6
aziendali con riduzione del numero degli occupati. Ed è proprio in
questi anni che, allo scopo di conservare i livelli occupazionali, si
autorizza la contrattazione collettiva a introdurre deroghe anche in
senso peggiorativo rispetto alla disciplina di fonte legislativa.
Anche gli anni Ottanta si caratterizzano per il perdurare della
crisi economica ma soprattutto per l’avvio, con alterne fortune,
della concertazione fra Governo e parti sociali nella quale si
accentuano le tendenze deregolative del diritto del lavoro. Il
Governo, infatti, per raggiungere determinati obiettivi di politica
dei redditi (rallentamento del meccanismo di indicizzazione
salariale e contenimento della spesa nel settore previdenziale al fine
di contenere la crescita dell’inflazione) interviene direttamente
offrendo alle parti delle risorse (ad esempio aumento degli assegni
familiari a favore dei lavoratori oppure fiscalizzazione degli oneri
sociali per i datori di lavoro) allo scopo di far concludere
determinati accordi che possano permettere al Paese di
incamminarsi sulla strada della ripresa.
Così nel 1983 Governo, Confindustria, Cgil, Cisl e Uil
sottoscrivono un accordo chiamato accordo Scotti dal nome del
ministro del lavoro, che sembra aprire una nuova fase delle
relazioni industriali basata sul dialogo fra le parti. Purtroppo questa
fase non dura a lungo in quanto nel 1984 un nuovo accordo non
viene sottoscritto dalla Cgil (viene perciò definito “disaccordo di
San Valentino”), determinando così una spaccatura fra i tre
sindacati e l’interruzione della pratica della concertazione.
Comunque questa è una fase del diritto del lavoro nella quale
svolge un ruolo importantissimo la contrattazione collettiva sia in
funzione derogativa ma anche integrativa. Ad esempio viene
approvata la legge sul part-time (L. n. 863/1984) che autorizza la
contrattazione collettiva a far prestare lavoro supplementare per
venire incontro a particolari esigenze della produzione, ma anche a
stabilire il numero di lavoratori part-timers rispetto a quelli a tempo
pieno.
7
Un altro esempio è costituito dalla legge sul contratto a termine
(L. n. 56/1987), che dà la facoltà alla contrattazione collettiva di
individuare altri casi a cui è possibile apporre un termine.
La pratica degli accordi triangolari è stata riavviata negli anni
Novanta, ma questa volta ha come obiettivo quello di creare delle
regole certe alla contrattazione collettiva. Con il protocollo del 23
luglio 1993 si delinea un nuovo assetto della contrattazione. Si
prevede infatti una disciplina di coordinamento e vincoli tra il
contratto nazionale di categoria e quello aziendale, con il primo che
deve disciplinare le condizioni minime di trattamento della forza
lavoro ed il seconda che può disciplinare solo materie non
regolamentate dal livello superiore. Quest’accordo deve essere visto
come un tentativo di istituzionalizzare le relazioni industriali poiché
è il governo che decide chi ammettere alle trattative e perché
vengono stabilite determinate regole da seguire per giungere al
rinnovo di un accordo.
Venendo a considerare i giorni nostri, non c’è dubbio che le
novità più importanti sono state introdotte dal decreti legislativi n.
80/1998 e n. 387/1998 che hanno dettato nuove disposizioni in
materia di organizzazione e di disciplina dei rapporti di lavoro dei
dipendenti delle Pubbliche Amministrazioni. Ai fini di questo
lavoro, questi decreti sono importanti perché hanno introdotto
notevoli modifiche sia all’istituto della conciliazione che a quello
dell’arbitrato. Infatti prima di questi interventi, vi era una netta
preferenza delle parti a ricorrere alla via giudiziale per la
risoluzione delle controversie, e questo aveva causato un
incremento tale del contenzioso del lavoro da rischiare di
paralizzare l’attività giudiziaria. Ed è proprio allo scopo di creare
delle stabili alternative alla via giudiziaria che sono stati rinnovati
questi istituti.
Per quanto riguarda la conciliazione, il D. Lgs. n. 80/1998
prevede l’obbligo di esperire obbligatoriamente il tentativo di
conciliazione prima del ricorso in giudizio e, solo dopo che questo
8
non ha dato nessun esito, oppure dopo che siano trascorsi 60 giorni
(90 per quanto riguarda il pubblico impiego) dalla presentazione
della domanda, si può ricorrere alla autorità giudiziaria .
Per quanto concerne l’arbitrato, sono diversi i motivi che hanno
portato ad uno scarso utilizzo di quest’istituto.
Per quanto riguarda quello rituale, la L. n. 533/1973 vieta il
compromesso individuale, il giudizio secondo equità, la
dichiarazione di non impugnabilità del lodo e prevede
l’impugnabilità per violazione o falsa applicazione dei contratti
collettivi. A dispetto del nome, anche per l’arbitrato libero erano
previsti diversi obblighi e cioè che doveva essere previsto dalla
legge o dai contratti collettivi, che il lodo non era valido se vi erano
state violazioni di norme inderogabili di legge o dei contratti
collettivi e che l’impugnazione doveva essere sottoposta alla
disciplina dell’art. 2113 c.c. Oltre a questi vincoli legali, erano le
stesse organizzazioni sindacali che non si fidavano di quest’istituto,
perché veniva visto come uno strumento per garantire
maggiormente il datore di lavoro, che non come una strada
differente rispetto a quella di ricorrere all’autorità giudiziaria.
Con i decreti legislativi n. 80/1998 e n. 387/1998, invece il
legislatore muta atteggiamento poiché è intervenuto per disciplinare
l’arbitrato irrituale allo scopo di ridurne notevolmente le rigidità
che in precedenza ne avevano disincentivato l’uso, soprattutto
attraverso l’eliminazione del richiamo all’art. 2113 c.c. che, come
si vedrà in seguito, aveva suscitato molte polemiche.
Sempre di questo periodo è il dibattito, sorto in dottrina, fra i
sostenitori della necessità di modificare la nozione di lavoro
subordinato, al fine di estendere alcune tutele anche ai lavoratori
cosiddetti parasubordinati e fra chi ritiene che non si deve toccare la
definizione di lavoro subordinato data dall’art. 2094 c.c., dando vita
ad una discussione anche sulla conservazione della norma
inderogabile.
9
I fautori di una revisione dell’attuale sistema di tutele si sono
fatti portatori delle loro istanze anche in Parlamento depositando tre
diversi disegni di legge. Volendo cercare un elemento comune a
queste tre proposte, lo possiamo identificare nella volontà di non
modificare la disciplina posta a tutela del lavoro subordinato, ma di
estendere alcune garanzie ad un determinato tipo di lavoratore che
non si può definire subordinato, ma neanche autonomo.
Come si vedrà successivamente, non tutti sono d’accordo
sull’ipotesi di dare vita ad nuova fattispecie, o perché si sostiene la
vitalità dell’art. 2094 c.c. oppure perché si ha il timore che creando
due aree a protezione differenziata, l’area più protetta diverrebbe
inaccessibile mentre in quella meno protetta si addenserebbero i
soggetti più deboli.
Quindi la questione riguardante l’idoneità o meno della soluzione
legislativa per poter risolvere il problema relativo all’eventuale
protezione da accordare ai cosiddetti lavoratori parasubordinati è
ancora aperta. Per quanto mi riguarda, propendo per l’utilizzo dello
strumento legislativo, e nella parte riservata alle conclusioni
spiegherò il perché ed anche quale delle soluzioni prospettate
ritenga migliore.
10
Capitolo primo
LE RINUNCE E LE TRANSAZIONI:PROFILO STORICO
1. Origini dell’art. 2113 c.c.
La possibilità per il lavoratore subordinato di disporre
liberamente dei propri diritti è limitata dall’art. 2113 c.c. Tale
norma, nel testo vigente, stabilisce l’invalidità delle rinunzie e delle
transazioni su diritti derivanti da norme inderogabili di legge e dei
contratti collettivi, l’impugnabilità entro un termine di decadenza di
sei mesi (decorrenti dalla cessazione del rapporto o dal momento in
cui è intervenuta la rinuncia o la transazione) e la validità delle
rinunce e delle transazioni poste in essere in sede giudiziale,
amministrativa e sindacale. La ragion di essere di tale disposizione
è generalmente individuata nell’esigenza di tutelare il lavoratore
subordinato che, a causa della debolezza economica e
dell’inferiorità nei confronti del potere gerarchico del datore di
lavoro, potrebbe essere costretto a porre in essere dei negozi
dispositivi dei propri diritti.
Fra le prime disposizioni cui bisogna fare riferimento per operare
una ricostruzione storica, vi è l’art.17 del R.D.L. 13 novembre
1924, n. 1825 sull’impiego privato, convertito nella L. 18 marzo
1926, n. 562. Questa stabiliva l’inderogabilità delle norme poste a
tutela dell’impiegato, infatti così recitava: «le disposizioni del
presente decreto saranno osservate malgrado ogni patto contrario,
salvo il caso di convenzioni od usi più favorevoli all’impiegato e
salvo il caso che il presente decreto espressamente ne consenta la
deroga consensuale».
Se da un lato tale disposizione era chiara nel sancire
l’inderogabilità in pejus della disciplina legale ad opera del
contratto individuale, dall’altro non risolveva il problema sul modo
di valutare eventuali negozi dispositivi o abdicativi di diritti già
acquisiti dal lavoratore, difformi da quanto garantito dalla legge.
11
A rigore, conseguenza dell’inderogabilità stabilita dall’art. 17
R.D.L. n. 1825/1924 avrebbe dovuto essere l’indisponibilità dei
diritti derivanti da norme inderogabili. Infatti, a nulla sarebbe valso
stabilire l’inderogabilità della normativa, se poi fosse stata
riconosciuta al soggetto protetto la possibilità di rinunciare a quei
diritti che l’ordinamento esige gli siano garantiti.
1
La giurisprudenza del tempo, se in un primo momento accolse la
tesi che l’inderogabilità della norma comportasse anche
l’irrinunciabilità dei diritti, successivamente distinse fra rinunce e
transazioni poste in essere in costanza di rapporto, che dovevano
considerarsi invalide, e quelle intervenute dopo l’estinzione del
rapporto da considerarsi invece valide. La giurisprudenza
argomentò tale distinzione sulla base della c. d. teoria della
«presunzione legale della mancata libertà di consenso del
lavoratore»
2
. Secondo tale teoria, durante il rapporto di lavoro, il
lavoratore si trova in uno stato di soggezione e di debolezza nei
confronti del datore, mentre una volta estinto il rapporto il
lavoratore, non essendo più sotto la minaccia di perdere il posto di
lavoro, recupera la propria libertà e non ha più nessuna remora nei
confronti del datore.
Tale teoria fu aspramente criticata dalla maggioranza della
dottrina ed in particolare da Greco
3
, sostenitore dell’invalidità
anche per i negozi successivi alla cessazione del rapporto, proprio
in relazione al fatto che il lavoratore, rimasto privo di occupazione,
si trova in uno stato di bisogno economico e quindi non è in grado
di esprimere liberamente la propria volontà.
L’art. 2113 c.c., nella formulazione originaria del 1942, cercò di
raggiungere un compromesso fra le diverse posizioni. Infatti
stabiliva l’invalidità delle rinunce e delle transazioni sui diritti
derivanti da norme inderogabili della legge o delle norme
corporative, anche se intervenute successivamente alla cessazione
1
Al riguardo si veda per tutti PERA, Le rinunce e le transazioni del lavoratore.
Art.2113, Milano, Giuffrè, 1990.
2
Cass. 11 gennaio 1939, in DL, 1939, II, 146.
3
GRECO, Il contratto di lavoro, Torino, 1939.
12
del rapporto di lavoro; veniva però previsto, «per evitare il protrarsi
di situazioni incerte»
4
, l’onere dell’impugnazione da parte del
lavoratore, nel termine di decadenza di tre mesi (a decorrere dalla
data di cessazione del rapporto o, in caso di accordi stipulati
successivamente, dalla data dell’accordo). Erano invece ritenute
valide le rinunce e le transazioni avvenute in sede giudiziale o con
l’assistenza dei sindacati corporativi.
Con la caduta del fascismo e la fine del sistema corporativo,
sorse un nuovo problema relativo all’applicabilità dell’art. 2113 c.c.
alle rinunzie e transazioni sui diritti scaturenti dai contratti collettivi
di diritto comune. A parte qualche eccezione
5
, la giurisprudenza
ritenne che anche le norme del contratto collettivo di diritto comune
avessero il carattere dell’inderogabilità in quanto era applicabile a
quest’ultimo l’art. 2077 c.c. che detta le disposizioni relative
all’efficacia del contratto collettivo su quello individuale. Tale
norma stabilisce che «i contratti individuali di lavoro tra gli
appartenenti alle categorie alle quali si riferisce il contratto
collettivo devono uniformarsi alle disposizioni di questo. Le
clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi
al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del
contratto collettivo che contengano speciali condizioni più
favorevoli ai prestatori di lavoro».
La giurisprudenza era consapevole che l’art. 2077 c.c. era una
norma corporativa in quanto «faceva implicito rinvio all’art. 1 delle
preleggi, dove le norme corporative erano collocate al terzo posto
nella gerarchia delle fonti»,
6
ma riteneva che la disciplina dell’art.
2077 c. c. rispondeva «al contenuto e allo scopo che ineriscono a
qualunque contratto, sia di natura pubblicistica che privatistica,
giacché finalità specifica della stipulazione dei contratti, che
prescinde dalla fisionomia giuridica delle associazioni stipulanti, è
4
Relazione al libro del lavoro del codice civile del Ministro Guardasigilli, in
G.U. del 5 febbraio 1941, n. 31 suppl. 17.
5
v. Tribunale di Roma, 4 aprile 1949, in DL, 1949, II, 206.
6
BALLESTRERO, Riflessioni in tema di inderogabilità dei contratti collettivi,
in RIDL, 1989, I, p. 383.
13
precisamente quella di sottoporre la pluralità di soggetti che essi
rappresentano ad una comune disciplina dei rapporti individuali di
lavoro e di sottrarre, quindi, la regolamentazione dei rapporti stessi
alla libera disponibilità dei singoli»
7
. In questo modo la
giurisprudenza affermava che i contratti collettivi postcorporativi
«hanno la stessa efficacia normativa che avevano i contratti
corporativi, giacché la loro portata è essenzialmente quella di
sottoporre la pluralità dei soggetti ad una disciplina comune dei
rapporti individuali di lavoro, sottraendone la regolamentazione alla
disponibilità dei singoli»
8
.
In dottrina c’è stato chi ha criticato tale posizione della
giurisprudenza in quanto «l’affermazione […] cioè di una identica
natura normativa dei contratti collettivi corporativi e di quelli
attuali, i quali a differenza dei primi, non contengono norme
giuridiche,» fa venir meno «ogni plausibile spiegazione
dell’inderogabilità».
9
C’è stato anche chi
10
ha osservato come
«all’apriorismo giurisprudenziale la dottrina ha, in sostanza,
contrapposto un apriorismo di segno contrario, cosicché se la prima
ha ritenuto che, per potersi affermare l’applicabilità dell’art. 2077
c.c. ai contratti collettivi postcorporativi, dovesse essere
preliminarmente operata l’equiparazione della loro natura e
funzione giuridica a quella dei contratti collettivi corporativi, la
dottrina ha, invece, ritenuto che per evitare tale equiparazione
dovesse essere inevitabilmente esclusa l'applicabilità dell'art 2077
c.c.»
11
.
7
Cass. 16 maggio 1951, n. 1184, in RGL,1951, II, p. 205
8
Cass. 5 maggio 1958, n. 1470, in FI., 1958, I, 861
9
F. SANTORO PASSARELLI, Norme corporative, autonomie collettive,
autonomia individuale, in DE., 1958, p. 1187
10
VARDARO, Contratti collettivi e rapporti individuali di lavoro, Angeli,
1985, p. 259.
11
Ibidem, p. 253
14
Un’altra questione riguardava la validità delle conciliazioni
intervenute in sede sindacale. Infatti la giurisprudenza sosteneva
che le associazioni sindacali di fatto, rispetto a quelle di diritto
pubblico, non potevano essere ricomprese «nella previsione legale
che già abilitava le seconde a dare in modo giuridicamente valido
contributo e assistenza per conciliare e transigere vertenze
individuali relative a diritti indisponibili dei prestatori d’opera»
12
.
Invece la giurisprudenza, anche quella della Corte di Cassazione
13
,
riteneva non impugnabili ex art. 2113 c. c. le conciliazioni concluse
con l’intervento degli uffici del lavoro.
12
Cass., 5 luglio 1957, n. 2667, RGL, 1957, II, 321.
13
Cass., 14 settembre 1956, n. 3211, FI, 1957, I, 407; Cass., 2 settembre 1958,
n. 2951, OGL. 1959, 59 e MGL. 1959, 34.