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CAPITOLO I
ORIGINI E RAGIONI DELL’INTERVENTO
COMUNITARIO
1. Il quadro di riferimento
Il contesto inerente la disciplina internazionale sull’orario di lavoro è ampio
e complesso, come dimostrano le numerose Convenzioni e Raccomandazioni
adottate dall’OIL a partire dal 1919
1
. Le ragioni della continua attenzione alla
questione sociale dell’orario di lavoro da parte degli organismi internazionali
derivano dalla concomitanza di due fattori. Tale interesse trova la sua
giustificazione storica, da un lato, nelle conseguenze economiche derivabili da
una limitazione della durata del lavoro disposta solo in alcuni Stati, dall’altro,
nella pregnante necessità di promuovere la cooperazione fra gli Stati stessi, non
solo per ravvicinare le discipline nazionali, ma anche per realizzare politiche del
lavoro integrative e di sostegno di quelle legislative, al fine di porre margini o
eliminare le distorsioni della concorrenza e del mercato e le forme di dumping
sociale
2
.
Il carattere universale del principio della durata massima dell’orario di
lavoro e l’attività svolta in merito da parte delle organizzazioni internazionali non
hanno impedito l’insorgere e il perpetuarsi di un conflitto tra le fonti
internazionali e tra queste e gli ordinamenti interni: ciò a causa, soprattutto, della
mancata o incorretta trasposizione della disciplina comunitaria negli Stati membri
e/o della scarsa effettività della prima nei secondi
3
. E’ in questo quadro complesso
1
Per un confronto con la normativa europea, si veda J. Murrai, Transnational Labour Regulation:
The ILO and EC Compared, , The Hauge-Boston-London, Kluwer Law International 2001.
2
G. Arrigo, Il diritto del lavoro nell’Unione Europea. Vol II, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 197-200.
3
Ivi, p. 200.
8
che si inserisce l’attività della Comunità europea (dapprima per il tramite di una
regolamentazione non vincolante), le cui finalità non sono sempre risultate
conformi alle norme internazionali, bensì, per taluni aspetti, si rivelano con esse
confliggenti
4
: mentre, infatti, la disciplina dell’Organizzazione Internazionale del
Lavoro mira al perseguimento di una tendenziale omogeneizzazione degli
ordinamenti nazionali intorno a standard minimi di protezione
5
, l’ordinamento
comunitario si confronta con una realtà più matura e complessa in cui si rende
necessaria una armonizzazione tra le finalità protettive e le nuove condizioni della
competizione economica evidenziatesi con il mutamento della fase post-fordista
6
.
Nel contesto della società industriale, le prime forme di regolamentazione
comunitaria dell’orario di lavoro nascono dall’esigenza di garantire condizioni di
tutela della personalità e della salute del lavoratore per fronteggiare il rischio e
porre un freno all’uso sovente smodato della manodopera al di là di qualsivoglia
ragionevole limite temporale
7
. Tale ratio originaria, di tutela della salute e della
sicurezza del lavoratore subordinato, rappresenta un aspetto che caratterizzerà,
sebbene con diversa intensità nelle diverse epoche, la disciplina della materia in
ambito comunitario
8
.
Il superamento del modello fordista ha indotto nuovi bisogni: quello di
elasticità e flessibilità degli orari che interessano le prestazioni, la crescente
necessità di conciliare tempi di lavoro e tempi di vita, l’uso del tempo di lavoro
come strumento utile alle politiche per l’impiego
9
.
La disciplina comunitaria dell’orario di lavoro è pertanto caratterizzata da
due diverse rationes, appartenenti a due diversi piani valoriali: protezione della
salute dei lavoratori versus salvaguardia della competitività delle imprese. Tale
4
Ibidem.
5
V. Di Martino, The Global Perspective – The ILO Instruments on Working Time, in R. Blanpain,
E. Köhler, J. Rojot (a cura di), Legal and contractual limitations to working time in the European
Union, Lussemburgo, Office for the Official Publications of the European Communities/Peeters, ,
1997.
6
G. Arrigo, Il diritto del lavoro nell’Unione Europea, cit., p. 200.
7
Cfr. C. Smuraglia, La persona del prestatore nel rapporto di lavoro, Milano, Giuffrè, 1967, p.
376 ss.; nonché S. Bertocco, La sicurezza del lavoratore nelle fonti internazionali del lavoro,
Padova, Cedam, 1995.
8
G. Ricci, Orario di lavoro, in S. Sciarra, B. Caruso (a cura di), Il lavoro subordinato, Torino,
Giappichelli, 2009, p. 146.
9
Ibidem. «In particolar modo, emerge la consapevolezza che dal modello di regolamentazione di
ispirazione tipicamente protezionistica, legato a modalità di organizzazione rigida del tempo di
lavoro, derivino vincoli e costi eccessivi per il sistema produttivo e delle imprese. Ciò ha indotto
progressivi adattamenti sul piano regolativo, resi possibili dal ricorso a nuove tecniche normative,
oltre che dal diverso configurarsi della relazione fra le fonti di regolamentazione del rapporto di
lavoro».
9
contrapposizione di finalità è presente nell’intera attività di regolamentazione
comunitaria dell’orario di lavoro, compresa l’attuale fase di transizione verso un
assetto riformato.
2. Le prime iniziative della Comunità in materia di orario di lavoro
La disciplina in materia di orario di lavoro nel sistema comunitario si fonda
sulle disposizioni contenute nella Direttiva 23 novembre 1993, n. 93/104/CE,
modificata dalla Direttiva 22 giugno 2000, n. 2000/34/CE e successivamente
codificata nella Direttiva 4 novembre 2003, n. 2003/88/CE.
Prima dell’approdo ad un sistema normativo sull’orario di lavoro così ben
strutturato, si è registrata una fase di regolamentazione soft della materia in
questione. Ad esso precede, infatti, una produzione normativa di misure non
vincolanti adottate dal Consiglio nella seconda metà degli anni ’70 e, per altro
verso, una giurisprudenza della Corte di Giustizia che, pur involgendo
direttamente istituti di diversa natura (libera circolazione delle merci o parità di
trattamento fra uomo e donna nel rapporto di lavoro), tende a riverberarsi, in via
mediata, sulle discipline nazionali in materia di orario di lavoro
10
.
L’interesse delle istituzioni comunitarie verso la disciplina dell’orario di
lavoro si manifesta, pertanto, per la prima volta a metà degli anni ’70, circa
vent’anni dopo la firma del Trattato di Roma. La limitata attenzione delle
istituzioni europee sino a quel momento trova spiegazione nel carattere evoluto
degli assetti normativi nazionali in tale materia e nella difficoltà di rinvenire un
accettabile punto di componimento fra le istanze protettive e le ragioni di
equilibrio competitivo connesse alla dimensione temporale della prestazione di
lavoro
11
.
Nella metà degli anni ’70, però, l’attenzione europea verso le tematiche
sociali raggiunse il suo apice grazie al combinarsi di due diverse tendenze. Da un
lato era impellente la necessità di individuare, in ambito sovranazionale, un
rimedio alla crisi produttiva industriale, causata dagli effetti negativi dello shock
petrolifero del 1973 e dalla diffusione delle tecnologie informatiche; dall’altro era
10
Cfr. G. Ricci, Orario di lavoro, in A. Baylos Grau, B. Caruso, M. D’Antona, S. Sciarra,
Dizionario di diritto del lavoro comunitario, Bologna, Monduzzi, 1996.
11
Ibidem.
10
ampiamente condivisa la consapevolezza che si dovesse conferire un’anima
sociale al processo federativo, visti i primi importanti ritardi dello stesso,
cercando così di avvicinare i cittadini ad un’entità che appariva loro ancora
astrattamente lontana
12
.
Segnatamente, la Raccomandazione del Consiglio del 22 luglio 1975, n.
457
13
, «relativa al principio della settimana di quaranta ore e al principio delle
quattro settimane di ferie annue retribuite», è il primo provvedimento di soft law
in materia di orario di lavoro, rimasto pertanto sprovvisto di effetti cogenti. Tale
Raccomandazione, con la quale il Consiglio suggerisce di procedere, per via
legislativa o negoziale (tramite contratti collettivi), ad una riduzione generalizzata
dell’orario di lavoro a quaranta ore settimanali
14
, a parità di salario, appare in
continuità con le tradizionali finalità protettive della disciplina dell’OIL
15
. Il
Consiglio raccomanda, in questa sede, agli Stati membri, di applicare il principio
delle quaranta ore «conformemente alla pratica ed alle condizioni nazionali
esistenti, per via legislativa ovvero incoraggiando le parti sociali a concludere
contratti collettivi […] in tutta la Comunità e in tutti i settori, entro il 31 dicembre
1978 […]» (punto 1). Il suddetto principio poteva, ad ogni modo, avere
un’applicazione flessibile sia in riferimento a «certi settori e attività», sia in
merito al termine finale indicato (il 31 dicembre 1978), previo accordo «tra le
parti direttamente interessate» e con la possibile esclusione di «taluni settori e
attività a causa della loro specifica natura». Quanto al principio della «durata
minima delle ferie annue retribuite, per le persone che soddisfano a tutte le
condizioni richieste per beneficiare di pieno diritto alle ferie», doveva, «a scelta
degli Stati membri, o essere di quattro settimane o corrispondere all’esonero da un
numero di giorni lavorativi pari al quadruplo di quello convenuto per settimana;
l'applicazione di questo principio implica[va] che i giorni festivi legali retribuiti,
che cadono nel periodo delle ferie annue retribuite, [fossero] compensati con un
pari numero di giorni da aggiungersi alle ferie annue retribuite» (punto 3).
12
V. Ferrante, Orario e tempi di lavoro, in F. Carinci, A. Pizzoferrato (a cura di), Diritto del
lavoro dell’Unione Europea, Torino, Utet Giuridica, 2010.
13
GUCE 30 luglio 1975, n. L 199, p. 32.
14
«Il Consiglio delle Comunità Europee […] raccomanda agli Stati Membri di prendere le misure
adeguate conformemente alla pratica ed alle condizioni nazionali esistenti , per via legislativa ,
ovvero incoraggiando le parti sociali a concludere contratti collettivi , ovvero con ogni altro mezzo
per raggiungere i seguenti fini […]».
15
Cfr. G. Ricci, Orario di lavoro, in S. Sciarra, B. Caruso (a cura di), Il lavoro subordinato, cit.,
p. 149.
11
Tale Raccomandazione presenta caratteri innovatori e anticipatori di
politiche (anche nazionali) sull’orario di lavoro, come quelle che – indicando le
quaranta ore settimanali come durata massima dell’orario normale di lavoro a
livello comunitario (senza riduzione della retribuzione) e le quattro settimane
come durata minima delle ferie – ne prevedevano un’applicazione “flessibile”
attraverso la contrattazione collettiva
16
.
Quattro anni dopo, nella Risoluzione approvata dal Consiglio il 18 dicembre
1979
17
sulla «ristrutturazione del tempo di lavoro», l’attenzione si sposta sulle
misure di ristrutturazione dell’orario
18
, che «devono essere concepite nella
prospettiva di un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e che devono
contribuire a migliorare la protezione del lavoro e ad incoraggiare la
partecipazione dei lavoratori al progresso economico e sociale». Nella
Risoluzione si suggeriscono, in forma assai generica, alcune modalità di gestione
del lavoro a turni e di riduzione degli orari annuali, in accordo con le parti sociali,
nonché, più nettamente, la limitazione del ricorso sistematico al lavoro
straordinario.
In questo secondo caso, il Consiglio riconobbe come le «misure emanande»
avrebbero dovuto essere comunque subordinate alla valutazione dei costi e della
capacità produttiva delle imprese.
Il Consiglio evidenzia il duplice profilo di politica sociale e di politica
economica
19
. Sul piano della politica sociale, ispirandosi alla normativa OIL, la
Risoluzione afferma che le misure di riorganizzazione del tempo di lavoro devono
«essere concepite nella prospettiva di un miglioramento delle condizioni di vita e
di lavoro e […] della protezione del lavoro per incoraggiare la partecipazione dei
lavoratori al progresso economico e sociale» (3° considerando). Inoltre, in
adesione ad alcuni punti del Programma sociale del 1974, essa sosteneva che le
misure suddette implicavano «una partecipazione dei lavoratori e dei loro
rappresentanti» (6° considerando) e che esse, nella loro «coerenza globale»,
16
G. Arrigo, Il diritto del lavoro nell’Unione Europea, cit., p. 202.
17
GUCE 4 gennaio 1980, n. L 2, p. 1.
18
«Il Consiglio sottolinea che la valutazione delle eventuali misure di ristrutturazione del tempo di
lavoro deve tener conto di numerosi elementi, tra i quali, in prima linea, figurano l'incidenza sulla
capacità produttiva delle imprese, le variazioni di produttività e la compensazione salariale ; che,
nella ricerca delle misure da prendere, dovrebbero essere prese in considerazione le possibilità di
decentramento, di differenziazione per settori e campi d'attività e di attuazione progressiva e che
dette misure dovrebbero poter essere oggetto di un riesame».
19
G. Arrigo, Il diritto del lavoro nell’Unione Europea, cit., p. 202.
12
dovevano essere realizzate da tutte le parti interessate anche «nell’ambito di un
dialogo e di una concertazione a livello comunitario» (7° considerando).
Sul piano della politica economica, la Risoluzione era invece attenta ad
inquadrare le suddette misure in una «strategia globale» diretta a «rafforzare il
potenziale di crescita, competitività e di innovazione, a migliorare la situazione
dell’occupazione e a far fronte all’emergenza di nuovi bisogni sociali in
condizioni non inflazionistiche» (2° considerando), anche per la crescente
rilevanza di «problemi strutturali del mercato del lavoro» (1° considerando).
Maggiore fortuna non ebbe nemmeno la successiva iniziativa della
Commissione. Si tratta di una seconda Raccomandazione sulla «riduzione e
ristrutturazione del tempo di lavoro», presentata in Consiglio il 23 settembre
1983
20
sulla scorta delle indicazioni contenute nella precedente Risoluzione,
rimasta allo stato di proposta poiché il Consiglio dei Ministri del Lavoro del
giugno 1984 rifiutò di approvare un progetto giudicato impraticabile in relazione
alla trattazione, finanche nell’ambito della soft law, di una materia “irrituale”,
quale quella relativa alle connessioni fra organizzazione dei tempi di lavoro,
competitività delle imprese e dinamiche occupazionali
21
.
Come si vede, l’attenzione verso i rapporti tra riorganizzazione (e riduzione)
del tempo di lavoro e obiettivi di politica occupazionale caratterizza anche le
iniziative della Commissione negli anni Ottanta. Nel Memorandum del 1981, la
Commissione indica infatti la «riorganizzazione del tempo di lavoro» come il
primo dei sei «campi di intervento» di quello che andava costituendosi come
«spazio sociale europeo»
22
. L’equazione «riduzione dell’orario-riduzione della
disoccupazione» divise subito le Associazioni datoriali e le Organizzazioni dei
lavoratori sia in ambito nazionale che europeo. Alla richiesta di un utilizzo più
intenso dell’apparato produttivo e di una maggiore flessibilità nell’utilizzo della
manodopera, le Organizzazioni sindacali contrapponevano l’esigenza di maggior
tutela della salute dei lavoratori. Questa netta divergenza, non solo tra le parti
sociali ma anche tra gli Stati membri, che adottavano discipline diverse, suggeriva
una certa cautela nel porre mano a norme vincolanti sull’orario
23
. La nuova
20
La proposta di raccomandazione è in GUCE 26 ottobre 1983, n. L 290, p. 4.
21
Cfr. G. Ricci, Orario di lavoro, in A. Baylos Grau, B. Caruso, M. D’Antona, S. Sciarra,
Dizionario di diritto del lavoro comunitario, cit., pp. 593-594.
22
G. Arrigo, Il diritto del lavoro nell’Unione Europea, cit., p. 203.
23
Ibidem.
13
proposta di Raccomandazione prendeva le mosse proprio dal binario della
«riduzione dell’orario e riduzione della disoccupazione», ma, come si è già visto,
non fu approvata, né venne ripresentata.
Un nuovo slancio all’adozione di norme comunitarie in materia di orario
sembrò venire dalla Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali
24
, approvata
dal Consiglio europeo di Strasburgo nel dicembre 1989
25
. Tra i suoi obiettivi vi è
quello relativo al «miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro», da
realizzarsi «soprattutto per quanto riguarda la durata e l’organizzazione dell’orario
di lavoro e le forme di lavoro diverse dal lavoro a tempo determinato» (art. 7 della
Carta) e quello relativo all’assunto che «ogni lavoratore della Comunità Europea
ha diritto al riposo settimanale e a ferie retribuite i cui periodi devono essere via
via ravvicinati, in modo da ottenere un progresso, conformemente alle prassi
nazionali» (art. 8).
Il valore programmatico della Carta di Strasburgo ed il rifiuto inglese di
aderirvi impedirono tuttavia a tale nuova iniziativa comunitaria di procedere
innanzi su solide basi
26
. Ad ogni modo, tali enunciati paiono ulteriormente
sviluppati nel Programma d’azione finalizzato all’attuazione della Carta dei diritti
sociali del 1989
27
. In quella sede, la Commissione sostenne la necessità di
approvare, in tempi brevi, una direttiva sulla «ristrutturazione del tempo di
lavoro», recuperando, in tal modo, la terminologia già utilizzata negli interventi
degli anni ’70. Essa pone l’accento su concetti importanti quali «ristrutturazione»,
«flessibilità» ed «organizzazione» del tempo di lavoro, valutati come «elementi
essenziali delle condizioni di lavoro e del dinamismo delle imprese», con un
«ruolo non trascurabile nell’evoluzione del mercato del lavoro e nella creazione di
nuovi impieghi»
28
. Considerando l’ampia diffusione, in molti paesi, di prassi
diverse per gestire la problematica inerente l’orario di lavoro, la Commissione
auspica l’emanazione di una disciplina normativa unificante, idonea a costituire il
24
Ibidem.
25
B. Bercusson, The european Community’s Charter of fundamental social rights of workers, in
MLR, 1990, p. 633.
26
Cfr. V. E. Vogel-Polsky, Quel futur pour l’Europe sociale après le sommet de Strasbourg, in
DrSoc, n. 2, 1990, p. 219 ss.
27
Communication from the Commission concerning its Action Programme relating to the
Implementation of the Community Charter of Basic Social Rights for Workers, COM(89) 568 del 5
dicembre 1989.
28
G. Ricci, Orario di lavoro, in A. Baylos Grau, B. Caruso, M. D’Antona, S. Sciarra, Dizionario
di diritto del lavoro comunitario, cit., p. 594.
14
fondamento di una più puntuale regolamentazione di tipo contrattuale; anche
perché, conclude il documento, occorre «essere vigili affinché tali pratiche non
nuocciano alla salute e al benessere dei lavoratori»
29
. Il fine è quello di tradurre in
atti vincolanti almeno una parte dei progetti di cui la Commissione aveva dovuto
registrare il fallimento nel corso degli anni precedenti.
3. La giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di riposo
domenicale e lavoro notturno delle donne
Il trade-off tra ragioni protettive e aspetti competitivi che sbilanciano la
regolamentazione dell’orario di lavoro in un senso o nell’altro, si ritrova, in forme
molto diverse, nella giurisprudenza «obliqua» della Corte di Giustizia, ovvero nel
contesto di pronunce su questioni non direttamente attinenti il tempo di lavoro:
segnatamente, in materia di riposo settimanale e lavoro notturno delle donne
30
.
Tali tipi di intervento mettono in rilievo la tecnica utilizzata dalla Corte
nell’elaborazione della sua giurisprudenza “sociale” ove, «in assenza di
prescrizioni puntuali nel diritto comunitario vigente […], i giudici di
Lussemburgo [affrontano] le singole questioni portate alla loro attenzione sulla
base di norme relative ad altre politiche comunitarie, costruendo via via una
giurisprudenza che verrebbe fatto di definire obliqua»
31
.
La dialettica fra ragioni protettive e aspetti competitivi, pertanto, si
estrinseca nella tensione fra i due filoni giurisprudenziali inaugurati,
rispettivamente, dalle sentenze Torfaen Borough (1989) e Stoeckel (1991).
In Torfaen Borough
32
vengono poste dinanzi alla Corte tre questioni
pregiudiziali
33
«vertenti sull'interpretazione degli artt. 30 e 36 del trattato CEE»,
nella causa che vede coinvolti il Torfaen Borough Council, da un lato, e B & Q
plc, dall’altro. Ciò che qui rileva è che la Corte viene chiamata a pronunciarsi
29
Ibidem.
30
Cfr. G. Ricci, Orario di lavoro, in S. Sciarra, B. Caruso (a cura di), Il lavoro subordinato, cit., p.
149.
31
M. Roccella, La Corte di giustizia e il diritto del lavoro, Torino, Giappichelli, 1997, p. 25. Il
riferimento a quella giurisprudenza della Corte è stata definita tale anche in M. Roccella, Tutela
della concorrenza e diritti fondamentali nella giurisprudenza sociale della Corte di Giustizia, in
DLRI, 1993, p. 1 ss.
32
Corte di giustizia 23 novembre 1989, C-145/88, Torfaen Borough Council c. B. & Q plc [B & Q
(Retail) Limited], in Racc, 1986, p. 3851 ss.
33
V. punto 8 della sentenza.
15
sulla legittimità, ai sensi dell’art. 30 del Trattato CEE (ora art. 28 TCE)
34
, di
disposizioni nazionali (nella specie l’United Kingdom Shops Act del 1950) che
vietano l’apertura domenicale degli esercizi commerciali al minuto, creando
indirettamente il vincolo del riposo domenicale e se ciò debba considerarsi in
contrasto con il principio di libera circolazione delle merci e quindi con un profilo
della politica comunitaria di tutela della concorrenza
35
. La Corte esclude che tali
misure possano comportare indirette restrizioni alla libera circolazione delle
merci, qualora limitino indifferentemente lo smercio di prodotti nazionali ed
esteri; soprattutto afferma che tali normative costituiscono «espressione di
determinate scelte politiche ed economiche», poiché hanno il fine di garantire una
regolamentazione normativa in armonia con le peculiarità socioculturali nazionali
o regionali di ciascuno Stato membro. Secondo la Corte, pertanto, l’art. 30 del
Trattato non osta a che la legislazione di uno Stato membro disponga un divieto di
lavoro domenicale.
Tali principi sono poi stati ribaditi dalla Corte in altre pronunzie su
questioni analoghe a quelle presenti nel caso Torfaen
36
, nonché con riferimento a
normative nazionali contenenti divieti espliciti di lavoro domenicale
37
.
La risposta data dalla Corte nella sentenza Torfaen ha senza dubbio deluso i
fautori di una deregulation incontrollata dei rapporti di lavoro, «essendo risultata
incentrata sull’affermazione della legittimità e conformità agli obiettivi del
Trattato di Roma di una regolamentazione nazionale della durata del lavoro che
34
Ai sensi dell’art. 30 Trattato CEE (ex art. 28), «sono vietate fra gli Stati membri le restrizioni
quantitative all'importazione nonché qualsiasi misura di effetto equivalente».
35
La B & Q ha infatti sostenuto dinanzi al giudice a quo che «l'art. 47 dello Shops Act 1950
rappresenta una misura d'effetto equivalente a restrizioni quantitative all'importazione ai sensi
dell'art. 30 del trattato CEE e che detta misura non si giustifica in forza dell'art. 36 del trattato CEE
né di qualsivoglia “esigenza imperativa”» (punto 8).
36
Cfr. Corte di giustizia 16 dicembre 1992, C-169/91, Council of the City of Stoke-on-Trent e
Norwich City Council c. B & Q plc, Corte di giustizia 24 novembre 1993, C-267 e 268/91,
Procedimenti penali contro Bernard Keck e Daniel Mithouard; Corte di giustizia 2 giugno 1994,
C-401 e 402/92, Procedimenti penali contro Tankestation ‘t Heukske vof e J.B.E. Boermans. Altre
pronunzie della Corte di giustizia sono state originate da ordinanze di rimessione di giudici italiani
(cfr. segnatamente Pret. Roma, Castelnuovo di Porto, ord. 16 dicembre 1992, in Foro it., 1993, I,
c. 1296).
37
È il caso di Corte di giustizia 28 febbraio 1991, C-312/89, Union départementale des syndicats
CGT de L’Aisne c. Sidef-Conforama e a. (sulla normativa francese); Corte di giustizia 28 febbraio
1991, C-332/89, Procedimento penale contro André Marchandise e a. (sulla legislazione belga).
Naturalmente, dal punto di vista del diritto comunitario, le disposizioni impugnate, qualora vietino
direttamente lo svolgimento di lavoro domenicale, rilevano sotto il profilo della possibile
illegittima restrizione degli scambi commerciali intracomunitari. Diversamente, nel caso Torfaen,
lo Shops Act del Regno Unito menziona le operazioni commerciali e gli articoli in vendita
consentiti la domenica e non vieta esplicitamente il lavoro domenicale.
16
comporti un certo ostacolo alla libera circolazione delle merci»
38
. Normative
come le disposizioni di cui all’art. 47 dello Shops Act, secondo la Corte, non
possono essere considerate funzionali a disciplinare i flussi di scambio fra Stati
membri e perciò non rientrano, in linea di massima, nel divieto di cui all’art. 30
del Trattato
39
.
Più complessa risulta, invece, la fattispecie relativa alla conformità con i
principi del diritto comunitario di misure nazionali limitative del lavoro notturno
femminile, che emerge dalla sentenza Stoeckel
40
.
Nel caso in oggetto, il Tribunal de police di Illkirch, nell’ambito di un
procedimento penale a carico del sig. Stoeckel, direttore della SA Suma, «imputato
per aver addetto, il 28 ottobre 1988, 77 donne al lavoro notturno in violazione
dell’art. L. 213-1 del Code du travail francese», ha posto alla Corte di giustizia
una questione pregiudiziale vertente sull’interpretazione dell’art. 5 della direttiva
del Consiglio 9 febbraio 1976, n. 76/207/CEE, «relativa all'attuazione del
principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda
l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni
di lavoro». Ai sensi dell’art. 5, n. 1, «l'applicazione del principio della parità di
trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro implica che siano garantite
agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate
sul sesso». Diversamente, «l’art. L 213-1 del Codice del lavoro francese [afferma
che] le donne non possono essere adibite ad alcun lavoro notturno,
particolarmente nelle fabbriche, stabilimenti ed officine di qualsivoglia natura. Lo
stesso articolo prevede, tuttavia, alcune deroghe relative, ad esempio, a mansioni
di direzione o di carattere tecnico, che comportino responsabilità, e a quelle
situazioni in cui, in ragione di circostanze particolarmente gravi, l'interesse
nazionale esiga la sospensione del divieto di lavoro notturno per i lavoratori
dipendenti soggetti ai turni, con modalità e in base ad una procedura fissate dal
codice medesimo»
41
. Con la suddetta questione pregiudiziale ci si chiede,
pertanto, «se l'art. 5 della direttiva 9 febbraio 1976 sia sufficientemente preciso
per creare a carico di uno Stato membro l'obbligo di non porre come principio
38
M. Roccella, La Corte di giustizia e il diritto del lavoro, cit., p. 27.
39
Ibidem.
40
Corte di giustizia 25 luglio 1991, C-345/89, Procedimento penale contro Alfred Stoeckel, in
Racc., 1991, p. 4047 ss.
41
Corte giust. 25 luglio 1991, cit., punto 5.
17
legislativo il divieto del lavoro notturno femminile, quale figura all'art. L 213-1
del Codice del lavoro francese»
42
.
La Corte di giustizia considera la normativa francese citata, che stabilisce il
divieto di lavoro notturno delle donne, fatte salve talune fattispecie in deroga, in
contrasto con i principi comunitari in materia di eguaglianza fra uomo e donna. I
giudici comunitari ritengono infatti che la direttiva, stabilendo all’art. 5 il
principio di parità di trattamento fra i sessi nell’accesso all’impiego e le
condizioni di lavoro, e prevedendo, a tal fine, la soppressione o la modifica delle
norme nazionali in contrasto con tali principi, sia sufficientemente precisa ed
incondizionata «per creare a carico degli Stati membri l’obbligo di non stabilire
come principio legislativo il divieto del lavoro notturno delle donne, anche se
quest'obbligo comporta deroghe, mentre non vige alcun divieto del lavoro
notturno per gli uomini»
43
. Pertanto, i singoli interessati possono far valere il
principio normativo comunitario innanzi ai giudici nazionali ed ottenere la
disapplicazione delle norme nazionali con esso in contrasto
44
.
A differenza della questione del riposo domenicale, nel caso del lavoro
notturno «l’intreccio ha riguardato un profilo della disciplina dell’orario e la
politica comunitaria di parità di trattamento fra lavoratori e lavoratrici ed è servito
alla Corte per dichiarare l’incompatibilità col diritto comunitario di normative
nazionali che subordinino il lavoro notturno femminile a condizioni più restrittive
e comunque diverse da quelle previste per i lavoratori di sesso maschile»
45
. Dal
punto di vista dell’ordinamento comunitario non basta una «convinzione diffusa»,
un «pregiudizio», circa il carattere specificamente nocivo per la salute delle donne
di una data attività lavorativa, per giustificare un trattamento differenziale
46
. Dopo
aver accertato, pertanto, anche sulla base di indagini condotte in seno
all’Organizzazione Internazionale del Lavoro
47
, che il lavoro notturno, sebbene
sicuramente pregiudizievole per la salute di chi vi sia coinvolto, non produce
42
Corte giust. 25 luglio 1991, cit., punto 9.
43
Corte giust. 25 luglio 1991, cit., punto 20.
44
G. Ricci, Orario di lavoro, in S. Sciarra, B. Caruso (a cura di), Il lavoro subordinato, cit., p.
151. Inoltre, per una ricostruzione più puntuale della vicenda, cfr. S. Sciarra, Integrazione
dinamica fra fonti nazionali e comunitarie: il caso del lavoro notturno delle donne, in DL, 1995, p.
156 ss.
45
M. Roccella, La Corte di giustizia e il diritto del lavoro, cit., p. 35.
46
Ivi, p. 43.
47
Cfr. Carpentier e P. Cazamian, Le travail de nuit, Genève: Bit, 1978, p. 39 ss; Le travail de nuit.
Rapport V (1), Genève: Bit, 1988, p. 77.
18
danni sostanzialmente diversi a seconda del sesso, eccezion fatta ovviamente per i
casi di gravidanza e puerperio, la Corte non avrebbe potuto dichiarare legittimo il
divieto di lavoro notturno femminile
48
. È chiaro come la Corte di giustizia non
abbia voluto legittimare indiscriminatamente il ricorso al lavoro notturno delle
donne, bensì abbia invece affermato che, a fronte di un problema che tocca un
diritto fondamentale come quello alla salute, parte del «nocciolo duro» del diritto
del lavoro comunitario, le regole giuridiche devono essere «uguali» per tutti
coloro che ne siano interessati, ferma restando la legittimità dell’obiettivo di
limitare per tutti, nel miglior modo possibile, il ricorso a questo tipo di attività
lavorativa
49
.
I principi espressi nella sentenza Stoeckel, sono poi stati ribaditi dalla Corte
in altre pronunzie su questioni analoghe
50
.
Il carattere discriminatorio di misure istitutive di divieti, ancorché relativi,
di lavoro notturno per ragioni di genere è stata ribadita, infatti, nelle successive
sentenze Levy
51
e Minne
52
pur con qualche precisazione sulla possibile
prevalenza, in ambito nazionale, di fonti di diritto internazionale ratificate dagli
Stati prima dell’entrata in vigore del Trattato istitutivo delle Comunità europee.
Il caso Levy non presenta problemi particolari, riguardando la medesima
legislazione francese già presa in considerazione in Stoeckel e trattandosi,
nuovamente, di una questione pregiudiziale formulata in occasione di un
procedimento penale contro un imprenditore accusato di aver adibito alcune
lavoratrici a turni di notte in violazione del vigente divieto legale
53
.
Il caso Minne, viceversa, è più significativo, in quanto la questione della
compatibilità comunitaria di una normativa nazionale all’origine di un divieto di
lavoro notturno femminile è stata posta in termini diversi. Qui, la legge belga
contestata prevede, infatti, un divieto generale di lavoro notturno, applicabile agli
uomini e alle donne, affiancato però da un regime derogatorio di più ampia portata
e maggiormente flessibile nei confronti dei lavoratori: cosicché, analogamente a
48
M. Roccella, La Corte di giustizia e il diritto del lavoro,, cit., p. 43.
49
Ivi, p. 44.
50
Cfr. M. Roccella, La Corte di giustizia e il diritto del lavoro, cit., pp. 57-66; G. Ricci, Orario di
lavoro, cit., pp. 151-152.
51
Corte di giustizia 2 agosto 1993, C-158/91, Procedimento penale contro Jean-Claude Levy, in
Racc., 1993, p. 4287.
52
Corte di giustizia 3 febbraio 1994, C-13/93, Office National de l’emploi, Onem, c. Madeleine
Minne, in Racc., 1994, p. 371.
53
M. Roccella, La Corte di giustizia e il diritto del lavoro, cit., p. 57.
19
quanto accadrebbe se il divieto riguardasse solo le lavoratrici, per effetto di una
simile disciplina gli uomini finiscono col godere di maggiori possibilità
d'impiego
54
.
Con riguardo ad una «discriminazione individuabile non nel principio del
divieto del lavoro notturno, applicabile indistintamente agli uomini e alle donne,
ma nelle deroghe ad esso apportate», la Corte ha riaffermato la ragione ispiratrice
già emersa nella sua precedente giurisprudenza: segnatamente, quanto al caso
specifico, afferma che l’art. 5 della direttiva n. 76/207 «osta a che uno Stato
membro mantenga in vigore nella sua normativa deroghe a un divieto generale del
lavoro notturno che sono ore subordinate a condizioni più restrittive per le donne
rispetto agli uomini e che non possono essere giustificate né dalla necessità di
garantire la protezione della condizione biologica della donna, né dalle relazioni
particolari fra la donna e il figlio»
55
.
Le sentenze Levy e Minne, in definitiva, hanno consentito alla Corte di
giustizia di ribadire il significato di fondo della propria giurisprudenza in materia
di lavoro notturno femminile nel senso di una più chiara salvaguardia del
«principio di parità nell’accesso al lavoro», poiché, a fronte di attività sicuramente
nocive per la salute di chi vi sia addetto, ma non tali da comportare rischi
apprezzabilmente diversi nei confronti delle lavoratrici, sono stati censurati quei
divieti legali atti a determinare un’irragionevole riduzione delle possibilità di
lavoro delle donne rispetto agli uomini
56
.
Infine, la mancata illegittimità delle norme nazionali che vietano il lavoro
notturno delle donne incinte, ossia in presenza di specifiche cause di natura
biologica che giustificano pertanto un trattamento temporaneamente
differenziato
57
, senza pregiudizio del principio di parità di trattamento (principio
contenuto nella sentenza Stoeckel al punto 3), è stata ribadita dalla Corte nelle
sentenze Habermann
58
e Webb
59
.
54
Ibidem.
55
Ivi, p. 58.
56
Ibidem.
57
Per una più recente conferma dell’orientamento in esame, v. Corte di giustizia 1 febbraio 2005,
C-203/03, Commissione delle Comunità europee c. Repubblica d’Austria, in Racc., 2005, p. 935.
58
Corte di giustizia 5 maggio 1994, C-421/92, Gabriele Habermann-Beltermann c.
Arbeiterwohlfahrt, Bezirksverband Ndb./Opf. E. V., in Racc., 1994, p. 1657.
59
Corte di giustizia 14 luglio 1994, C-32/93, Carole Louise Webb c. EMO Air Cargo (UK) Ltd, in
Racc., 1994, p. 3567.
20
I due filoni giurisprudenziali richiamati con le sentenze Torfaen Borough e
Stoeckel, esplicano effetti convergenti dal punto di vista istituzionale,
configurando un effetto di «armonizzazione» di taluni aspetti della disciplina del
tempo di lavoro, perseguita cioè attraverso la rimozione o l’affievolimento di
misure limitative della libera concorrenza sul mercato delle merci o del lavoro,
piuttosto che mediante interventi di regolazione diretta
60
.
Dal punto di vista delle istanze di politica del diritto perseguite dalla
giurisprudenza, non sfugge, invece, la diversità degli esiti cui essa perviene
61
.
Nel primo caso analizzato, la possibile rimozione dei limiti della libera
circolazione intracomunitaria delle merci non ha costituito un mezzo per
scardinare il tradizionale assetto delle fonti nazionali in materia di diritto al riposo
domenicale, così evitando di sindacare la varietà degli assetti regolativi, spesso
condizionati da tradizioni nazionali di matrice culturale e religiosa oramai
sedimentatisi nei rispettivi Stati membri. In tal modo, la Corte ha agito
determinando la prevalenza delle ragioni protettive sugli aspetti competitivi, con il
risultato di una sostanziale tenuta del modello sociale tradizionale a fronte degli
imperativi del mercato e quindi di una mancata ingerenza su quelle che sono le
convenzioni e le abitudini generali che coinvolgono il lavoratore di uno Stato
membro, abituato, per fattori di varia natura, a non svolgere la sua attività
lavorativa la domenica
62
; sebbene poi, in ultima analisi, la Corte abbia laicamente
inteso rimettere ai legislatori nazionali la scelta della collocazione della giornata
di riposo nell’arco della settimana, in un giorno anche diverso dalla domenica
63
.
Al contrario, nel secondo caso considerato, si ha la prevalenza del filone
giurisprudenziale attento alla salvaguardia della competitività delle imprese sulle
istanze protettive, in quanto la Corte di giustizia, sotto l’egida del principio della
parità di trattamento, ha portato alle estreme conseguenze il riconoscimento
dell’illegittimità di misure limitative del lavoro notturno femminile, con
l’obiettivo di rimuovere, eccetto per le lavoratrici gravide o puerpere, i limiti
fortemente sentiti nella coscienza sociale e culturale (o anche religiosa) dei popoli
60
G. Ricci, Orario di lavoro, in S. Sciarra, B. Caruso (a cura di), Il lavoro subordinato, cit., p.
153.
61
Ibidem.
62
Cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, Bari, Laterza, 2003, p. 92.
63
Cfr. R. Foglia, L’attuazione giurisprudenziale del diritto comunitario del lavoro, Padova,
Cedam, 2002, p. 303.
21
che associano all’immagine femminile le istanze di protezione della funzione
familiare della donna
64
.
Tale presa di posizione da parte della Corte è stata però fortemente criticata
in passato da un’ampia parte della dottrina
65
, poiché si è rimproverato ai giudici di
aver fatto uso del criterio di parità «formale» a discapito della ben più rilevante
eguaglianza «sostanziale». Infatti, la sentenza resa nel luglio ’91 nel caso Stoeckel
ha fatto molto discutere ed ha suscitato numerose critiche; qualche commentatore,
addirittura, ha ritenuto di potervi scorgere i segni di un modo di ragionare in
controtendenza rispetto a tutta la storia del diritto del lavoro. Secondo tale dottrina
i giudici comunitari hanno prestato scarsa attenzione ad alcuni profili socialmente
rilevanti, che fondano la ratio protettiva della disciplina: i maggiori rischi che la
collocazione dell’orario di lavoro in ore notturne può comportare per le lavoratrici
e l’esigenza di conciliare i tempi di lavoro e i tempi di vita delle lavoratrici, in
particolare quello dedicato al c.d. lavoro di cura, che si svolge nell’ambito della
famiglia. Pertanto, si è sottolineata la modesta persuasività della tesi della Corte di
giustizia, sostenuta sin da Stoeckel, secondo cui gli inconvenienti del lavoro
notturno non si differenziano a seconda del sesso del lavoratore, mentre le
responsabilità familiari non possono costituire oggetto di disciplina della
Direttiva, trattandosi di vicende estranee alla disciplina giuridica. Stante l’oggetto
della decisione, non sembra fuori luogo constatare che i commenti più aspri siano
provenuti da giuristi di sesso maschile. Valutazioni più equilibrate, ma allo stesso
tempo, più problematiche, sono invece state sollevate da alcune giuriste donne
66
.
4. L’iter di approvazione della direttiva 93/104/CE
La tensione fra esigenze protettive ed istanze di competitività economica
emerge inoltre, in tutta la sua portata, nella fase di approvazione della direttiva
sull’organizzazione dell’orario di lavoro
67
.
64
Come avviene nel caso italiano, persino elevate a dignità costituzionale (art. 37 Cost.).
65
B. Caruso, L’Europa sociale: quale percorso per il diritto?, in LD, 1992, p. 308; M. D’Antona,
Uguaglianze difficili, in LD, 1992, p. 605; M. V. Ballestrero, Corte costituzionale e Corte di
giustizia. Supponiamo che…, in LD, 1998, 3-4, p. 503.
66
Cfr. M. Bonnechère, Egalité de traitement en droit communitaire et travail de nuit des femmes,
in Dr. ouvr, 1991, p. 351 ss.; M. A. Moreau, Travail de nuit des femmes, observations sur l’arret
de la CJCE du 25 juillet 1991, in DrSoc, 1992, p. 174 ss.; M. Ballestrero, A proposito di
eguaglianza e diritto del lavoro, in LD, 1992, p. 585 ss.
67
G. Ricci, Orario di lavoro, in S. Sciarra, B. Caruso (a cura di), Il lavoro subordinato, cit., p.
155.