1
CAPITOLO 1
Il primo atto filosofico consisterebbe nel
ritornare al mondo vissuto al di qua del mondo oggettivo,
giacchè è in esso che potremmo comprendere
sia il diritto che i limiti del mondo oggettivo.
(M. Merleau-Ponty)
1.1 BASI EPISTEMOLOGICHE: DALL’OGGETTIVITA’ ALL’ESPERIENZA
Nel corso del presente lavoro verrà affrontato il tema dell’intersoggettività all’interno
di una prospettiva fenomenologica, la quale vanta i contributi di importanti pensatori
come Husserl e Merleau-Ponty e, nel corso degli ultimi anni, anche di veri e propri
scienziati, come i biologi Humberto Maturana e Francisco Varela, le cui opere sono
state in grado di dare il via ad una vera e propria rivoluzione epistemologica in
campo scientifico.
I punti di forza di questo approccio all’intersoggettività sono essenzialmente due:
innanzitutto il rovesciamento di prospettiva dell’interesse non solo psicologico ma
scientifico in generale (ovvero, la necessità di abbandonare il metodo proprio delle
scienze della natura per tornare all’esperienza e al significato); da qui il secondo
punto che, riprendendo le parole di Armezzani (2004), potrebbe essere riassunto cosi:
“Caduta l’illusione dell’oggettività, la verifica può avvenire solo tramite l’altro, non
più guardato con l’occhio indagatore dello scienziato, ma come risuonatore
empatico, come eco consensuale della propria esperienza” (p.28). Partendo da questo
presupposto, ovvero dal riconoscimento dell’altro quale individuo simile a me in
quanto altra prospettiva sul mondo, non è difficile capire l’importanza e, nel
2
frattempo, la necessità di approfondire un fenomeno, appunto quello delle relazioni
interpersonali, che per il suo carattere di ovvietà rischia spesso di esser tralasciato o
approfondito solo nei suoi caratteri più superficiali.
Per meglio comprendere la svolta paradigmatica compiuta dalla fenomenologia
husserliana è necessario partire dall’invito o, piuttosto, dalla necessità di un
ripensamento radicale della conoscenza scientifica. “Questa scienza –afferma
Husserl (1936) – non ha niente da dirci. Essa esclude di principio proprio quei
problemi che sono i più scottanti per l’uomo (trad.it., p. 35). Si tratta, cioè, di una
scienza che, essendosi fondata sul pregiudizio di una realtà indipendente
dall’osservatore, ha trasformato ogni fenomeno in un oggetto misurabile separato
dalla coscienza e dalla stessa esperienza umana. L’invito di Husserl consiste, quindi,
nell’interrogarsi su un’ovvietà, ovvero sulla scontata validità delle asserzioni
scientifiche e sull’effettiva relazione esistente tra esse e il mondo della vita, il quale
è stato sempre considerato dalle scienze forti un elemento d’intralcio ad una ricerca
obiettivamente valida e, perciò, messo in parentesi: “la soggettività si definisce come
insieme di spiacevoli ma rimediabili attributi, credenze, valori o interessi che si
infiltrano nel processo investigativo quando l’osservatore è inesperto o scarsamente
addestrato” (Morawski, 1998, p. 220).
Diventa, dunque, inevitabile il ricorso all’elemento soggettivo dell’esperienza, dove
“soggettivo non è, come spesso ci hanno insegnato, il contrario di oggettivo, ma il
modo stesso in cui conosciamo, l’unico modo di cui ci è dato disporre e attraverso
cui incontriamo le cose” (Armezzani, 2003, p. 22).
Questo invito a considerare il mondo della vita, a riscoprire quello sguardo
interessato e responsabile che si trova al di là del pregiudizio e dell’ovvietà viene
ripreso, a più di mezzo secolo di distanza, proprio dall’universo scientifico che si è
avviato verso un mutamento radicale caratterizzato dall’ implicazione del soggetto
nel contesto osservato. Così, per esempio, il cibernetico von Foerster (1981) afferma:
“L’usuale interpretazione della realtà è completamente rivoltata. Più che considerare
3
l’esperienza come una conseguenza di qualcosa fuori […], il mondo è considerato la
conseguenza della mia esperienza” (trad.it., p. 31).
O ancora, riprendendo le parole di von Glasersfeld (1981): “Non possiamo
rappresentarci un mondo non vissuto: ogni comunicazione, ogni apprendimento e
comprensione è in ogni caso costruzione e interpretazione del soggetto che vive
l’esperienza” (trad.it., p.18).
Alla luce di questa nuova prospettiva diventa, pertanto, un’illusione la figura dello
spettatore che assiste dall’esterno allo spettacolo del mondo, proprio perché non è
possibile quello “sguardo da nessun luogo” di cui parla Nagel (1986). Caduta
l’illusione di una realtà esterna oggettiva, l’unica cosa che esiste realmente è
l’esperienza, il mondo della vita, sui cui si basa tutta la nostra cognizione. Così, per
esempio, dall’ambito della biologia, Maturana (1988b) afferma: “Un osservatore non
ha alcuna base operazionale per emettere affermazioni o giudizi sugli oggetti, le
entità e le relazioni come se esistessero indipendentemente da ciò che egli fa” (p.22).
Se, dunque, non esiste un luogo al di là della propria sfera cognitiva, ogni sguardo
sul mondo diventa l’espressione di un punto di vista, di una prospettiva che rimane
unica e parziale. Si tratta di una scoperta rivoluzionaria, oltre che di una posizione
epistemologica, che critica sistematicamente il realismo ingenuo su cui si fondano le
scienze tradizionali, invocando un ritorno al vissuto, ovvero all’esperienza, come
punto di partenza per qualunque conoscenza scientifica. Così, accettando l’invito di
Husserl alla responsabilità soggettiva della prima persona, il nuovo scienziato, in
quanto osservatore, prende atto del fatto che anche la conoscenza scientifica si situa
all’interno del mondo dell’esperienza, e che quindi egli non può che operare evitando
la distinzione tra cognizione ed emozione. Anche la spiegazione scientifica, cioè,
sembra abbandonare il discorso in terza persona per sottolineare l’ineliminabile ruolo
dell’osservatore, coinvolto in prima persona nei processi descritti (Armezzani, 2002).
4
1.2 INTERSOGGETTIVITA’ E SCIENZA
“Una volta che è stata messa fuori gioco la tesi del mondo oggettivo, (preesistente e
indipendente dalla soggettività), l’unica possibilità di fondare una conoscenza
scientifica, valida cioè in senso generale, è quella di fondarla sull’intersoggettività”
(Armezzani, 1998, p. 168). Il mondo in cui viviamo sarebbe, perciò, una realtà
condivisa che origina dalla convergenza delle singole prospettive. Ecco perché è
possibile affermare che con la rivoluzione paradigmatica inaugurata da Husserl, e poi
sviluppata da alcuni esponenti delle scienze forti, l’altro diviene fondamentale in
quanto validatore non solo della propria esistenza, ma della stessa realtà. Si potrebbe
dire con von Glasersfeld (1981): “La realtà è fatta della rete di cose e relazioni su cui
possiamo contare nella nostra vita e su cui, crediamo, anche gli altri contano”
(trad.it., p.7).
Oltre ai contributi apportati da Husserl e poi confermati e sviluppati da alcuni
cognitivisti, biologi ed esponenti della cibernetica, hanno contribuito a mettere in
crisi la concezione di una scienza neutrale e oggettiva anche altri interventi, tra cui
quello di Gadamer con la sua ermeneutica fenomenologica, per cui la realtà è vista
come il prodotto degli scambi comunicativi tra attori sociali; e quello del filosofo
francese Derrida, secondo cui non è possibile uscire dal linguaggio in quanto ogni
comprensione del mondo, lungi dall’essere una rappresentazione fedele ad esso,
sarebbe piuttosto una mappa scritta a partire dalle convenzioni proprie del gruppo di
appartenenza. Questi apporti culturali hanno modificato il modo tradizionale di
pensare alla realtà: da fissa, immutabile ed oggettiva a trasformabile dagli interventi
dei singoli soggetti mediante il linguaggio o, meglio, degli atti linguistici: “il
linguaggio –infatti- non è più lo strumento per designare la realtà, ma l’agente stesso
della costruzione di realtà” (Armezzani, 2002, p. 175).
Infine, è da sottolineare come la chiamata in causa del soggetto in prima persona
nella creazione/comprensione di un mondo condiviso, richiami l’interesse su un tema
fondamentale in tema di relazioni interpersonali: ovvero, la responsabilità del singolo
nei confronti dell’intera comunità umana. Sono dell’idea che, in un mondo sempre
5
più dominato da interessi capitalistici e personali, un invito alla responsabilità nei
confronti dell’ altro, che in quanto alter ego è come me, non può che essere di aiuto,
se non altro come spunto di riflessione.
1.3 IL SOGGETTO DELL'ESPERIENZA NON E' SOLIPSISTICO
Da quanto detto fin qui risulta che una delle conseguenze principali della rinuncia
all'oggettività, scientificamente intesa, è il riconoscimento dell'altro come mio simile,
in quanto altra prospettiva sul mondo. Il tema affrontato in questo capitolo riguarderà
proprio le basi dell'intersoggettività, ovvero l'esperienza dell'altro come alter ego:
argomento da sempre dibattuto in filosofia e oggi oggetto di studio anche di altre
discipline, come la sociologia, le scienze della comunicazione e naturalmente la
psicologia.
Il problema relativo al come conosciamo gli altri diviene un problema filosofico vero
e proprio a partire dal cogito cartesiano. Attraverso il dubbio, infatti, io divengo certo
della mia interiorità, quindi di essere una coscienza, mentre l’alter ego rappresenta
ciò che sta fuori di me. Da qui origina un dubbio generale circa il mondo e gli altri
che lo abitano: “niente garantisce che gli altri esistano davvero e non siano soltanto
miei costrutti soggettivi, mere immagini interne alla mia coscienza, a cui non
corrisponde niente di reale nel mondo esterno […]. E inoltre, anche se quei corpi
fossero reali, che cosa mai possiamo sapere della loro vita di coscienza?” (Costa,
2010, p.15). In altre parole come è possibile il riconoscimento e la comprensione
dell’altro se siamo esseri separati e diversi?
In questo senso i temi centrali dell’impostazione fenomenologica risultano, a mio
parere, di gran lunga esplicativi. Se infatti partiamo dal presupposto che la realtà per
ognuno di noi esiste solo nella misura in cui si manifesta nei vari atti di coscienza,
non sarebbe possibile un mondo oggettivo se fossimo coscienze isolate.
Nell’orientamento fenomenologico, a differenza dell’impostazione cartesiana, la
6
realtà e l’oggettività sono il risultato di un adattamento reciproco e intenzionale di
diversi soggetti, continuamente occupati in un’opera di cooperazione: “ il mondo in
sé non è ciò che sta al di là degli atti soggettivi […] bensì qualcosa che si manifesta
negli atti soggettivi di una comunità intersoggettiva impegnata in un compito di
esplicitazione e chiarificazione razionale del proprio essere nel mondo” (p.17).
Quanto appena detto suggerisce di abbandonare l’idea di soggetto come essere
isolato nel momento in cui si sia interessati a prendere “in considerazione le
condizioni in cui avviene la costituzione di fatto: se consideriamo cioè che il soggetto
dell’esperienza non è un soggetto solipsistico, bensì un soggetto tra molti altri
soggetti” (Husserl 1952, trad.it, p.81).
1.4 LA SFERA SOGGETTIVA E’ ORIGINARIAMENTE SOCIALE
Secondo l’approccio fenomenologico la capacità umana di entrare in relazione con
altri soggetti non avverrebbe secondo meccanismi innati per cui ciascun individuo
inizialmente isolato, ma dotato di determinate capacità, sarebbe in grado di gettare
una sorta di ponte tra sé e l’alter utilizzando l’espressività per risalire al suo mondo
interiore. Al contrario l’analisi fenomenologica sostiene l’idea secondo cui l’alter ego
si sviluppa nel soggetto dal momento che si costituisce nella relazione
intersoggettiva. Husserl nota infatti che “ noi non potremmo essere persone per gli
altri se non ci stesse di fronte, di fronte alla nostra comunanza, ai legami intenzionali
della nostra vita, un mondo circostante comune; in termini correlativi: una cosa si
costituisce per essenza insieme con l’altra”. (Husserl, 2002, p.196).
Smentita l’ipotesi innatista, potremmo dire che il soggetto personale sia
intrinsecamente sociale, non intendendo tuttavia con ciò un’origine prettamente
culturale della nostra esperienza. La fenomenologia, infatti, pur riconoscendo al
comportamento umano cause sia culturali che biologiche, sostiene l’importanza
dell’esperienza percettiva e delle sue particolari forme di organizzazione: l’idea è
che essa possegga delle strutture invariabili e comuni a tutti i soggetti per cui anche
7
un soggetto isolato potrebbe percepire in quel modo, mentre la comprensione degli
oggetti culturali sia un fatto unicamente intersoggettivo: “I predicati di significato
degli oggetti del mondo circostante […] rimandano ad altri soggetto noti o
sconosciuti, soggetti dai quali ricevono la loro significatività” (Husserl, 1973, trad.it.,
p.56). In riferimento all’esperienza quotidiana ha senso dunque parlare di “atti di
coscienza intersoggettivi” dal momento che ogni atto racchiude e dischiude, in
termini di significato, la presenza altrui.
Per quanto detto fin qui è chiaro che anche la comprensione dello sguardo altrui, o
meglio dei suoi stati interni per mezzo dello sguardo, non possa avere basi innate,
quanto piuttosto un significato socialmente stabilito. Come sottolineato da Costa
(2010): “Noi distinguiamo un tic da un ammiccamento e dalla parodia di un tic
perchè comprendiamo la diversità dei contesti di senso, e questa capacità non deriva
dalla nostra biologia, ma dal nostro essere soggetti storici e sociali, cioè dal fatto che
i gesti […] sono gesti significativi che hanno uno statuto sociale e culturalmente
determinato” (p.41). L’intersoggettività appare, così, simbolicamente mediata ed
ogni atto riguardante il mondo e gli altri “ un’interpretazione originaria” (Husserl
1959, trad.it., p.80) di un contesto condiviso.
1.5 IL SEGNO E LA COSCIENZA DEL SEGNO SONO INTERSOGGETTIVI
Un altro aspetto della nostra esperienza che mostra quanto sia fuorviante pensare al
soggetto come ad un solus ipse è il linguaggio. Il vissuto comunicativo consiste,
infatti, nella reiterazione di segni che abbiamo già ricevuto, quindi è la stessa
comunità intersoggettiva a rappresentare la condizione di possibilità del segno. Potrei
spiegare meglio questo concetto con le parole di De Saussurre (1922) dicendo che:
“Se, in rapporto all’idea che rappresenta, il significante appare scelto liberamente,
per contro, in rapporto alla comunità che l’impiega, non è libero, ma è imposto. La
massa sociale non viene affatto consultata, e il significante scelto dalla lingua non
potrebbe essere sostituito da un altro”(trad.it., p. 89). Se ciò accadesse, infatti, il
8
segno non sarebbe più un segno linguistico e la comprensione stessa tra i soggetti
risulterebbe compromessa.
Il linguaggio porta, dunque, in sé un sistema di regole che è necessario rispettare,
infatti “se il gioco cessa di avere regole, cessa di essere un gioco, e se cessano di
esservi usi giusti e usi sbagliati di una parola, la parola perde il suo significato”.
(Dummett,1991, trad.it., p. 125). Il linguaggio implica dunque un sistema di regole
che sono sociali, ma non è solo il rapporto tra significante e significato ad essere
intersoggettivo: lo stesso costituirsi del significante sembra avere natura
intersoggettiva. Infatti, come osserva Husserl (1974), il linguaggio “ha esistenza nel
mondo reale” solo come forma di riproduzione (trad.it, p. 26), quindi un segno che
fosse unico e irripetibile non sarebbe un segno. Solo attraverso la reiterazione esso
assume una propria forma ideale che rimanda allo stesso significato, per tutti i
soggetti coinvolti, nei diversi contesti di utilizzo.
I segni linguistici costituiscono un linguaggio solo in quanto risultato di atti di
reiterazione, i quali rimandano necessariamente ad altri soggetti. “Imparare un
linguaggio, cioè a usare i segni, infatti, significa anzitutto imparare a identificare e a
estrarre dal nastro fonico continuo “forme”, e dunque a iterare queste forme in nuovi
contesti di senso” (Costa, 2010, p. 45) per dar vita a nuove esperienze di interazione
sociale. Di conseguenza, anche nel caso del monologo interiore o discorso solitario,
si può parlare di atto intersoggettivo in quanto, se l’essenziale del segno linguistico è
rappresentato dalla sua “forma ideale” quale appare nella reiterazione d’uso,
piuttosto che nella sua forma grafica o fonemica, allora non esiste differenza tra un
discorso a più realmente proferito e un discorso tra sé e sé: il monologo interiore non
elimina l’intersoggettività in quanto l’altro è presupposto dal e per il fatto stesso che
io parli. Il discorso è dunque sempre una forma di dialogo, sia quando è il soggetto in
prima persona a parlare, sia quando l’ascoltatore non risponde immediatamente. Nel
primo caso, infatti per quanto affermato circa la natura del linguaggio, parlando si
reiterano segni riferiti da altri; similmente nel caso dell’ascoltatore che non risponde
9
“prima o poi, ciò che è stato sentito e attivamente compreso riecheggia nei discorsi
successivi nel comportamento dell’uditore” (Bachtin, 1979, trad.it., p.255).
Ancora una volta, quindi, sottolineiamo la natura sociale del soggetto: il parlante,
infatti, per il fatto stesso di reiterare segni linguistici, presuppone la presenza altrui.
Riprendendo nuovamente Bachtin, si potrebbe dire che: “Ogni parlante è lui stesso,
in vario grado, un rispondente: egli infatti non è il primo parlante, colui che per la
prima volta ha violato il silenzio dell’universo, e presuppone non soltanto la presenza
del sistema della lingua di cui si serve, ma anche la presenza di enunciazioni
anteriori- proprie e altrui”(ibidem), per cui ognuno di noi è sempre e inesorabilmente
coinvolto in un processo sociale e insieme storico. Del resto, come ribadiva lo stesso
Wittgenstein nelle Ricerche Filosofiche è difficile pensare ad un uomo che pensi tra
sé e sé, senza aver mai appreso un linguaggio udibile.
Concludendo, se il linguaggio è per natura sociale e intersoggettivo gli altri non si
danno come esseri separati, ma come parte integrante della nostra sfera privata: “per
questo siamo monadi, cioè punti di coagulo di un insieme di trame e di
tracce”(Costa, 2010, p.47).
1.6 IL GESTO SIGNIFICATIVO E IL PARLARE A SE’ STESSI
COME A UN ALTRO
Per quanto affermato precedentemente, sostenere che un segno linguistico sia sociale
significa anche dire che esso evoca lo stesso significato sia in colui che lo manifesta
sia in colui che lo ascolta, infatti “i gesti diventano simboli significativi quando
suscitano implicitamente nell’individuo che li compie le medesime risposte che essi
suscitano esplicitamente, o si ritiene che suscitino, negli individui ai quali sono
indirizzati” (Mead,1934, trad.it., p.73).
Usare un gesto significativo implica, quindi, la capacità assumere il punto di vista
dell’altro, interpretando un suo gesto, per dar vita a strategie di inganno, oppure a
10
situazioni di cooperazione nel raggiungimento di uno scopo comune. Ma i simboli
significativi possono essere usati anche per far scaturire una determinata risposta
anche in noi stessi. A questo proposito Mead afferma che: “Noi suscitiamo
continuamente in noi stessi, specialmente con l’uso di gesti vocali, le stesse risposte
che suscitiamo nelle altre persone e assumiamo quindi i loro atteggiamenti nella
nostra condotta personale. L’importanza critica del linguaggio nello sviluppo
dell’esperienza umana risiede nel fatto che lo stimolo è tale da poter reagire
sull’individuo parlante negli stessi termini in cui reagisce sugli altri” (p.92). Anche
alla luce di ciò sarebbe scorretto interpretare il monologo interiore come qualcosa di
privato, se si considera che “il pensiero è solo l’interiorizzazione di una
conversazione originariamente pubblica” (Costa, 2010, p.49). Per dirla con Arnold
Gehlen: “Non esiste primariamente un comportamento con sé stessi, poiché il
presupposto dell’esperienza di sé è l’identificazione con un altro” (1978, trad.it.,
p.360), cioè il potersi guardare assumendo il punto di vista di un altro, divenendo
oggetto a sé stesso.
1.7 I VISSUTI DELLA MIA COSCIENZA SONO ESPERITI
ORIGINARIAMENTE
L’importanza fin qui riconosciuta alla sfera soggettiva non deve però far pensare
all’approccio fenomenologico come un orientamento votato al solipsismo. Le
critiche mosse in questo senso sono state infatti numerose ma, come sostenuto da
alcuni autori tra cui Merleau-Ponty e lo stesso Husserl, si tratterebbe di un
fraintendimento radicale in quanto la fenomenologia non punterebbe a dimostrare la
superiorità dell’Io nella definizione degli altri e del mondo, quanto il fatto che alterità
e società sono parte integrante della coscienza di ogni singolo individuo. Una sorta di
critica all’impostazione cartesiana, perfettamente sostenuta da Heidegger (1983)
quando critica l’idea secondo cui “il singolo io è, con la sfera del suo Io, ciò che
11
innanzitutto e prima di tutto, o nel modo più certo gli è dato” (trad.it., p.266): un
dogma in grado di condurre all’ isolamento solipsistico.
Al contrario, secondo il pensiero fenomenologico il fatto di vivere in una comune
apertura di senso costituisce la conditio sine qua non è possibile comprendere gli
altri. Giunti a questo punto si dovrebbe chiarire che cosa ci differenzia gli uni dagli
altri. Infatti, “benché l’altro sia già dentro la mia sfera soggettiva, resta il fatto che il
“tu” che ci sta di fronte viene esperito come un alter ego, come un ego che, benché
abbia vissuti […] come noi, è altro da noi, e i suoi vissuti sono esperiti in maniera
diversa da quella in cui sono esperiti i propri.” (Costa, 2010, p.56).
La domanda a cui nelle prossime pagine si cercherà di dar risposta è: Perché, pur
vivendo in un mondo comune, gli Ego rimangono distinti? Una risposta potrebbe
essere che i vissuti esperiti in prima persona sono diversi dai vissuti altrui, dal
momento che solo i vissuti soggettivi possono essere esperiti direttamente. Tuttavia,
come osservato da Costa (ibidem), questa affermazione potrebbe essere contestata
dal pensiero per cui non ci sarebbe alcun primato dell’esperienza soggettiva se si
considera che, venendo al mondo, ciascuno assorbe idee, emozioni e schemi di
comportamento che appartengono alla nostra cultura. Volendo fare un esempio, il
vissuto personale della gelosia si rende possibile come esperienza personale solo
perché culturalmente mediata. Queste osservazioni, seppur corrette, sono del tutto
irrilevanti per la nostra questione, dal momento che il problema in esame non
riguarda la comprensione altrui, quanto gli elementi che caratterizzano l’esperienza
altrui, rendendola differente da quella personale. Riprendendo l’esempio della
gelosia, pur ammettendo che essa è resa possibile dall’appartenenza ad un comune
mondo culturale, resta da capire per che cosa si caratterizza il vissuto personale della
gelosia. In questo senso, ammettere che i vissuti personali sono dati in maniera
originale, potrebbe significare che “tutte le esperienze originariamente vissute non
sono soggette a errore” (ibidem, p.57); mentre riguardo ai vissuti dell’altro, esperiti
solo indirettamente, è possibile sbagliarsi. I giudizi personali sono resi possibili dal
fatto di appartenere ad una comunità di parlanti che, reiterando atti linguistici, li
12
trasformano in segni significativi comunemente condivisi, che assicurano
l’oggettività e la correttezza delle proprie credenze. D’altra parte, questa interazione
con il mondo è resa possibile dal fatto che ogni singolo parlante fa riferimento a ciò
che offre la sua propria percezione per cui, come ha notato Donald Davidson (2001):
“Gli standard di realtà da cui dipende la mia comprensione degli altri sono i miei, e
al di là di quelli non può esserci alcun appello” (trad.it., p.116).
Ecco in che cosa consiste la differenza strutturale dell’ indubitabilità tra la mia e
l’altrui esperienza: degli altri “so” qualcosa di quello che accade nella loro psiche in
quanto lo leggo sul loro viso, cioè sulla base di interpretazione. Lo sbadiglio
dell’altro mi segnala la sua noia. La osservo. La mia noia, invece, non me la leggo
sul volto: la vivo dall’interno (De Monticelli, 1998).
1.8 LA CORRENTE TEMPORALE INDIVIDUALIZZA I VISSUTI
Riassumendo, sottolineare la differenza tra vissuto originale in prima persona e
vissuto indiretto di un alter non significa né minare l’influsso culturale sul vissuto
stesso, né, tantomeno, affermare che esistano prima tanti soggetto isolati e che, solo
in un secondo momento, si formi una comunità intersoggettiva. Ciò che l’approccio
fenomenologico tenta di chiarire è che, pur vivendo in una comune apertura di senso,
ego ed alter ego non potranno mai avere lo stesso vissuto, né l’ Io potrà mai cogliere
l’esperienza altrui così come coglie la sua e questo perché il vissuto in prima persona
si sviluppa all’interno di una determinata corrente di coscienza e, di conseguenza, l'
io può accedervi riflessivamente in un atto in cui soggetto e oggetto
dell’osservazione appartengono alla medesima corrente di coscienza (Husserl, 2002).
Ma cosa si intende con corrente di coscienza? Con essa si fa riferimento alla serie di
vissuti personali che, trascorrendo, diventano ricordi ma non per questo vanno persi
anzi, pur non essendo ricordati nell’attuale, mantengono rigidamente la loro
posizione temporale all’interno della corrente di coscienza (Costa, 2010). In questo
modo ogni vissuto viene identificato; per cui per esempio due sensazioni identiche
13
verranno vissute diversamente perché appartenenti a due momenti distinti della
corrente temporale dei ricordi. È questa struttura a far si che un soggetto possa
accedere ai suoi pensieri diversamente da come possa accedere a quelli altrui. Così,
mentre un vissuto in prima persona è riscontrabile all’interno della propria corrente
temporale, un vissuto estraneo è riconoscibile solo indirettamente, per analogia con il
proprio. Nel caso della gelosia un soggetto può avere accesso al suo vissuto
originario per mezzo della riflessione, ma può solo comprendere la gelosia altrui,
ovvero può “sentire quello che l’altro sente solo attraverso una trasposizione
appercettiva: il sentire dell’altro lo esperisco a partire dalla mia esperienza” della
gelosia (p.62).
Si potrebbe dire che assorbire un vissuto (dal mondo storico-culturale
d’appartenenza) significa innestarlo in un nuovo contesto, ovvero inquadrarlo
all’interno di un flusso di coscienza temporale che lo individualizza. Riprendendo
l’esempio della gelosia essa, per esempio, sarà vissuta diversamente da un soggetto
che investe molto della sua esistenza nel rapporto, piuttosto che da un individuo
molto impegnato professionalmente. Ne deriva che un vissuto sarà tale solo in base
al rapporto che intrattiene con l’intera personalità del soggetto, dove con il termine
personalità si allude a tutto il sistema di rimandi della coscienza temporale. Così
Edith Stein (1917) notava che: “Ogni vissuto, checché se ne dica, è essenzialmente il
vissuto di un Io e ogni vissuto, da un punto di vista fenomenico, è, in modo assoluto,
inscindibile dall’Io” (trad.it., p. 105). Questo significa ammettere che non esistono
vissuti identici, poiché “ogni presente di vita racchiude in sé, nella sua intenzionalità
concreta, la vita intera” (Husserl, 1959, trad.it., p. 207). Nella pratica di un rapporto
intersoggettivo la comprensione dei vissuti altrui può avvenire solo per mezzo di una
analogia con i propri vissuti di coscienza, i quali sono comunque diversi tra loro. Il
fatto di appartenere ad una comune apertura di senso mette, infatti, tutti nella
condizione di sperimentare emozioni caratteristiche di un determinato mondo e di
saperle contestualizzare; tuttavia, una cosa è comprendere che l’altro sta
sperimentando un certo vissuto, un’altra è cercare di capire che cosa egli prova
14
realmente. E questo perchè, mentre i vissuti in prima persona possono esser colti
direttamente, l’esperienza altrui non può esser colta nell’originale in quanto inserita
all’interno di un flusso specifico.
Paradossalmente, “per cogliere e sentire la gelosia di un altro come sentiamo la
nostra dovremmo coincidere con la sua intera corrente temporale. Un evento che, per
motivi essenziali, non può realizzarsi. Pertanto le coscienze restano separate e
uniche, come anche i singoli vissuti” (Costa, 2010, p. 64).
1.9 ORIGINARIETA’ DEL VISSUTO E POSSIBILITA’ DELL’INGANNO
Sulla base di quanto emerso, uno dei criteri per distinguere i vissuti personali da
quelli altrui è rappresentato dall’ indubitabilità soggettiva, derivante dall’originarietà
del vissuto personale. Affermare ciò non significa, tuttavia, negare la possibilità
d’errore all’interno della sfera fenomenologica. L’indubitabilità a cui si fa
riferimento è infatti quella dei vissuti di un certo individuo, mentre non è riferita alla
veridicità degli eventi narrati. È necessario dunque fare una distinzione tra il vissuto
e l’evento a cui il vissuto si riferisce: mentre il primo è certo in quanto appartenente
alla sfera soggettiva, il secondo è solo possibile e capace di trarre in inganno. Husserl
(1973), per primo, afferma che “il ricordo inganna spesso” (trad.it., p.50), e tuttavia
proprio questo permette la definizione del Sé, della propria corrente di coscienza; si
potrebbe infatti dire che il Sé si costituisce in quanto tutti i vissuti dell’Io sono
collegati tra di loro secondo un preciso ordine temporale.
Sebbene l’errore sia dunque possibile (un individuo può pensare che le cose siano
andate in un certo modo e poi scoprire che in realtà sono andate diversamente,
oppure credere di aver vissuto un certo evento e poi scoprire di averlo solo sentito
raccontare), nella sfera del ricordo vi è un “in sé” che è possibile cercar di
raggiungere attraverso ricordi che richiamano altri ricordi (Costa, 2010). Questo “in
sé” sarebbe la coscienza stessa come concatenazione di vissuti in forma di ricordi.