mentre i funzionari lo fanno di tanto in tanto, i vice molto più di rado e il
conservatore quasi mai. (...)
Quel chiamarlo signor José, sia detto subito, non vale tanto quanto parrebbe promettere, per
lo meno qui in Conservatoria Generale, dove il fatto che tutti si trattino nella stessa
maniera, dal conservatore al più giovane degli scritturali ausiliari, non ha sempre lo stesso
12
significato nella prassi dei rapporti gerarchici, e si potrebbero addirittura osservare nei
modi in cui viene articolata questa breve parola e secondo i diversi scalini di autorità o gli
uomini del momento, modulazione assai diverse, tipo quelle dell'accondiscendenza,
dell'irritazione, dell'ironia, dello sdegno, dell'umiltà, della delazione, il che ben dimostra fino
a qual punto possono giungere le potenzialità espressive di due fortissime emissioni di voce
che, a prima vista, così riunite, sembrerebbero voler dire una cosa sola.”
dal romanzo "Tutti i nomi" di José Saramago
Einaudi, Torino 1998
Storicamente, i dirigenti pubblici del nostro Paese non godono di una
buona reputazione.
Per esempio, Sabino Cassese, trattando alcuni anni fa dell'argomento con
la consueta icasticità, concludeva drasticamente che "la dirigenza
italiana ha qualificazioni e motivazioni molto inferiori a quelle degli altri
Paesi sviluppati"
1
.
Nel 1990 – quindi alla vigilia del processo riformatore che avrebbe avuto
inizio pochi anni dopo – in un approfondito studio realizzato anche in
questo caso da giuristi
2
si notava una peculiare "fragilità" rispetto ad altri
sistemi amministrativi, dovuta alla "scarsa consistenza del ruolo"
attribuito alla dirigenza pubblica, caratteristica che si accompagnava ad
una eccessiva consistenza numerica dei dirigenti.
Nel corso degli anni Novanta tutta l'amministrazione pubblica italiana,
in linea con quanto accaduto negli altri Paesi occidentali, ha cominciato
ad essere oggetto, sia a livello centrale che a livello locale, di un
profondo, articolato ed ambizioso processo di trasformazione, promosso
da numerose innovazioni normative, finalizzate a modificarne
1
Cassese S., Le basi del diritto amministrativo, Garzanti, Milano, 1995
2
D’Alberti M., La dirigenza pubblica, Il Mulino, Bologna, 1990
13
radicalmente le modalità d'azione e i principi organizzativi. Come è noto
a tutti, la linea–guida della strategia riformista si ispira direttamente alla
filosofia managerialista che da ormai vent'anni rappresenta la new wave.
La principale linea–guida delle riforme consiste nel superare le logiche di
tipo burocratico, introducendo significativi elementi di carattere
manageriale, presi in prestito dalle organizzazioni private.
Si avverte, infatti, in un continuo crescendo, l’impellente necessità da
parte della teoria e delle tecniche della comunicazione pubblica di
acquisire con grande velocità la medesima consapevolezza e capacità di
utilizzo di tecniche e strumenti di comunicazione integrata rispetto al
mondo delle imprese.
Il concetto di comunicazione integrata
3
nasce nell’ambito della
comunicazione d’impresa e “attiene sia alla dimensione d’integrazione
dei flussi comunicativi che muovono dalle varie aree dell’impresa,
all’esterno e all’interno (alta direzione, marketing e vendite, risorse
umane, amministrazione, finanza e controllo, logistica, produzione, etc.),
sia al concetto dell’integrazione dei vari strumenti di cui l’impresa fa uso,
nei suoi processi di comunicazione, allo scopo di ottimizzare l’impiego
delle risorse disponibili, concentrare i messaggi, indirizzare in modo
completo (appunto, integrato) i vari pubblici di riferimento (…) Il sistema
pubblico dovrà allora saper interpretare la domanda e le aspettative di
servizio e saper adottare le medesime metodologie e strumenti della
comunicazione integrata d’impresa, facendo tesoro delle esperienze
maturate nel settore privato per quanto attiene a metodologie ed
efficacia, ma, “aggiungendo” il valore derivante dalla propria unicità e
specificità, che in ultima analisi differenzia lo scambio comunicativo tra
3
La sua teorizzazione nella letteratura di management italiana nasce dagli studi di
Renato Fiocca e di un gruppo di studiosi dell’argomento, nell’ambito dell’Università
Bocconi di Milano; cfr R. Fiocca (a cura di), La comunicazione integrata nelle aziende,
Egea, Milano, 1994.
14
cittadini e istituzioni, rispetto a quello tra consumatori e impresa”
4
.
Ecco allora il processo dell’integrazione della comunicazione estendersi
dal rapporto tra imprese e istituzioni a quello tra istituzioni e cittadini,
tra pubblico e privato; tra Stato e società civile: in ultima analisi all’area
più vasta della comunicazione pubblica, dove l’esigenza della medesima
accelerazione di consapevolezza è divenuta ogni giorno più pregnante
5
.
L'inizio della riforma della disciplina della dirigenza può essere
ricondotto al D.Lgs. n. 29/1993 in materia di Pubblico impiego e, passando
per i contratti collettivi del 1994 e del 1998, trova per il momento la sua
conclusione nel Testo Unico n. 165/2001 e nella più recente legge di
ulteriore riordino della dirigenza, la n. 145/2002, Disposizioni per il riordino
della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l'interazione tra
pubblico e privato
6
. A partire dal decreto del 1993 sono stati ridefiniti il
ruolo, le competenze, la professionalità e le modalità di carriera del
dirigente ed è stata data una maggiore attenzione alla valutazione dei
risultati raggiunti.
È stato un processo senza alcuna soluzione di continuità di reiterate ed
infestanti modificazioni normative, caratterizzato da una forte ansia
riformatrice che si è focalizzata soprattutto sul disegno degli assetti
formali, sulla continua limatura delle norme.
4
Comboni D., La comunicazione integrata. Strumenti e target, in Rolando S. (a cura di),
Teoria e Tecniche della comunicazione pubblica, Etas, Milano, 2003
5
In tal senso tutto il processo che parte dalle leggi 142/90 in materia di Ordinamento
delle Autonomie locali e 241/90, Disciplina del procedimento amministrativo e di accesso agli atti
amministrativi e arriva alla legge 150 del 2000, Disciplina delle attività di informazione e di
comunicazione delle pubbliche amministrazioni, può essere letto come progressiva e
biunivoca acquisizione di questo tipo di consapevolezza, rispecchiato
nell’evoluzione della sua formalizzazione normativa. I testi delle leggi in materia di
comunicazione pubblica e trasparenza sono reperibili sul sito dell’Associazione
comunicazione pubblica: www.compubblica.it
6
Presidenza del Consiglio dei Ministri, Rapporto 2005, “Le Grandi Riforme”, Volume
1.
15
Di fronte a queste trasformazioni, che incessantemente si sono
succedute nel corso dell'ultimo decennio – talvolta in modo non lineare,
e spesso senza alcuna analisi dei processi in atto – si impone
inderogabilmente l'esigenza, riconosciuta sia dagli studiosi che dagli
stessi promotori delle riforme, di monitorare con attenzione i risultati da
essi prodotti, valutando se tali risultati siano in linea con gli obiettivi
dichiarati delle riforme e con le ambiziose aspettative che esse hanno
suscitato, e cominciando ad indagare le cause degli eventuali
scostamenti tra propositi riformatori e risultati ottenuti. D'altra parte, le
riforme amministrative, come qualsiasi altra politica pubblica, non
finiscono con le norme che ne disegnano il contenuto, anzi, in realtà, si
potrebbe tranquillamente affermare che esse iniziano quando la legge o
regolamento viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ovvero quando un
contratto nazionale di comparto viene sottoscritto. È da quel momento
che comincia la difficile e complessa strada dell'attuazione che, nel caso
di progetti importanti ed ambiziosi di riforma, diventa tortuosa e spesso
imprevedibile.
Attualmente, accanto al riassetto normativo ed istituzionale delle
funzioni amministrative, nuovi fenomeni sociali stanno evidenziando
problemi di natura collettiva a cui le amministrazioni sono chiamate a
rispondere attraverso politiche prima non necessarie e servizi nuovi, con
un livello estremamente elevato della personalizzazione e della qualità
richiesta. All’elaborazione e all’attuazione delle politiche partecipano un
numero via via crescente di soggetti pubblici e privati che svolgono
funzioni di interesse generale (si pensi ad esempio alle politiche del
lavoro). Il ruolo a cui sono chiamate le amministrazioni è sempre più
quello di partecipare a politiche integrate che richiedono sforzi di
cooperazione inter–istituzionale tra gli attori e nuovi modelli di
relazione. I processi decisionali diventano più complessi e la stessa
16
identificazione degli stakeholders risulta più articolata e di difficile
definizione a priori: la molecolarizzazione dei rapporti economici e
sociali ha indebolito anche le tradizionali capacità di rappresentanza
degli interessi.
In questo quadro più sfumato, i media giocano un ruolo sconosciuto fino
a pochi anni fa e sono capaci di influenzare le decisioni e le scelte in
modo consistente, accogliendo istanze, facendosi portatori di proposte,
proteste, interessi. Questa progressiva fluidità di rapporti e di regole
rende il quadro dell’azione amministrativa più articolato e complesso.
Pertanto le amministrazioni, oggi, sono poste di fronte a tre grandi sfide,
all’interno delle quali, i dirigenti pubblici svolgono un ruolo di
fondamentale importanza:
1. La prima sfida è quella di rendere attrattive le amministrazioni
pubbliche per i talenti migliori. Se la qualità del personale rappresenta la
variabile fondamentale per determinare gli effetti delle politiche
pubbliche, allora le amministrazioni devono recuperare una capacità
competitiva sul mercato del lavoro per attrarre i giovani migliori. Si
tratta di valorizzare il rapporto con le università, di migliorare le logiche
di reclutamento e selezione, di favorire più adeguate condizioni di
lavoro, di mostrare all’opinione pubblica la rilevanza, la varietà e le
opportunità che le amministrazioni pubbliche possono offrire.
2. La seconda sfida riguarda la capacità delle amministrazioni di
sviluppare un maggiore senso di appartenenza e motivazione tra le persone
che operano nei servizi pubblici. Troppo spesso è possibile osservare
personale demotivato che lamenta di non essere stato coinvolto nei
profondi processi di riforma che magari ha conosciuto solamente dalla
lettura dei quotidiani, ma che nella sostanza ha solamente subito. È
necessario avviare percorsi di ascolto e coinvolgimento dei lavoratori,
valorizzare le esperienze riconoscendo ai migliori una differenziazione
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di condizioni e una visibilità esterna dei risultati ottenuti, investire
sull’immagine dei funzionari e del lavoro pubblico.
3. La terza sfida a cui sono poste di fronte le amministrazioni
pubbliche è quella dell’adeguamento delle capacità e delle competenze degli
operatori. I lavori nelle amministrazioni pubbliche richiedono spesso
saperi e capacità professionali di alto profilo e per questo una grande
parte del personale è laureato o diplomato.
Non è però sufficiente. Gli scenari che le amministrazioni si trovano a
dover affrontare richiedono di investire nella formazione del personale e
in percorsi di apprendimento capaci di sviluppare nuove competenze,
capaci di andare oltre ai tradizionali saperi e conoscenze, per entrare
anche nello sviluppo delle qualità personali.
Sempre più ad esempio un dirigente pubblico di alto profilo deve sapere
governare sistemi complessi di relazioni o contribuire attraverso una
visione sistemica ad elaborare politiche pubbliche efficaci.
In quest’ottica quindi, tenendo conto dell’attuazione degli scenari di
cambiamento in corso, è necessario rendere più coerenti le strategie e le
logiche di organizzazione del lavoro. “La realtà del postfordismo con cui
i settori manifatturieri, da una decina d’anni, hanno iniziato a fare i conti
ha messo in luce una nuova e diffusa centralità delle risorse umane come
fattore distintivo di competizione”
7
.
Gli sviluppi di questa consapevolezza si sono tradotti in idee e tendenze
che assumono nomi e formule differenti (economia della conoscenza,
sviluppo delle competenze, apprendimento organizzativo, mercato della
conoscenza, ecc.) ma che trovano il comune denominatore nel proporre
con evidenza la centralità e la valorizzazione delle persone, come fattore
fondamentale per la competizione e i modelli partecipativi come
strategia per affrontare le relazioni tra capitale e lavoro.
7
Davenport Th, Prusak L., Il sapere al lavoro, Etas Milano, 2000