2
Sebbene l’imperatore fosse considerato come l’incarnazione del
valore supremo, era infinitamente lontano dalla possibilità di creare
valori dal nulla: Sua Maestà era diretto erede della discendenza
imperiale, ininterrotta da oltre duemila anni, e governava in virtù degli
inappellabili ordini trasmessi dai suoi antenati.
Gli studiosi giapponesi preferiscono più propriamente parlare di
“rinnovamento”, sottolineando il sorprendente processo di
trasformazione politica, economica, sociale e culturale che portò il
Giappone a passare, sotto il regno dell’imperatore Mutsuhito, da una
nazione feudale ad un moderno stato nazionale in grado di competere
con le maggiori potenze occidentali.
Alessandro Valota scrive:
“Su che cosa abbia significato il periodo Meiji per il Giappone i
pareri sono discordi ed ancora oggi continua tra gli storici
giapponesi di scuola marxista un’annosa polemica: alcuni sostengono
che il cosiddetto rinnovamento Meiji sia stata una rivoluzione
democratico-borghese, mentre altri ritengono che essa segnò
l’avvento dell’assolutismo in Giappone.
Probabilmente la verità si trova a metà strada tra le due posizioni,
come spesso avviene in tutti i processi storici che si sottraggono a
posizioni troppo univoche.
3
Il Rinnovamento Meiji presentò, infatti, come il Risorgimento italiano,
elementi di rivoluzione democratica borghese, rimasta peraltro
incompiuta, ma nel contempo fu anche il periodo in cui si costituì un
sistema di potere che faceva perno sull’oligarchia Meiji, la quale
governò secondo criteri non molto dissimili da quelli di regimi
autoritari europei come la Prussia guglielmina”
1
.
Valota osserva ancora come la varietà dei nomi usati per indicare il
Rinnovamento Meiji rifletta il suo carattere ambivalente, gli aspetti
contrastanti dovuti all’interazione di molteplici fattori di ordine
esterno e interno al Giappone, di forze sociali che tendevano al
mutamento e di altre che tendevano alla conservazione.
Essa è data dal fatto che vi confluirono, e da essa si dipartirono,
direttive di modernizzazione divergenti fra loro.
In alcuni casi le divergenze erano totali: se da una parte infatti il
Rinnovamento Meiji fu un classico esempio di modernizzazione
dall’alto imposta da élites che traevano la loro origine da una società
tradizionale e che, poste di fronte alla minaccia occidentale, avevano
sentito l’esigenza di un cambiamento, di attuare riforme e di dare
l’inizio all’industrializzazione del paese attraverso misure dirigistiche,
dall’altra, anche nel corso degli eventi che precedettero l’instaurazione
1
A. Valota, La grande trasformazione del Giappone Meiji, in: Aa. Vv., L’ascesa del Giappone, a
cura di Enrica Collotti Pischel e Simona Pigrucci, Franco Angeli, Milano, 1994, pag.134-35.
4
dello stato moderno giapponese, agirono forze popolari
potenzialmente orientate in senso democratico-borghese.
Tuttavia le sollevazioni popolari che seguirono al malcontento dei
contadini e degli abitanti poveri delle città che crebbero
continuamente in questo periodo, non furono mai rivolte al
cambiamento del sistema politico, ma solo alla correzione di specifici
punti di disaccordo, quali tasse ritenute troppo onerose o cattiva
amministrazione.
Il Rinnovamento Meiji non rientra in pieno, con le sue caratteristiche,
in nessun periodo europeo.
Esso fu imposto ad un paese pacifico e apparentemente stabile dalla
minaccia di un’invasione degli stranieri e fu portato avanti da elementi
provenienti dalla nobiltà di corte e da giovani provenienti dai ranghi
inferiori della classe dominante dei samurai.
Esso ebbe esiti favorevoli a causa di numerose caratteristiche proprie
del popolo giapponese, soprattutto la forte omogeneità della
popolazione, figlia dell’isolamento naturale dovuto all’insularità e di
quello artificiale causato dalla politica dei Tokugawa, nonché della
mancanza di minoranze etniche e religiose, ad una forte etica del
lavoro e ad una volontà profondamente radicata per l’introduzione di
nuove conoscenze.
5
Nel loro insieme, esse rendono alquanto difficile incasellare questo
periodo nella periodizzazione tradizionale tratta dalla storia
occidentale.
Quello che è sicuro è che, comunque la si voglia definire, l’era Meiji
trasformò il Giappone nel primo paese non europeo che riuscì a
intraprendere con successo uno sviluppo di tipo capitalistico, evitando
di sottostare a rapporti di dipendenza nei confronti delle potenze
occidentali.
Ruth Benedict, antropologa di fama mondiale ed autrice del celebre
“Il crisantemo e la spada”, uno dei saggi più noti e citati nel campo
degli studi sul Giappone, osserva come questo paese, che nella
seconda metà del secolo diciannovesimo stava appena uscendo dal
Medioevo attraversando una fase di estrema debolezza, produsse una
classe dirigente in grado di progettare una delle più riuscite imprese
politiche che siano mai state tentate in qualsiasi paese.
Il Giappone, nel breve volgere di pochi decenni, passò da una
formazione economico-sociale di tipo feudale in fase di dissoluzione
ad una di tipo borghese, con forti accentuazioni di espansionismo
imperialista; divenne inoltre una delle nazioni più avanzate
tecnologicamente grazie a cambiamenti estremamente rapidi attuati
con rigore e pragmatismo.
6
Il successo dei dirigenti Meiji fu probabilmente maggiore e più rapido
di quanto essi stessi sperassero.
Edwin O. Reischauer osserva che “giudicate su questa base le
realizzazioni giapponesi rappresentano una specie di storia di
Cenerentola fra le nazioni del nostro tempo, anche se, come accadde
nella Germania bismarckiana, l’accentuazione della forza nazionale e
della potenza militare trasmise gravi problemi alle generazioni
successive”
2
.
Il nuovo gruppo dirigente capì molto velocemente, grazie a una lucida
visione della politica internazionale, che avrebbe dovuto impegnarsi a
costruire un nuovo Giappone e non solamente a sostituire il vecchio
regime con uno nuovo.
A questi uomini non sfuggiva la superiorità della tecnologia
occidentale, soprattutto in campo militare: il Giappone avrebbe potuto
avere un ruolo di rilievo a livello internazionale solamente
adeguandosi a questi livelli.
Le notizie della facilità con cui la resistenza dei paesi dell’Estremo
Oriente era soverchiata dalla penetrazione occidentale, fornivano una
prova tangibile dell’inferiorità del paese per quanto riguarda gli
armamenti e l’organizzazione militare.
2
J.K Fairbank,A.M. Craig, E.O.Reischauer, Storia dell’Asia Orientale, Einaudi, Torino, 1978,
pag.286.
7
Questo stato di inferiorità si palesò definitivamente quando il
Giappone, sotto la minaccia di prove di forza da parte delle potenze
occidentali, dovette consentire che nei porti aperti l'attività
commerciale dei mercanti stranieri si svolgesse in regime di extra-
territorialità e di limitazione dell’autonomia doganale, con gli stranieri
in grado di fatto di poter fissare i dazi: questi accordi passarono alla
storia come i “Trattati ineguali”.
Queste discriminazioni resero il ventennio che andò dal 1868 al 1888
un periodo di grandi sforzi di tutto il popolo giapponese, che però
riuscì a compiere una straordinaria crescita, sia economica che
politica.
Il messaggio reso noto dall’imperatore Mutsuhito il 6 aprile 1868,
noto come “Giuramento dei cinque articoli”, una sorta di primo
“discorso della corona” e chiara sintesi del nuovo programma di
governo, rispecchia contemporaneamente lo spirito di mobilitazione
nazionale e l’acuto interesse per le nuove conoscenze che giungevano
dall’esterno.
In esso ci si impegnava ad attenersi ai propositi indicati ai seguenti
punti:
1. Sarà convocata un’ampia assemblea e tutte le questioni saranno
deliberate in base all’opinione pubblica.
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2. Governanti e governati dovranno unire le loro volontà e dedicarsi
con impegno all’amministrazione.
3. E’ desiderabile che i funzionari, i soldati e anche la gente comune
rivolgano tutti insieme alacremente le proprie energie alla
realizzazione delle proprie aspirazioni.
4. Tutti gli assurdi costumi e le antiche usanze dovranno essere
abbandonati e ci si dovrà basare sui giusti ed equilibrati principi
della natura.
5. Si cercherà la conoscenza in tutto il mondo al fine di migliorare ed
espandere l’Edificio Imperiale.
Il primo articolo stabiliva che tutte le questioni sarebbero state decise
in seguito ad una pubblica discussione.
Ciò non rispondeva ad una necessità democratica, come potrebbe
sembrare: si voleva semplicemente assicurare a tutti i daimyo che
avrebbero partecipato alla gestione del nuovo Stato.
Il secondo articolo sanciva che tutte le classi avrebbero contribuito
alla amministrazione degli affari statali; questo principio si
contrapponeva nettamente alla rigidità sociale e all’immobilismo del
sistema Tokugawa, pretendendo di cancellare con un colpo di spugna
una mentalità ben radicata.
In base al terzo principio, chiunque avrebbe potuto realizzare il
proprio talento nel nuovo Stato.
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In qualche modo ciò corrisponde ad un principio già vigente in Cina:
chiunque poteva fare carriera grazie ai propri meriti.
In base al quarto principio ci si voleva sbarazzare delle cattive
abitudini del passato per affidarsi alle autentiche leggi di natura.
Il richiamo ai valori del confucianesimo è evidente, anche se rimane
del tutto indeterminato il contenuto effettivo di queste leggi.
In realtà questi cinque articoli non propongono innovazioni rispetto
alle proposte già avanzate dall’ultimo shogun Tokugawa Keiki verso
la fine del suo mandato, quando aveva cercato di coinvolgere nel
governo l’Imperatore e i daimyo e di procedere alle riforme.
Nel Giappone del 1868 solo pochi avevano nozioni delle istituzioni
democratiche di tipo occidentale e la loro esperienza si limitava alle
nozioni apprese su libri di testo olandesi o inglesi.
Buona parte del popolo giapponese assistette al crollo del regime in
maniera assolutamente passiva, mentre alcuni samurai provenienti
dalla parte occidentale del paese, insieme ad un ristretto gruppo di
nobili di corte, prendeva il controllo di ciò che rimaneva del governo
centrale.
I nuovi dirigenti stabilirono la sede del loro governo a Edo, che era già
di fatto la vera capitale politica del paese, ribattezzandola Tokyo, “la
capitale orientale”.
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Nel 1869 il nuovo imperatore e la sua corte si trasferirono nel castello
di Edo, abbandonando la vecchia sede imperiale di Kyoto.
Il nuovo governo trovò la sua principale base finanziaria incamerando
l’immenso feudo dello shogun, nonché ricorrendo a prestiti forzosi da
parte dei mercanti più ricchi.
I nuovi leader capirono subito di dover abbandonare la seconda parte
di uno degli slogan più diffusi, “Sonno-joi” (onora l’Imperatore,
caccia i barbari), data la superiorità militare occidentale, e lo
dimostrarono con uno dei loro primi atti: convinsero l’imperatore a
ricevere i rappresentanti delle potenze straniere nella primavera del
1868.
Cominciarono a giungere in Giappone esperti dei paesi occidentali,
mentre numerosi giovani studiosi nipponici furono mandati nelle più
prestigiose università europee e statunitensi.
In ciascun settore della politica, della cultura e della vita sociale i
governanti Meiji si ispirarono alla nazione che pareva esserne il
modello.
Si guardò alla Gran Bretagna per l’organizzazione commerciale e la
ristrutturazione della Marina Militare, alla Francia e alla Prussia per la
legislazione e l’assetto costituzionale.
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Anche il nostro paese fu oggetto di attenzioni da parte dei nuovi
statisti giapponesi, diventando insostituibile punto di riferimento nel
campo delle belle arti.
Il 14 gennaio 1875 il genovese Edoardo Chiossone fu nominato
direttore artistico del Poligrafico del Ministero del Tesoro: a lui si
deve l’introduzione della carta filigranata nelle banconote.
In seguito, dopo la fondazione, avvenuta nel 1876, della Scuola d’Arte
del Kobusho (Ministero dell’Industria), furono chiamati ad insegnare
il pittore A. Fontanesi (che diffuse la tecnica della pittura ad olio), lo
scultore V. Ragusa e l’architetto G. V. Cappelletti.
La prima parte dello slogan Sonno-joi, quella che invitava a riverire
l’Imperatore, rimase invece il punto centrale dell’azione politica dei
nuovi dirigenti, dal momento che rappresentava l’unica giustificazione
del loro potere.
Essi posero al centro del nuovo regime la figura del sovrano e agirono
sempre in suo nome, nonostante che Mutsuhito avesse all’epoca solo
quattordici anni.
Questa apparente restaurazione fu però solo nominale: di fatto il
gruppo di giovani samurai e di nobili di corte che andarono al potere,
mostrando il più profondo rispetto per l’Imperatore, si misero a
governare collegialmente, prendendo a modello del rinnovamento non
l’antico Giappone ma l’occidente a loro contemporaneo.
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Essi ripristinarono infatti titoli e nomi della vecchie istituzioni, a cui
però non corrispondeva più nessuna funzione.
Secondo lo stile giapponese gli incarichi principali del nuovo governo
furono affidati all’alta nobiltà di corte e ai signori feudali (daimyo)
che avevano contribuito a rovesciare i Tokugawa.
Queste persone, in realtà, servirono solo di facciata per i veri capi, i
samurai e i nobili di corte più giovani che avevano diretto la rivolta.
Il nuovo governo non ebbe difficoltà ad assumere il controllo del
vecchio territorio dello shogun e a dividerlo in prefetture controllate
dal centro, né ad assumere il controllo degli altri han (stati feudali),
eliminando al loro interno le divisioni di ceto che ostacolavano il
processo di modernizzazione.
Il 5 marzo 1869 gli han di Satsuma, Choshu, Tosa e Hizen furono
riconsegnati dai rispettivi daimyo all’Imperatore, in cambio della
nomina a governatori, con uno onorario che corrispondeva a un
decimo delle precedenti entrate; i rimanenti han si adeguarono di
propria volontà alla nuova situazione.
Il 29 agosto 1871 il governo decise di abolire definitivamente i vecchi
han, mettendone a capo dei funzionari nominati dal governo centrale,
e liquidando i daimyo e i samurai loro seguaci con titoli di stato.
La nuova classe dirigente giapponese adottò misure specifiche per
garantire l’incremento e l’ottimizzazione della produzione agricola,
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incentivò le prime piccole imprese industriali, cercò di incrementare le
esportazioni, procedette alla costruzione di una moderna rete viaria e
ai primi tratti della rete ferroviaria, creò un sistema organico di
pubblica istruzione, istituì un efficientissimo sistema postale (tutt’oggi
fiore all’occhiello della macchina statale nipponica), pose le basi della
marina militare e del nuovo esercito basato sulla coscrizione
obbligatoria, favorì la nascita delle prime banche e la crescita delle
prime compagnie finanziarie.
Fu in questo clima di rinnovamento e di apertura che nacquero i primi
raggruppamenti politici.
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P R I M O C A P I T O L O
I dissidi tra gli han e la formazione dei primi gruppi politici
Nella lingua giapponese l’ideogramma che esprime il concetto di
partito politico si legge To.
Questo termine assunse una connotazione ben precisa in epoca
medievale, verso la fine del periodo Heian, ma soprattutto all’inizio
del successivo periodo di Kamakura (XIII secolo), quando all’interno
di grandi clan militari si crearono delle organizzazioni di difesa e di
lotta basate sul principio della consanguineità, che presero appunto il
nome di To.
Questo termine indica chiaramente un raggruppamento sociale, una
fazione che non sarà mai partito essendo l’Asia Orientale priva, fino al
XIX secolo, di alcune caratteristiche fondamentali del sistema
democratico: il diritto della maggioranza, in quanto parte, a governare
ed il diritto dell’opposizione, anch’essa in quanto parte, al dissenso.
Il Giappone in più aveva una lunghissima tradizione teocratica, nella
quale l’imperatore incarnava nella sua persona l’unità biologica e
religiosa di tutto il popolo.
Gli stranieri che visitarono il paese verso la metà del XIX secolo
osservarono come il paese fosse sotto la duplice autorità
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dell’imperatore (tenno), che era il capo spirituale, e dello shogun, che
deteneva l’effettivo potere politico.
Dopo la Restaurazione l’unità fu raggiunta mediante la completa
esautorazione dello shogun e di tutti gli altri rappresentanti del potere
feudale, e attraverso la concentrazione di tutti i poteri nella figura
dell’imperatore.
In questo processo, tutto il prestigio e il potere furono fatti confluire
nell’istituzione imperiale.
La fondazione dello stato moderno avvenne senza alcuno sforzo di
riconoscere gli aspetti tecnici e formali della sovranità nazionale,
come era invece avvenuto in Europa dopo le guerre di religione
successive alla Riforma.
Lunghe ed estenuanti guerre avevano costretto i monarchi europei a
rinunciare alla formula del diritto divino come giustificazione morale
del loro dominio, obbligandoli ad individuare un nuovo fondamento
del proprio potere, identificato nella funzione esteriore della necessità
di difendere l’ordine sociale.
Si ebbe così un compromesso tra governanti e governati basato sulla
distinzione fra sfera pubblica e sfera privata.