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INTRODUZIONE
La lingua italiana è al momento (2017) la quarta lingua più studiata nel
mondo: un fenomeno stabile, che si prevede in crescita nei prossimi anni,
anche grazie alle iniziative intraprese dal governo italiano, atte a sviluppare
ulteriormente questo trend, con obiettivi strategici che uniscono la visione
meramente culturale alla ricaduta economica in termini di turismo ed
esportazioni di beni materiali.
“Italiani, popolo di santi, poeti e navigatori” ma anche di musici e cantanti:
infatti la nostra musica da secoli attraversa le frontiere e conquista il favore
di altri popoli. Prendiamo in considerazione, per esempio, la terminologia
musicale internazionale, che è ricchissima di termini italiani non tradotti
(adagio, allegro, andante, legato, finale, opera, tempo, tremolo, pizzicato, solo
per citarne alcuni), e la nostra musica classica e il nostro melodramma, che
fanno parte della storia musicale mondiale: ecco perché il “bel canto”, ma
anche la musica leggera contemporanea, attraggano gli stranieri verso la
nostra lingua e il nostro Paese.
Gli anni Ottanta del secolo scorso sono stati caratterizzati da un florido export
di musica leggera italiana, con milioni di copie di dischi e musicassette
venduti in suolo straniero. In questa tesi analizzeremo uno di questi fenomeni,
quello di Alice, cantautrice italiana con una lunga e prestigiosa carriera
all’attivo, che in quegli anni, e anche oltre, ha conquistato il mercato europeo
e non solo, muovendo i suoi fan stranieri ad imparare l’italiano attraverso le
sue canzoni. Approfondiremo il fenomeno, cercando di comprenderne i
motivi, attraverso la testimonianza della stessa Alice e di una sua ammiratrice
tedesca.
La canzone, dunque, come ausilio didattico per l’apprendimento dell’italiano
come di qualsiasi altra lingua, sia in autonomia, durante lo svolgimento di
compiti a casa o durante lo studio autodidattico, sia in classe, con la
supervisione di un insegnante che accompagna gli studenti nell’analisi delle
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liriche e nella comprensione delle sfaccettature della lingua in essa contenuta.
Un’attività didattica non sempre ben vista da tutti gli insegnanti, ed invece
molto apprezzata dagli studenti. Approfondiremo gli aspetti pregnanti di
questo esercizio e cercheremo di illustrarne i benefici, ponendo in evidenza
le peculiarità motivazionali e cognitive, dando uno sguardo agli studi delle
neuroscienze, per cercare di motivare la ricezione entusiastica che la
caratterizza presso il pubblico dei discenti.
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CAPITOLO I
MULTICULTURA E INTERCULTURA
Il mondo aperto alle conoscenze ed agli scambi culturali e commerciali ha
sempre assistito ad una commistione di culture, lingue e costumi. A partire
dalle conquiste territoriali degli antichi popoli che annettevano ai propri
imperi intere regioni e nazioni e imponevano con la forza lingue e costumi,
proseguite e perpetrate nei secoli con nomi diversi (espansionismo
territoriale, colonialismo, imperialismo, ecc.) ma con fini assimilabili,
proseguendo poi con le spedizioni commerciali, che mettevano in
comunicazione tra di loro culture lontanissime, di cui poco si conosceva (il
commercio dei tappeti e delle spezie dal Medioriente, la Via della Seta di
Marco Polo, ecc.), il mondo è sempre stato sollecitato, se non obbligato, ad
assimilare nuovi influssi culturali nella propria quotidianità.
Scartando i casi di imposizione forzata, riconducibili a campagne militari di
occupazione di territori stranieri, prendendo in considerazione invece la realtà
attuale dell’Europa e dell’Italia, dove possiamo collocare il confine tra la
volontà ed il piacere di far propri elementi di altre culture e la semplice
convivenza, che tollera ma non approfondisce la conoscenza di mondi
culturali diversi dal proprio?
La risposta si trova in due denominazioni: multicultura e intercultura.
La multicultura è, oggettivamente, il melting pot in cui ogni nazione
occidentale al giorno d’oggi è immersa, a seguito dei vari flussi migratori,
antichi, moderni e contemporanei che hanno mosso milioni di persone da
nazione a nazione; la multicultura è un insieme di culture, idiomi e costumi
che convivono ma non sono in contatto tra di loro e non effettuano alcun tipo
di scambio.
Invece l’Intercultura è l’esatto opposto: culture che comunicano tra di loro e
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si scambiano elementi caratterizzanti, si fondono e creano mescole di
costumi, di idiomi, di tradizioni.
Franca Pinto Minerva (2002, pp. 95-197) descrive così l’intercultura:
“L’incontro con l’alterità – l’incontro con altre storie, con altre logiche e con altre
lingue – comporta la disponibilità – sulla base del confronto – a cambiare concetti,
idee, opinioni, modi di pensare e di essere, ipotesi e versioni del mondo ritenute
certe, sicure e infallibili e che, in quanto tali, rischiano di rinchiudere il pensiero
nella gabbia dell’intolleranza e del pregiudizio. […] Se l’interculturalità consiste
nella disponibilità ad “uscire” dai confini della propria cultura per “entrare” nei
territori mentali di altre culture, un progetto di educazione interculturale comporta
come obiettivo fondamentale, lo sviluppo di un pensiero aperto e flessibile,
problematico e antiodogmatico. […] La pedagogia dell’intercultura fonda la propria
specificità nei suoi aspetti di positività e negatività. Essere portatori di intercultura,
infatti, significa essere disponibili a far parte di più culture senza tradire la propria,
anzi arricchendola e moltiplicandone – con il contatto e il confronto, con le
interferenze e i prestiti – le potenzialità evolutive e creative. […] Alla scuola è
affidato, in tal senso, il difficile compito di promuovere il passaggio da un pensiero
autocentrato e monolitico a un pensiero nomade e migrante. […] L’intercultura
esprime dunque un concetto dinamico, in quanto presuppone la capacità e la volontà
di promuovere situazioni di analisi e comparazioni di idee, valori, culture differenti
alla ricerca di “intese” e di punti di incontro che non annullino le differenze ma, al
contrario, le esaltino, attraverso un intreccio dialettico di scambi necessari per il
reciproco riconoscimento.”
Gli accadimenti degli ultimi anni hanno messo in luce, però, quanto le
politiche di integrazione di nazioni interessate da svariati decenni da flussi
migratori di massa non abbiano dato i risultati previsti, o siano fallite.
In Francia, per esempio, il fenomeno della “rivolta sociale delle banlieues”,
messa in atto dalle terze e quarte generazioni degli immigrati delle ex-colonie,
ha fatto emergere come tali politiche siano “un modello di integrazione che
[…] finisce però per chiedere un’assimilazione omogeneizzante delle
diversità: un modello di integrazione che, comunque, non ha impedito a
queste generazioni di autoconcepirsi come cittadini di serie B” (Caon 2008,
p.6), vale a dire reputarsi né carne né pesce, non riconoscersi né nei valori
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della Francia, terra in cui sono nati, né nei valori caratterizzanti la cultura
d’origine. Il vuoto che si viene a creare è immenso: una perdita d’identità
spaventosa e pericolosa, che potrebbe condurre all’alienazione nonché
all’eversione.
Anche in altri Paesi tradizionalmente avvezzi alla mescolanza di etnie, i
modelli integrativi si sono rivelati poco efficaci. La Gran Bretagna, i Paesi
Bassi, il Belgio, gli Stati Uniti, che hanno promosso politiche diverse di
integrazione, impostate sia sulla multi-religiosità che sul comunitarismo, si
ritrovano in questi anni a dover fare i conti con atti di rivolta di singoli e di
gruppi, appartenenti o meno ad organizzazioni terroristiche, che dimostrano
come le politiche di integrazione sociale abbiano fallito nel loro scopo.
Se la politica non è stata e non è in grado di riuscire a gestire positivamente
l’integrazione, risulta evidente che tale compito spetta alla scuola e agli
educatori che la popolano:
“Le comunità tendono, al proprio interno, ad un conformismo identitario
omologante e si chiudono all’esterno, perciò non si mescolano, anzi sembra
accentuarsi la formazione di un reticolo di comunità non comunicanti […] tra le
quali si manifestano anche forme di violenza e di razzismo interetnico. […] Finalità
sociali, culturali e politiche -ma ancor prima pedagogiche- che possono essere
perseguite con successo […] attraverso strategie di animazione capaci di
rivitalizzare il tessuto antropologico del territorio. Musica, teatro, attività sportive e
artistiche […] possono essere […] poli di interessi interculturali […] attraverso i
quali si attua la feconda dinamica di integrazione-interazione tra esponenti di culture
diverse. […] La scuola è innanzitutto un luogo di educazione personale e sociale
che ha nella lingua il suo strumento principale di comunicazione e di formazione:
nella scuola multiculturale si trovano a interagire e ad apprendere persone
provenienti da contesti culturali di frequente molto differenti che parlano lingue
spesso tipologicamente distanti. Se la scuola non vuol rinunciare alla sua missione
di formare l’uomo e il cittadino, deve avere consapevolezza che il cittadino e l’uomo
del presente e del futuro sono immersi in una società plurilingue e multiculturale e
che, di conseguenza, educare al plurilinguismo e all’intercultura diventa un obiettivo
strategico per gestire i complessi processi di globalizzazione di oggi e per formare
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menti flessibili e pronte ad agire in modo proattivo alle sfide di domani” (Caon,
2008, pp. 7, 9 e XII).
La musica è uno dei poli di interesse, in grado di catalizzare e promuovere
l’integrazione culturale e la pacifica convivenza dei popoli. Nei capitoli
successivi vedremo come la musica possa essere un reale fattore unificante,
oltre che veicolo di cultura e lingua.
E proprio uno dei motori dell’intercultura sono le lingue ed il loro
insegnamento, la glottodidattica, oltre all’insegnamento della lingua
nazionale agli stranieri, sono dunque fondamenti primari della società e della
scuola di ogni Paese moderno.
L’intercultura nella scuola non è una nuova materia nell’ambito del
programma didattico, bensì una sensibilità diversa con la quale affrontare il
proprio mestiere di educatore o, meglio, di facilitatore all’apprendimento.
Arrivare a trovare punti di contatto tra le diverse discipline, cooperare con i
colleghi per integrare le didattiche in base ad affinità disciplinari, organizzare
co-docenze utili a mettere in risalto tali affinità sono alcune modalità
attraverso le quali si può promuovere l’Intercultura. E lo studio delle lingue
straniere è una importantissima parte integrante di tutto ciò.
1.1 La lingua veicolo dell’intercultura
Per Balboni (2012, p.245), Giovanni Freddi (1930-2012), fondatore della
scuola veneziana di Glottodidattica, amava dire che “prima di spararsi
addosso le persone si parlano e, se noi abbiamo lavorato bene, si capiscono”:
ovvero la pace tra i popoli si costruisce e si mantiene con l’intercultura e con
l’insegnamento delle lingue straniere, vale a dire con il plurilinguismo.
La lingua, quindi, è il fulcro della cultura, la racchiude in sé ed è la promotrice
della sua diffusione. Silvia Gilardoni (2005, p. 9) riporta la teoria di Freddi,
che inquadra la lingua a livello antropologico come “precipitato della cultura”
di un popolo, in quanto:
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“Leggendola in filigrana, la lingua appare come un precipitato della storia del
popolo: le esperienze e le vicissitudini dei suoi parlanti hanno lasciato tracce visibili
nei sottosistemi fonologico e grammaticale e, soprattutto, nel corpus lessicale, cioè
nel suo vocabolario. Si vuol dire che, essendo essa un’elaborazione originale del
gruppo, essendo intimamente connessa con gli altri fatti culturali ed essendo lo
strumento di interazione e di comunicazione tra tutti i membri, la lingua registra
direttamente o indirettamente gli avvenimenti, i sentimenti, i pregiudizi, i modelli di
comportamento di tutta la comunità”
Non per nulla quando si studia una lingua straniera si entra in contatto anche
con gli usi e i costumi della/e nazione/i dove tale lingua è parlata. Elementi
della tradizione e della cultura della lingua sono presenti nella lezione tenuta
dal docente, nei libri di testo, negli esercizi e in tutto il materiale di studio.
Lo studente di lingua straniera fa conoscenza con la cucina, i modi di vestirsi,
di circolare con mezzi di trasporto, di abitare, di fare shopping, oltre ai
passatempi, gli sport, le passioni, la storia, la politica, la religione, la
letteratura, il cinema, la musica di Paesi vicini e lontani.
Pensiamo, ad esempio, a quanto abbiamo appreso delle tradizioni britanniche
e del Regno Unito attraverso un corso d’inglese: il tè alle 5 del pomeriggio,
le code ordinate alla fermata dell’autobus, la famiglia Reale, i bus a due piani,
le tipiche cabine telefoniche di colore rosso vivo; della Francia, invece, con
un corso di francese siamo venuti in contatto con la baguette portata sotto al
braccio, i croissants al burro per una vera colazione tradizionale, la lavanda
provenzale, la Gioconda al Louvre e la travagliata storia dei Reali francesi
nella reggia di Versailles.
Spesso questi concetti di cultura allargata sfuggono ai più. Si pensa di studiare
una lingua e non si realizza che, in verità, si apprende tutto il corollario di
tradizioni, storia e cultura che stanno attorno alla lingua stessa, il “precipitato
di cultura” precedentemente descritto, prima in classe, e poi, se del caso,
durante le vacanze-studio finalizzate al perfezionamento della lingua, oppure
durante l’Erasmus, ovvero in occasione di altri viaggi.