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INTRODUZIONE
Emily Kane: “La gente penserà…”
Charles Foster Kane: “…Solo quello che voglio io.”
(da Orson Welles, Citizen Kane, 1941)
Riflettere sulle questioni inerenti ai mass media porta inevitabilmente a imbattersi nel
ricordo del personaggio del “cittadino Kane” descritto nel primo film di Orson Welles. La
storia di Charles Foster Kane è quella di un magnate dell’editoria americana ed è
diventata l’intramontabile emblema di ciò che i mezzi di comunicazione costituiscono
all’interno della società: il “quarto potere”. Essi sono il prodotto e al tempo stesso lo
strumento del capitalismo, ed hanno plasmato il proprio pubblico e i propri consumatori,
ovvero la società di massa. L’identità tra le suddette categorie di utenti è resa possibile
dall’utilizzo dei mezzi di comunicazione da parte delle industrie al fine di raggiungere i
propri potenziali clienti: la pubblicità.
Quest’ultima, avvalendosi del canale privilegiato dei mass media installati nelle
abitazioni e nella quotidianità dei suoi destinatari, riesce a rivolgersi ad essi in modo
diretto, esercitando spesso un effetto più immediato e pervasivo rispetto alle altre forme
istituzionali del potere. A tale proposito è significativo quanto affermato dalla Corte
Suprema degli Stati Uniti, come citato dal commissario della Federal Trade Commission
Mary Azcuenaga nel suo intervento alla conferenza del 1997 sul ruolo della pubblicità e
della regolamentazione pubblicitaria nel libero mercato: la Corte osserva che “il
particolare interesse dei consumatori nel libero flusso dell’informazione commerciale può
essere acceso quanto, se non di più, quello per il più urgente dibattito politico del giorno”.
Da ciò discende la necessità di tutelare i cittadini, regolamentando la presenza della
pubblicità, senza tuttavia falsare la libera concorrenza. A tal fine è fondamentale la
comprensione del ruolo e degli effetti della pubblicità sugli utenti. Tali caratteristiche
sono tuttavia rese sfuggenti all’analisi a causa della pervasività della comunicazione
commerciale, la cui forte integrazione nella società comporta una maggiore difficoltà nel
distinguere gli esiti del suo impiego.
Per comprendere le motivazioni alla base della regolamentazione occorre dunque
catturare interamente la problematicità della pubblicità, di cui le singole analisi
economiche, sociologiche o di marketing offrono solo una visione parziale. Si rende
pertanto necessario uno studio che si avvicini quanto più possibile alla complessità della
comunicazione commerciale, attraverso un approccio multidisciplinare.
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Il nostro interesse verso tale argomento nasce proprio dalla sua perdurante rilevanza
nel sistema economico e sociale, accompagnata da una continua trasformazione, che attira
su di sé lo sguardo dell’opinione pubblica e degli studi scientifici, senza tuttavia che
questi ultimi riescano a fotografarlo in modo nitido. Risulta scarsa infatti la letteratura in
materia, tranne che per alcune eccezioni quali lo studio elaborato dal Centro di Ricerche
Economico-Aziendali (C.R.E.A.) dell’Università Bocconi, intitolato Pubblicità e
dinamiche competitive nel mercato unico europeo. Tuttavia la sua pubblicazione risale al
1991, anno a partire dal quale si sono verificati numerosi mutamenti nel contesto
economico e sociale internazionale.
L’obiettivo di questo lavoro consiste nell’affrontare il tema della regolamentazione del
mercato pubblicitario attraverso un approccio multidisciplinare, aggiornato e comparato.
La nostra attenzione si concentra sulle norme relative ai limiti di affollamento della
pubblicità sui mezzi di comunicazione, ovvero le disposizioni che stabiliscono limiti
quantitativi all’inserimento di messaggi commerciali con riferimento a televisione, radio,
affissioni, stampa, cinema e Internet, a livello nazionale e internazionale, con una
maggiore attenzione rivolta alla normativa europea.
Per tale motivo tracciamo un quadro teorico all’interno del primo capitolo: esso
fornisce un’introduzione al fenomeno pubblicitario attraverso i contributi delle discipline
che se ne sono occupate. In particolare sono considerate l’economia, la sociologia e la
dimensione culturale e artistica della pubblicità, cui si aggiungono anche brevi cenni al
marketing e alla psicologia. Tale panoramica fornisce gli strumenti concettuali per la
comprensione della successiva trattazione, nella quale viene mantenuto tale metodo che
tiene conto dei diversi contributi scientifici.
Infatti nel secondo capitolo alle considerazioni di tipo sociologico ed economico si
affianca la descrizione dell’evoluzione tecnologica dei mass media, in quanto
caratterizzanti il contesto in cui si sviluppa la pubblicità. In tale sede si sottolinea il
legame di forte interdipendenza tra il medium e il messaggio, in questo caso di tipo
commerciale. Si procede dunque a una descrizione dei cosiddetti mercati a due versanti: il
mercato dei mezzi di comunicazione, di cui si considera l’evoluzione, la normativa
antitrust ad esso applicata, e le società e gli strumenti che si occupano della rilevazione
dell’audience; il mercato pubblicitario, del quale vengono specificati i principali attori e il
modo in cui essi interagiscono, parallelamente ad alcune rilevazioni relative alla sua
dimensione nei principali Paesi, tenendo conto dell’evoluzione degli investimenti
pubblicitari e della loro ripartizione per mezzo.
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Dopo la presentazione del mercato pubblicitario è possibile giungere alla trattazione
della normativa ad esso riferita, suddividendo l’analisi per i diversi mezzi di
comunicazione. Tra di essi il settore maggiormente regolamentato è quello televisivo,
specialmente nell’Unione Europea. In tale ambito, infatti, la Direttiva Televisione senza
frontiere (Television without Frontiers – TVwF), emanata nel 1989, contiene le
disposizioni relative alla pubblicità televisiva, tra cui l’articolo 18, inerente ai limiti di
affollamento. Essa viene successivamente modificata nel 1997 e nel 2007, anno in cui
assume il titolo Audiovisual Media Services Directive – AVMSD, includendo nel proprio
ambito di intervento anche i servizi di media audiovisivi su richiesta. La Direttiva TVwF
e le sue successive modificazioni si inseriscono in un più vasto contesto di produzione
normativa comunitaria riguardante la pubblicità e riferito sia all’ambito della regolazione
dei media che alla tutela del consumatore attraverso le direttive sulla pubblicità
ingannevole e comparativa e le direttive sulle pratiche commerciali sleali. Alla
legislazione comunitaria si affianca lo strumento dell’autoregolamentazione a livello
europeo, attraverso l’EASA - European Advertising Standards Alliance, e, a livello
internazionale, tramite il codice redatto dall’ICC - International Chamber of Commerce.
La normativa europea viene poi analizzata nella sua applicazione all’interno dei Paesi
membri, ove si riscontra la tendenza a una maggiore restrittività dei limiti di affollamento
stabiliti nell’articolo 18 della Direttiva TVwf (successivamente divenuto articolo 23): è il
caso di Francia e Germania che progettano l’eliminazione della pubblicità dalle reti
pubbliche e della Spagna che ha attuato tale progetto; in Italia invece l’attuazione è
avvenuta con il d.lgs. 44/2010, “decreto Romani”. Alla proliferazione normativa
riguardante il settore televisivo si contrappone la situazione rilevata per gli altri mezzi, tra
i quali la radio è l’unica ad essere sottoposta a limiti pubblicitari quantitativi nell’ambito
di alcune legislazioni nazionali. La comunicazione commerciale sugli altri media è,
all’interno di diversi Paesi e a livello europeo, oggetto di discussione, proposte o leggi
che hanno ripercussioni su di essa. E’ questo il caso della Direttiva 2009/136/CE, che
disciplina l’installazione di cookies sui computer degli utenti di Internet. Quest’ultimo è il
mezzo che pone le maggiori sfide nel campo pubblicitario, per la sua capacità di
racchiudere gli altri mezzi di comunicazione e la sempre maggiore rilevanza degli
investimenti pubblicitari raccolti. Il forte squilibrio normativo tra i vari mezzi che
veicolano la pubblicità costituisce l’oggetto delle nostre conclusioni, che ne danno una
lettura alla luce delle discipline e delle problematiche considerate nel corso della
trattazione.
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1. QUADRO TEORICO: VALORE ECONOMICO E SOCIALE DELLA
PUBBLICITA’
1.1 La scoperta della pubblicità: tra immediata accoglienza dell’arte e scetticismo
della scienza
“C'è al mondo una sola cosa peggiore del far parlare di sé: il non far parlare di sé.”
(da Oscar Wilde, The Portrait of Dorian Gray, 1890)
Con questa citazione potrebbe ben enuclearsi la logica della comunicazione
pubblicitaria: rendere nota l’esistenza del prodotto, e spesso a tutti i costi (sociali ed
economici).
Proprio Oscar Wilde fu tra i primi a prestare la propria immagine a favore della diffusione
commerciale di una marca di sigari, e la sua nota abilità nel coniare aforismi anticipa quel
che sarà il veicolo principale del messaggio pubblicitario: lo slogan.
Il mondo dell’arte, infatti, accoglie a braccia aperte questa rivoluzione nella
comunicazione che ha in realtà origini lontane.
Prime testimonianze di pubblicità sono rinvenibili fin dall’antichità, nelle civiltà fenicie e
romane, e sono identificabili con scritte apposte in prossimità di strade commerciali e
negozi, pertanto assimilabili alle affissioni; il fenomeno si rinvigorisce successivamente
con l’invenzione della stampa che raccoglie i primi annunci pubblicitari nel Seicento;
tuttavia è con la rivoluzione industriale e il capitalismo che la comunicazione
commerciale conosce il maggior sviluppo, specialmente nei Paesi anglosassoni, e si può
parlare di pubblicità in senso moderno: aumenta la produzione, parallelamente i mezzi di
comunicazione si espandono e diventano in grado di raggiungere un numero sempre più
esteso di utenti: nasce la società di massa.
All’estensione del mercato della stampa nel XIX secolo fa seguito l’ingresso di due nuovi
media, alla fine del medesimo secolo: il cinematografo (effetto del movimento delle
fotografie) e la radio (evoluzione del telegrafo); quest’ultima sarà la progenitrice di altri
due mezzi di comunicazione di massa: la televisione e Internet, rispettivamente nati nella
prima e nella seconda metà del ‘900.
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Possiamo dunque enumerare i mass media:
Affissioni
Stampa
Cinema
Radio
Televisione
Internet
Al raggiungimento del pieno sviluppo della comunicazione di massa nel ‘900 corrisponde
la maturazione del fenomeno pubblicitario, la cui evoluzione è indissolubilmente legata a
quella dei mezzi che lo supportano.
Il momento di svolta vissuto a cavallo tra il XIX e il XX secolo è guardato con
interesse da molti intellettuali dell’epoca, tra cui spicca la riflessione di Walter Benjamin,
contenuta nel saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: con
l’invenzione della fotografia (e conseguentemente del cinema) l’opera d’arte perde la sua
unicità, ovvero quella che Benjamin definisce la sua aura
1
, emancipandosi “dalla sua
esistenza parassitaria nell’ambito del rituale” e avvicinandosi al fruitore (Benjamin, 1936:
25-28, in Toscano e Gremigni, 2008: 291); questo comporta per Benjamin una
trasformazione della funzione dell’opera d’arte, lasciando intravvedere un
ridimensionamento dell’aspetto artistico puro in favore di una funzione di
democratizzazione che conferisce all’arte riproducibile un importante ruolo politico che si
sostituirebbe a quello magico – rituale, portando le opere fuori dai confini del museo.
E oltre tali confini si dirigono molti artisti dell’epoca, sospinti dalla forza dei nuovi
mezzi e interessati al nuovo campo costituito dalla pubblicità. Il cinema dei fratelli
Lumière accoglie subito questa possibilità, realizzando nel 1904 il primo spot
pubblicitario per lo champagne Moët & Chandon.
Ma è soprattutto il manifesto a catalizzare l’attenzione del mondo dell’arte verso la
pubblicità già dalla fine del 1800, partendo dai post-impressionisti francesi Henri de
1
Il filosofo tedesco distingue due modi opposti e complementari di percepire l’opera d’arte: la
traccia e l’aura. “La traccia è l’apparizione di una vicinanza, per quanto possa essere lontano ciò
che essa ha lasciato dietro di sé. L’aura è l’apparizione di una lontananza, per quanto possa essere
vicino ciò che essa suscita. Nella traccia noi facciamo nostra la cosa; nell’aura essa si
impadronisce di noi” (Benjamin, 1927-1940, op. post.: 499-500, in Toscano, Gremigni, 2008: 293-
294).
8
Toulouse-Lautrec e Pierre Bonnard e gli esponenti dell’Art Nouveau quali Alfons Mucha
e proseguendo con i pittori della Secessione viennese e futuristi.
Quest’ultima corrente artistica apporta un contributo fondamentale al campo della
pubblicità in virtù della propria adesione alla modernità in tutte le sue forme e alla sua
opposizione a qualsiasi permanenza del passato: in particolare i suoi membri si scagliano
contro i musei, che nell’ottica futurista non assumono semplicemente un ruolo marginale
come delineato da Benjamin, ma vengono indicati quali “cimiteri di sforzi vani” assieme
a biblioteche e accademie, e sono pertanto destinati ad essere distrutti dalla violenza della
creazione e azione (Marinetti, 1909: 7-12, in Toscano, Gremigni, 2008). All’interno del
Futurismo la personalità più attiva nell’ambito pubblicitario è quella di Fortunato Depero,
di cui ricordiamo la collaborazione con la Campari.
Un’altra figura fondamentale di questo periodo è quella del pittore e pubblicitario
Marcello Dudovich, che realizza manifesti per aziende quali Fiat, Alfa Romeo, Pirelli,
Assicurazioni Generali e La Rinascente, cui viene dato il nome da Gabriele D’Annunzio
che lavora anche alla realizzazione di varie pubblicità (liquore Aurum, amaro
Montenegro, biscotti Saiwa).
Anche nella sua declinazione sovietica il Futurismo mantiene il proprio favore nei
confronti della pubblicità, annoverando tra le proprie fila artisti quali Aleksandr
Rodčenko e Vladimir Majakovskij il quale sostiene il valore del contributo artistico alla
comunicazione commerciale affermando che “non bisogna gridare ai mali e alle brutture
della pubblicità, ma piuttosto spingere verso di essa artisti e scrittori perché la pubblicità,
come la guerra per Marinetti, è l’igiene del mondo”(Pellegrini, 2006: 21).
Negli anni ’20 si registrano anche altre significative partecipazioni all’attività
pubblicitaria nel campo dell’architettura con i laboratori di pubblicità costituiti all’interno
della Bauhaus, fondata da Walter Gropius nel 1919 a Weimar, e nell’ambito della
fotografia. A tale proposito ricordiamo in particolare Edward Steichen, fotografo e pittore
statunitense che si converte alla fotografia commerciale lavorando per le riviste di moda
Vogue e Vanity Fair e raccomandando al suo editore: “Facciamo di Vogue un
Louvre”(Gnugnoli, 2008: 14-21). Egli riesce a passare dai ritratti di eteree modelle sulle
riviste patinate dell’haute couture alla pubblicità della crema per mani della Jergen’s: per
realizzare la finalità dell’inserzionista di riposizionare tale prodotto rivolgendosi alle
massaie, Steichen sceglie di puntare il proprio obiettivo sulle mani logore di una
casalinga che svolge le proprie mansioni (Figg. 1.1 e 1.2). In queste immagini si può
riscontrare la vicinanza dell’opera d’arte riproducibile di cui parla Benjamin, che rende
inoltre possibile un’identificazione illusoria dell’individuo coi nuovi miti propugnati dalle
9
riviste di moda e dai media in generale; tale processo di ingannevole assimilazione
dell’uomo comune a modelli irraggiungibili viene criticata dai due grandi teorici della
Scuola di Francoforte, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno (1944).
La fotografia conosce un nuovo sviluppo nel secondo dopoguerra, fino a superare
l’utilizzo dell’illustrazione. Andy Warhol e gli artisti della Pop Art ne fanno grande uso,
collaborando all’attività pubblicitaria e utilizzando a loro volta quest’ultima per la propria
produzione artistica, assumendone il linguaggio e gli oggetti: in tal modo essi formulano
una critica ironica alla società di massa la cui omologazione investe anche il mondo
dell’arte.
Il fenomeno di reciproco sostegno e fusione tra arte e pubblicità è proseguito fino
all’epoca attuale, in cui spesso non è più l’arte a produrre la pubblicità, ma il contrario: la
pubblicità produce l’arte a propria immagine e somiglianza, secondo gli standard
commerciali. Un esempio evidente è il caso della musica, sovente resa celebre da spot
pubblicitari e sempre più frequentemente nata appositamente per essi. Il rischio che ne
consegue è quello già icasticamente denunciato dalla Pop Art: l’estinzione dell’arte. In
questo modo la pubblicità pervade l’intera società, fino a renderla indistinguibile dal resto
del flusso comunicativo, provocando dunque un indebolimento dell’efficacia della
pubblicità stessa (Codeluppi, 1995).
La sociologia e l’economia si pongono attualmente tali quesiti relativi alla pubblicità,
l’una entrando nel merito del contenuto, l’altra cercando di definire una misurabilità dei
suoi effetti. Entrambe continuano a dibattere su una questione in particolare, identificabile
all’origine dell’iniziale diffidenza e conseguentemente del ritardo delle scienze nello
studio del fenomeno della comunicazione commerciale: la natura della pubblicità, e
dunque i confini tra informazione e persuasione.
Di questi argomenti tratteremo di seguito, con particolare riguardo per l’aspetto
economico.
10
Fig. 1.1 - Edward Steichen, Black: la modella Margaret Horan in un abito di Jay-
Thorpe (1935).
Fig. 1.2 - L’immagine elaborata da Steichen per la pubblicità della crema Jergen’s
(1923).
11
1.2 Analisi microeconomica
Tra ‘800 e ‘900 l’arte rompe i legami con l’accademia e la tradizione: in tale
congiuntura può facilmente ed entusiasticamente accogliere la novità assoluta costituita
dalla pubblicità moderna, come osservato nel precedente paragrafo. Al contrario,
l’economia si serve di modelli fondati su alcuni assunti fondamentali: il principio
dell’individualismo metodologico, il postulato di comportamento razionale degli agenti
economici e l’ipotesi di mercati perfettamente concorrenziali
2
.
Il presupposto di razionalità degli agenti economici ha un’importante implicazione: la
presenza di informazione completa, che permette all’individuo di ordinare le alternative
accessibili. Tuttavia tale condizione non è facilmente riscontrabile nella realtà: spesso i
soggetti economici sono informati in modo ineguale e incompleto relativamente al
mercato e alle caratteristiche del prodotto, e per poter effettuare razionalmente le proprie
scelte devono sostenere un costo dell’informazione, nel caso in cui essa sia disponibile.
La pubblicità si fonda sull’assunzione che nel mercato ci sia tale situazione di asimmetria
informativa, scardinando pertanto uno degli assunti fondamentali dell’analisi economica
classica e delineandosi come una nuova variabile di difficile definizione attraverso i
modelli tradizionali di concorrenza: questi elementi, insieme ad altri che definiremo di
seguito, hanno contribuito al ritardo con cui l’economia ha affrontato il suo studio
(Cecchella, 1968).
Le prime teorie che si occupano di informazione economica e pubblicità risalgono agli
anni ’50 e ’60:
tra i quesiti immediatamente in rilievo relativamente alla pubblicità vi è
quello che riguarda la sua natura e la possibilità di considerarla o meno come
informazione; tale questione costituisce l’ulteriore argomento che ha sollevato lo
scetticismo degli studiosi, dividendone le opinioni.
2
Secondo il principio dell’individualismo metodologico l’analisi economica fa riferimento ai
comportamenti dei singoli individui e le variabili aggregate sono il risultato della somma delle
variabili individuali; il principio di razionalità del consumatore richiede che il consumatore sappia
ordinare le alternative possibili e scelga tra di esse quella che massimizza le sue preferenze; si
intende perfettamente concorrenziale un mercato in cui gli agenti economici assumono il prezzo di
output ed input come dato.
12
1.2.1 Pubblicità: tra informazione e persuasione
Gli economisti ricorrono frequentemente alla distinzione tra due tipi di pubblicità, sulla
base della funzione svolta nei confronti del consumatore: pubblicità informativa e
pubblicità persuasiva.
La prima fornisce informazioni obiettive sulle caratteristiche del prodotto, riducendo
l’asimmetria informativa e permettendo al consumatore di operare una scelta razionale; la
seconda mira a modificare le preferenze del consumatore, attraverso affermazioni
esplicite o implicite.
Tuttavia è raro che il messaggio pubblicitario abbia solo uno dei due profili: di solito essi
sono compresenti (con diversi gradi di prevalenza) e di difficile distinzione e ciò viene
confermato dall’evidenza empirica (cfr. Cabral, 2002: 275).
I detrattori della pubblicità ravvisano in essa una funzione prevalentemente persuasiva,
che fa percepire al consumatore una differenziazione non riscontrabile nella realtà in
quanto non basata sul prezzo o sulla qualità, cui vengono sottratte risorse di investimento:
la pubblicità è dunque vista quale causa di un approfondimento dell’asimmetria
informativa, generando uno spreco sociale. Tale opinione è sostenuta dagli studi di alcuni
membri della scuola di Harvard, tra cui annoveriamo Kaldor (1950), Galbraith (1958),
Solow (1967), Bain (1956), Comanor e Wilson (1967): essi denunciano il rischio di
riduzioni della concorrenza e la creazione di barriere all’entrata dovute a una
differenziazione basata solo sul potere attrattivo della marca. Il mezzo principale cui si
riferiscono questi autori è la televisione, in quanto improntata alla velocità dell’immagine,
senza la possibilità di soffermarsi sufficientemente sull’informazione.
Al contrario, coloro i quali sostengono il valore informativo della pubblicità fanno
riferimento principalmente alla carta stampata. Il gruppo di economisti in questione è
costituito dalla scuola di Chicago, che ha provato a definire dei concetti attraverso i quali
analizzare il fenomeno della pubblicità.
Tra essi rileva il contributo di Nelson (1974), che traccia un’importante distinzione cui
ricondurre quella tra pubblicità informativa e pubblicità persuasiva, identificando beni di
ricerca e beni d’esperienza
3
: i primi sono beni contraddistinti da qualità o caratteristiche
osservabili prima dell’acquisto e sono pertanto oggetto della pubblicità informativa; i
secondi
hanno caratteristiche accertabili solo attraverso il consumo, lasciando quindi lo
3
A tale classificazione alcuni economisti aggiungono una terza categoria, costituita dai beni di
fiducia: in questo caso la qualità dei prodotti non può essere accertata nemmeno dopo il consumo;
i servizi sono il principale esempio di questo tipo di beni.
13
spazio d’intervento alla pubblicità persuasiva, che in questo caso si configura come forma
indiretta di pubblicità informativa (Cabral, 2002).
Nelson costruisce un modello in cui la pubblicità persuasiva ha il valore di segnalazione
della qualità del prodotto: secondo la logica degli acquisti ripetuti l’impresa non avrebbe
convenienza a pubblicizzare il suo prodotto se non fosse di elevata qualità, in quanto il
consumatore non lo riacquisterebbe ed essa incorrerebbe in costi irrecuperabili. In tale
caso più del contenuto del messaggio rileva il costo del messaggio: come efficacemente
asserito da Garella e Lambertini (2002: 198) parafrasando McLuhan (1967), “il costo è il
messaggio”. Tale valore di segnalazione viene attribuito da Milgrom e Roberts (1986)
anche all’utilizzo di un prezzo elevato, che in caso di monopolio ha per l’impresa una
convenienza maggiore rispetto alla pubblicità, in quanto meno costoso da applicare.
Dunque per la scuola di Chicago la pubblicità costituisce un bene con identità propria e
complementare al prodotto pubblicizzato: Becker e Murphy (1993) affermano che essa
non aumenta l’utilità del consumo del bene in modo diretto, ma costituisce essa stessa un
bene per cui il consumatore acquista il prodotto.
Inoltre Nelson rileva che il rapporto pubblicità/vendite per i beni d’esperienza è tre volte
superiore a quello riscontrato per i beni di ricerca; ciò può essere spiegato attraverso la
sopra citata velocità di questo tipo di messaggi, per lo più veicolati dalle immagini: la
loro celere apparizione comporta un altrettanto celere oblio nella mente del consumatore,
che pertanto deve essere “bombardato” da tali spot perché essi restino ben impressi
(contrariamente a quanto accade per i messaggi informativi). Liu e Forker (1988) inoltre
estendono tale effetto di decadenza del messaggio pubblicitario al lungo periodo: la
comunicazione con il consumatore deve essere continuativa perché questi mantenga vivo
il ricordo del prodotto. Tuttavia la sovraesposizione degli utenti a questo tipo di strategie
commerciali pare aver comportato un intorpidimento della loro ricettività al riguardo,
provocando una recente tendenza di riduzione degli investimenti nella pubblicità
associata al marchio (Carlton e Perloff, 2009).
Compendiando i contributi annoverati possiamo evincere che la pubblicità ha due
anime (informativa e persuasiva), che convivono in modo spesso simbiotico e
indistinguibile: tale doppiezza ha creato forti divergenze tra gli studiosi di economia,
posti di fronte alla difficoltà di inserire nei loro modelli tale variabile imprevedibilmente
mutevole.
Da queste teorie che cercano di stabilire il valore sociale della pubblicità possiamo
muovere verso i modelli che cercano di definirne la quantità ottimale dal punto di vista
dell’impresa e del benessere sociale.
14
1.2.2 Pesare l’immateriale: la definizione del livello ottimale di pubblicità
Precedentemente abbiamo considerato l’opinione di economisti che pongono l’accento
sulla natura persuasiva della pubblicità, secondo cui essa costituirebbe uno spreco sociale,
in quanto fornisce un’informazione di parte senza creare utilità per il consumatore.
Tuttavia sia nell’accezione di segnalazione che in quella di informazione vi sono degli
obiettivi comuni da parte delle imprese: aumentare il volume delle vendite e accrescere la
propria quota di mercato, traducibili rispettivamente nello spostamento della curva di
domanda verso l’alto e nella riduzione dell’elasticità della domanda.
Per identificare la quantità di prodotto che massimizza il profitto, l’impresa in ogni tipo
di mercato uguaglia i ricavi marginali ai costi marginali: in questo caso comprendiamo la
quantità di messaggi pubblicitari e il suo costo, al fine di determinare la quantità ottima di
pubblicità e di prodotto, ceteris paribus. Per un’impresa monopolista che fronteggia una
curva di domanda inclinata negativamente (in quanto coincidente con la curva di
domanda di mercato) e che pertanto pratica un prezzo superiore al ricavo marginale (e
dunque al costo marginale) dell’ultima unità venduta, la condizione di massimizzazione
del profitto inclusiva della pubblicità è espressa dall’equazione
k
da
dq
MC p
dove MC sono i costi marginali, a equivale alla quantità di pubblicità, e k è il costo di un
messaggio. Dividendo entrambi i membri per p, l’equazione diventa
p
k
da
dq
p
MC p
dove il primo membro può essere espresso attraverso l’indice di Lerner
p
k
da
dq
1
ed ε indica l’elasticità della domanda rispetto al prezzo, vale a dire
q
p
dp
dq
.