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Introduzione
La Brexit, e una Brexit accelerata, a seguito della vittoria schiacciante del partito
conservatore alle ultime elezioni britanniche, volute con insistenza da Johnson proprio
per legittimare in parlamento la sua convinta volontà di un’uscita immediata del Paese
dall’Unione Europea, è ormai sicura.
Il resto – a partire dai legami britannici con l’Europa, dalla capacità di Londra di
costruire una relazione commerciale privilegiata con gli Usa e, più in generale, di
ritagliarsi un proprio specifico ruolo dentro le dinamiche d’integrazione economica
globale – costituisce invece un gigantesco punto interrogativo, a testimonianza del fatto
che, ad aprirsi, è un periodo ricco di incognite e incertezze.
Per interpretare la forte spinta che ha invogliato i britannici a votare in
maggioranza per il Leave, è utile affidarsi a tre cerchi concentrici, tra loro strettamente
intrecciati: quello globale, quello europeo e, infine, quello nazionale.
Il contesto globale entro cui si colloca la Brexit è quello di una crisi della
globalizzazione – delle sue logiche e del suo fascino, che Londra ha a lungo incarnato
come pochi altri luoghi – le cui radici affondano nella crisi del 2008 e in quello che ne
è seguito.
Una volta che quella crisi ha rivelato l’insostenibilità di forme d’integrazione
finanziaria su cui si reggeva un modello di consumi a debito capace di bilanciare
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crescenti diseguaglianze e precarietà, il rifugio in primo luogo identitario è stato in un
nazionalismo consolatorio, nostalgico, velleitario finché si vuole, ma privo di
sostanziali alternative. La Brexit – e il suo campione ultimo, Boris Johnson – quel
nazionalismo lo hanno sussunto e incarnato in modo parossistico e quasi caricaturale.
Sono la compiuta versione britannica di un processo e di una tendenza ben più ampi,
come vediamo in tante democrazie avanzate e ricche, in Nord America e in Europa.
Quest’ultima ci offre il secondo cerchio entro cui collocare la parabola recente
della Gran Bretagna. Il modello della Ue, tecnocratico e quasi apolitico nel suo
funzionalismo progressista e nella sua rigida rete di regole, non offre né è in grado di
offrire un’alternativa credibile al nazionalismo che sempre più emerge negli ultimi anni
nei paesi occidentali e occidentalizzati: non ne può contrastare la visibile valenza
identitaria per quella parte di popolazione – maggiormente rappresentate da anziani e
da chi ha un livello d’istruzione medio-basso – difficilmente catturabile dall’algido ed
elitario cosmopolitismo europeista, ed incapace di vedere ed apprezzare gli indubbi
meriti storici dell’integrazione europea.
Ad aggravare il tutto ha contribuito la risposta della Ue a guida tedesca alla crisi del
2008: l’adozione, e finanche codificazione, di una politica di austerity che ha finito per
qualificare l’Europa e contro la quale si scagliano in modi diversi i nuovi nazionalismi,
da chi sogna (come Johnson) di trasformare la Gran Bretagna in una sorta di grande
paradiso fiscale, capace di intercettare una fetta ampia degli investimenti globali, a chi
prospetta l’uscita dall’euro e salvifiche svalutazioni competitive.
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Il terzo e ultimo cerchio è quello nazionale: perché, come insegna l’esito delle
elezioni UK tenutesi il 12 dicembre scorso, la schiacciante vittoria dei Tories è
soprattutto la vittoria di Boris Johnson. Di chi, nella buriana apertasi con il referendum
del 2016, non ha mai deviato la rotta, mantenendo ferma la barra dell’uscita
dall’Unione, anche a costo di una hard Brexit, mentre mille compromessi sono stati
cercati senza, tuttavia, poter mai trovare applicazione.
A fronte del contesto sociopolitico e culturale rappresentato da tutte le premesse
sinora fatte, cosa potrà mai attenderci nell’immediato futuro, dal momento che il
premier britannico ha promesso ai suoi elettori una recessione completa entro il 31
gennaio 2020? Quali saranno le conseguenze monetarie, finanziarie istituzionali e,
soprattutto, produttive per il Regno Unito e per i 27 stati rimanenti nell’Ue?
Il lavoro che ci si propone nelle pagine seguenti, pertanto, tracciando un breve
percorso nelle origini e nelle motivazioni storico-culturali che l’hanno comportata,
vuole cercare di delineare un’ipotesi il più plausibile possibile riguardo agli scenari
futuri (imminenti) che la Brexit, con tutti i suoi artefici comporterà.
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1. L’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea: il diritto di
recesso da parte dello Stato Membro e le sue conseguenze.
Allo scopo di una visione olistica del problema Brexit, di ciò che comporta e delle
sue conseguenze immediate e future, è utile svolgere una disamina circa gli aspetti
giuridici ed i presupposti costituzionali della partenza dello Stato membro dall’Ue,
attraverso un’analisi della clausola di uscita contenuta nell’attuale articolo 50 del
Trattato di Lisbona
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, che ha apportato ampie modifiche al Trattato sull’Unione europea
(TUE)
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affrontando soprattutto la questione della natura del recesso ed i “diritti del
recesso.
Tale articolo prevede due alternative su come lasciare l’Unione: l’uscita consensuale e
il ritiro unilaterale. Pur accettando l’estrema possibilità teorica di uscita unilaterale
senza accordo, come prospettato sempre più dal no deal di Johnson, è sempre stato
ritenuto, come avremo modo di vedere in seguito, più che auspicabile dal legislatore
europeo, in tutto il percorso europeistico fatto sinora, un accordo, che renda di fatto
l’uscita consensuale l’unico vero modo possibile per porre fine all’adesione, mettendo
in dubbio la possibilità di una mancata intesa.
Come detto, l’attuale quadro istituzionale dell’Unione è definito dal Trattato di
Lisbona, che disciplina, tra le altre cose, il ritiro di uno Stato membro con l’art. 50,
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Il Trattato di Lisbona, noto anche come Trattato di riforma e ufficialmente Trattato di Lisbona che modifica il Trattato
sull’Unione europea e il trattato che il trattato che istituisce la Comunità europea, è uno dei trattati dell’Unione Europea,
firmato il 13 dicembre 2007 ed entrato ufficialmente in vigore il 1 dicembre 2009, che ha apportato ampie modifiche al
Trattato di Maastricht […], esso abolisce i cosiddetti “tre pilastri”, rafforza il principio democratico e la tutela dei diritti
fondamentali, Cfr. Wikipedia.
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Il Trattato di Maastricht, o Trattato sull’Unione Europea (TUE) è uno dei trattati dell’Unione Europea, firmato il 7
febbraio 1992 a Maastricht nei Paesi Bassi, sulle rive della Mosa, dai dodici paesi membri dell’allora Comunità europea,
oggi Unione europea, ed entrato in vigore il 1° novembre 1993, che definisce i cosiddetti tre pilastri dell’Unione, fissando
anche le regole politiche e i parametri economici e sociali necessari per l’ingresso e l’uscita dei vari Stati aderenti alla
suddetta unione, Cfr. Wikipedia.
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fornendo una regolamentazione esplicita del diritto di recesso volontario unilaterale
dall’Unione stessa che è stata ampiamente condivisa da parte di tutti i firmatari.
Tuttavia, tale possibilità, ha spalancato le porte a difficoltà interpretative, dubbi e
critiche a causa dei suoi diversi tratti oscuri in alcuni passaggi e della sua mancanza di
chiarezza sulle modalità di attuazione di tale ritiro.
La dottrina ha criticato la formulazione dell’art. 50 del nuovo TUE in relazione
a quattro aspetti particolari: l’assenza di condizioni per l’avvio della procedura di
recesso, rendendo così possibili abusi dello strumento stesso; la sua mancanza di
analiticità nella definizione delle singole fasi della procedura che porta al recesso;
l’oscurità dello status di cui il paese beneficerebbe durante i negoziati; il contenuto
minimo che l’accordi recesso dovrebbe assumere al fine di gestire, per quanto
possibile, un recesso senza problemi. L’attuale struttura, infatti, ed in particolare la
scelta di non includere alcuna condizione esplicita (oltre al rispetto di requisiti
costituzionali) per operare il ritiro, potrebbe facilitare il ricatto da parte degli Stati che
desiderano ottenere speciali concessioni, sotto il rischio di disintegrazione dell’Unione.
Tuttavia, di fronte alla formulazione di tale importante articolo, la dottrina ha posto fin
dall’inizio un’applicazione preliminare che dovrebbe scongiurare rischi reciproci,
anche se vien da chiedersi se tale standard conferisca con maggiore legittimità giuridica
agli Stati un diritto di recesso unilaterale, o se piuttosto l’uscita dall’Unione non debba
necessariamente seguire una procedura concordata?
Come spesso accade, diverse correnti dottrinali vengono impiegate a favore di
una sola delle possibilità in gioco: alcuni autori, ad esempio, si sono concentrati su
singole parti della norma per affermare che gli Stati hanno il diritto di lasciare l’Unione
europea unilateralmente, senza alcun obbligo di concludere un accordo di recesso.
Secondo una tesi meno radicale, anzi, la lettera del secondo comma della norma