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INTRODUZIONE
La didattica dell’interpretariato di conferenza si è evoluta nel corso degli ultimi
decenni, proponendo corsi di formazione e approcci didattici anche molto diversi tra
loro. Proprio per questo, con il passare del tempo è divenuto sempre più difficile
riuscire a trovare un’impostazione comune ad ogni corso formativo. Sebbene tale
contesto meriti una metodologia propria, sfortunatamente oggi nessuna teoria è in
grado stabilire con esattezza delle regole da adottare nell’insegnamento.
Tra gli elementi appartenenti al suddetto contesto, possiamo certamente trovare
quello della mock conference, uno strumento in grado di porre gli studenti dinanzi ad
una simulazione vera e propria di un contesto professionale. Grazie a questa
fondamentale caratteristica, la mock conference, che potremmo indicare come
“conferenza simulata”, si è rivelata essere un interessante oggetto di ricerca. Sulla
base delle esperienze in materia, dunque, si è scelto di analizzarla, allo scopo di
verificarne l’utilità nella didattica dell’interpretariato.
Cosa comporta una simile esercitazione? E quali vantaggi possono trarne gli
studenti? Queste sono solo alcune delle domande alle quali la presente tesi ha cercato
di rispondere, al fine di considerarne ogni aspetto prima di raggiungere l’ottenimento
di risultati concreti. La dissertazione che segue non si propone come un manuale
teorico, bensì come un punto di partenza per chiunque voglia conoscere più
dettagliatamente la funzionalità di tale strumento.
Nella tesi non vengono solamente indicate le basi teoriche della formazione per gli
interpreti o commentate le esperienze personali legate all’evento della mock
conference. Al contrario, attraverso un esperimento pratico, condotto grazie alla
partecipazione attiva di studenti del primo e del secondo anno di Interpretariato di
Conferenza dell’Università Luspio di Roma, di alcuni docenti dello stesso corso e di
un oratore chiamato a proporre le sue osservazioni, si dà luce allo strumento della
mock conference, verificandone nella pratica le modalità di attuazione e i vantaggi
che se ne possono trarre.
Inizialmente, attraverso una raccolta di informazioni sulla teoria e sulla pratica della
didattica dell’interpretariato, si è quindi voluto porre le basi per identificare meglio il
contesto dal quale si è partiti per analizzare questa particolare tipologia di
conferenza. Nella prima sezione, sono analizzati alcuni esempi di corsi di formazione
esistenti, di cui si prendono in considerazione approcci e obiettivi didattici. In questo
modo, si è scelto di porre l’accento su alcune tematiche ad essi legate, quali la
selezione degli studenti nelle scuole superiori di interpretazione e la verifica delle
loro competenze attraverso l’uso costante della valutazione da parte di professionisti.
Infine, è sembrato opportuno concludere la sezione menzionando la situazione
attuale del mercato del lavoro e le opportunità offerte agli studenti (nel corso della
loro formazione) allo scopo di consentire loro un avvicinamento graduale ad esso.
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Tra queste opportunità, spicca certamente quella della mock conference che, per la
sua predisposizione, consente agli studenti di mettersi in gioco assumendo
concretamente il ruolo di interpreti. Nel corso delle mock conference, infatti, gli
studenti agiscono in prima linea, in quanto attori a servizio delle necessità
dell’ascoltatore, il quale dipende interamente dalla loro interpretazione.
Nel continuare l’analisi, il secondo capitolo si offre come un’introduzione alla mock
conference, atta ad individuarne le caratteristiche fondamentali e gli usi che se ne
possono fare a livello didattico, così come in contesti di diverso tipo. Il più
interessante ai fini della nostra ricerca è certamente il contesto didattico e, più
particolarmente, della formazione in Interpretariato di Conferenza.
Procedendo con la dissertazione, si cominciano a delineare gli elementi chiave
dell’esperimento, in quanto si passa ad esaminare concretamente le scelte compiute
nella strutturazione dello stesso. L’esperimento, condotto attraverso l’organizzazione
di una mock conference, viene quindi osservato nelle sue fasi iniziali, ossia
nell’ideazione e nell’attuazione. Si prendono in esame elementi quali la scelta
dell’argomento e dell’oratore, la selezione e la preparazione degli studenti/interpreti,
così come le pratiche amministrative e la realizzazione vera e propria della
conferenza. Tuttavia, in questa sezione, non vengono analizzati i risultati
dell’esperimento stesso, che invece hanno spazio nell’ultimo capitolo. In esso, infatti,
si procede con la presentazione del protocollo di ricerca, ossia il dettaglio del piano
di svolgimento dello studio.
In ultima istanza, per essere attentamente osservato, l’esperimento della mock
conference necessitava di un supporto pratico sul quale basarsi; nel caso specifico,
tale elemento è stato costituito da tre diverse tipologie di questionario. Attraverso tali
moduli, rispettivamente associati alle figure dell’interprete, dell’ascoltatore e
dell’oratore (ossia dei partecipanti alla conferenza), è stato quindi possibile
riscontrare nel capitolo conclusivo, grazie ai risultati che ne sono stati ricavati,
l’utilità dello strumento della mock conference.
Tramite l’analisi delle risposte ai questionari da parte dei protagonisti sopra
menzionati è stato quindi possibile trarre conclusioni sulla sua validità come
strumento formativo.
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CAPITOLO 1
La didattica dell’interpretariato: teoria e formazione
In questo primo capitolo, ci proponiamo di analizzare, attraverso alcune delle fonti
più autoritarie in materia, l’interpretariato di conferenza e, in modo particolare, la
didattica dell’interpretariato. In questo modo, sarà possibile conoscere, anche se
limitatamente, le tematiche e gli aspetti che costituiscono tale ambito. Attraverso
un’analisi dei programmi di formazione, degli approcci didattici, della selezione
degli studenti, dei requisiti all’ingresso, (solo per citarne alcuni), vedremo come si
presenta questo tema oggi e qual è stato il suo sviluppo nel corso degli anni.
Tale capitolo si pone come la base di quelli che seguiranno, costituendo le solide
fondamenta dell’esperimento intrapreso, ossia l’organizzazione di una mock
conference. Non c’è pratica senza teoria; è bene allora conoscere le basi teoriche
prima di prendere in considerazione la prassi.
1.1. LA NASCITA DELL’INTERPRETARIATO DI CONFERENZA
Oggigiorno, nelle conferenze internazionali, l’interpretazione viene data per scontata;
vi sono istallazioni di cabine permanenti in ogni importante sala conferenze di tutto il
mondo. Nonostante questo, si tratta di una professione piuttosto nuova, le cui origini
risalgono a meno di un secolo fa.
L’interpretazione nacque nel corso della Conferenza di Pace di Parigi del 1919,
quando i britannici insistettero sul riconoscimento dell’inglese come una delle lingue
diplomatiche ufficiali. Il brillante esempio dell’interprete Paul Mantoux alla
Conferenza di Pace segnò un punto di svolta fondamentale nella storia moderna
dell’interpretariato internazionale: il passaggio da “interpreti per caso” (più o meno
individui bilingui) a corpi di professionisti con capacità particolari che lavorano nella
Società delle Nazioni e nell’ILO a Ginevra. A partire da quel momento, ogni
questione diplomatica poteva quindi essere discussa in francese o in inglese, creando
un bisogno permanente della traduzione orale.
Talvolta poteva succedere che gruppi di delegati non fossero in grado di parlare né
l’inglese, né il francese; per questo, avevano bisogno di interpreti che traducessero i
processi per loro tramite la tecnica dello chuchotage e interpretassero i discorsi in
consecutiva.
Le prime specifiche iniziative di tirocini sulla presa d’appunti in consecutiva, così
come le prime ricerche scientifiche sull’interpretazione e sugli interpreti, sono
associate a questo contesto. La prima scuola ad essere fondata in questo campo fu
l’Università per Traduttori e Interpreti nel mondo degli affari, fondata a Manheim,
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Germania, nel 1930. Il bisogno di interpreti professionisti qualificati portò alla
nascita, nei primi anni quaranta, delle facoltà per la formazione di traduttori e
interpreti (En. T/I Schools) nelle Università di Ginevra e Vienna. A quel tempo, le
scuole formavano i candidati nelle tecniche dello chuchotage e dell’interpretazione
consecutiva, e insegnavano solo in quattro lingue. Tuttavia, questi metodi non erano
soddisfacenti. Sebbene sussurrata, la voce dell’interprete interferiva infatti con quella
dell’oratore e solo un piccolo gruppo di delegati poteva sentire la traduzione. Inoltre,
la consecutiva era piuttosto lenta, poiché ogni frase doveva essere ripetuta in ogni
altra lingua di lavoro.
Le conferenze internazionali necessitavano di un metodo più efficiente, e così fu
inventato il sistema dell’interpretazione simultanea. Il boom nell’interpretariato di
conferenza coincide proprio con questo momento, ossia con il Processo di
Norimberga, aperto dal giudice Lawrence il 20 novembre 1945.
Allora, era difficilmente credibile che un solo sistema potesse dare accesso a quattro
lingue simultaneamente. Inoltre, quello di ascoltare e parlare nello stesso momento
sembrava essere un compito al di là delle capacità umane. I mass media elogiavano e
criticavano la simultanea allo stesso tempo, ma per gli addetti ai lavori nel campo
della traduzione era chiaro quanto questa fosse rivoluzionaria. Tuttavia, nonostante le
prime critiche dovute alla mancata conoscenza dello strumento, su una cosa vi fu un
consenso comune: il processo non sarebbe stato possibile senza la simultanea.
I problemi legati all’introduzione della simultanea al Processo di Norimberga non si
conclusero nemmeno una volta che la decisione di adottarla fu definitivamente presa:
l’installazione presentava alcuni problemi e reclutare gli interpreti era il compito più
difficile di tutti, date la novità e la difficoltà del lavoro. Tuttavia, bisognava garantire
un processo equo ad ogni imputato, avente il diritto di parlare e ascoltare la propria
lingua. Fu così deciso che ogni nazione alleata coinvolta avesse il diritto di usare la
propria lingua.
Il reclutamento degli interpreti fu un processo in due fasi. I candidati venivano
esaminati sulle loro capacità linguistiche nei paesi di origine; quelli selezionati
venivano poi mandati a Norimberga, dove il capo della sezione di traduzione, Léon
Dostert, era chiamato ad esaminarli in simultanea. I criteri per la selezione erano
molto rigidi data la difficoltà del lavoro; per questo, non tutte le persone selezionate
per il processo potevano diventare interpreti alla fine di esso. La seconda parte del
processo di selezione consisteva nel determinare quali candidati fossero in grado di
ascoltare e tradurre allo stesso tempo. Il test consisteva in un processo simulato in cui
i potenziali interpreti in cabina dovevano tradurre simultaneamente verso la loro
madrelingua, o la lingua in cui si sentivano maggiormente a proprio agio. Il ritmo
della lettura aumentava gradualmente fino a raggiungere una velocità normale e poi
sostenuta. Se gli interpreti non riuscivano a gestire la velocità normale, non erano
considerati all’altezza. Essi, inoltre, dovevano avere una vasta conoscenza delle
culture delle lingue A e B, così come la padronanza della lingua e la fluidità,
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l’esperienza di public speaking e la conoscenza di un vasto vocabolario su argomenti
diversi come il diritto, la medicina e l’attualità. Infine, essi dovevano avere una voce
gradevole e un’enunciazione chiara, così che ascoltarli per diverse ore potesse essere
semplice.
Prima che il processo avesse inizio, ci furono delle sessioni preparatorie, in cui ci si
assicurò che il sistema funzionasse a dovere, che gli interpreti scelti fossero in grado
di tradurre in simultanea e che i membri del tribunale conoscessero il funzionamento
del sistema.
Francesca Gaiba, nelle parole di chiusura del primo capitolo del suo libro intitolato
“The origins of Simultaneous Interpretation –The Nuremberg Trial”, ci informa che:
“Pretrial arrangements ended shortly before the beginning of the trial. The
equipment had been installed, the 36 necessary interpreters had been selected
and trained. The court members had been instructed on how to use the
system. The Translation Division was ready for the first day of the trial. It
was vital for the trial that the interpreting system work well: if the system
broke down, the trial would be a farce, a meaningless gathering of people
who could not understand each other. Considering the effort everyone had put
into installing, recruiting, training and practicing, the division was quite sure
that interpreting would not fail. But last-time hitches were always possible.
On November 19, 1945 mock trials and training sessions stopped. The
following day, interpreting would begin for real.
1
”
Dopo quell’avvenimento sorprendente, vennero istituite nei primi anni cinquanta
organizzazioni professionali (di traduttori e interpreti) sia nazionali che
internazionali, incoraggiate da un mercato professionale in espansione e da un
numero sempre crescente di laureati. Insieme alla FIT (Federazione Internazionale
dei Traduttori), atta a rappresentare i professionisti di traduzione e interpretariato
tramite associazioni nazionali di traduttori e interpreti, venne istituita, nel 1953,
l’AIIC (Associazione Internazionale degli Interpreti di Conferenza). Basata su un
codice di standard etici e professionali adottato nel 1957, l’AIIC si interessò alle
condizioni lavorative degli interpreti e stabilì un alto profilo per la professione su
scala internazionale. Ancora oggi, l’AIIC svolge un ruolo fondamentale nel campo
dell’interpretariato di conferenza.
1
GAIBA, F., “The origins of simultaneous interpretation: The Nuremberg Trial”, (ed.) F.
Gaiba. University of Ottawa Press. Ottawa, 1998, p. 52.
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1.2. LA DIDATTICA DELL’INTERPRETARIATO E GLI ISTITUTI DI
FORMAZIONE: TEORIA E PRATICA
La didattica nel campo dell’interpretariato viene ufficialmente istituzionalizzata in
Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale e si sviluppa in volume e importanza
economica soprattutto nella seconda metà del ventesimo secolo.
Nel corso degli anni, il bisogno crescente di interpreti dà nascita a un gran numero di
istituti di formazione. La maggior parte delle scuole di interpretariato è in Europa,
ma vi sono numerose università che offrono tale formazione in tutti i continenti.
Il numero di istituzioni a livello universitario che offrono lauree in traduzione o in
interpretazione crescono di anno in anno, passando da 49 a 80 tra il 1960 e il 1980 e
raggiungendo un totale di più di 250 (in più di sessanta paesi) già nel 1994.
La formazione a livello universitario viene fortemente promossa dall’AIIC; inoltre,
facoltà per traduttori/interpreti si riuniscono nei primi anni sessanta per formare la
CIUTI (Conferenza internazionale permanente degli istituti universitari di traduttori
e interpreti), come gruppo di istituti riconosciuti. In questo contesto, alcuni
professionisti producono i primi manuali di interpretariato.
Sin dagli anni ottanta, la CIUTI si è focalizzata sulla doppia identità dell’educazione
dell’interprete (e del traduttore), orientata verso la pratica professionale e guidata
dalla ricerca accademica.
Per la maggior parte del ventesimo secolo, quasi tutti i programmi di formazione e le
istituzioni erano finalizzate all’interpretazione parlata in ambienti internazionali
multilingui. Con il chiaro obiettivo di sviluppare capacità professionali in
consecutiva e in simultanea, la prima generazione di insegnanti di interpretariato
stabilì una tradizione di formazione tramite il tirocinio, ossia il trasferimento di
conoscenze da maestro a studente, soprattutto attraverso esercizi modellati sulla vita
reale.
Temi importanti nella letteratura sulla formazione dell’interprete includono la
selezione dello studente e la valutazione della sua performance, così come i metodi
di insegnamento per sviluppare le capacità che costituiscono la competenza
dell’interprete. Tuttavia, la riflessione sistematica su queste tematiche rimane molto
limitata fino agli anni ottanta e novanta.
Altre tematiche analizzate dalla letteratura sulla formazione riguardano aspetti quali
il livello, la durata e l’intensità dei corsi di formazione.
Nell’interpretariato di conferenza, i corsi vanno dai sei mesi, come quelli organizzati
dalla Commissione Europea, ai quattro/cinque anni universitari. Data la varietà dei
corsi offerti, la CIT (En. Conference of Interpreter Trainers), fondata nel 1979, ha
sviluppato alcuni standard sull’istruzione dell’interprete.
Nonostante questo, le scuole di formazione seguono percorsi differenti, a seconda del
sistema educativo che vige nel paese in cui sono localizzate. Al di là delle differenze,
9
però, la maggior parte dei corsi di formazione per interpreti, fin dagli anni quaranta,
ha delineato alcune componenti di corso:
- concetti base di lingua e comunicazione;
- miglioramento linguistico (terminologia specializzata);
- insegnamento delle capacità in consecutiva e in simultanea;
- etica professionale.
Fino ad oggi, la maggior parte delle scuole di interpretariato ha formato solo
interpreti di conferenza; solo alcune hanno offerto anche corsi speciali per diventare
interpreti di tribunale. In diverse scuole, viene insegnata anche l’interpretazione di
trattativa per necessità di mercato; in linea di massima, però, il tipo di interpretazione
di trattativa solitamente chiamato “interpretazione di comunità”, come quella al
servizio degli immigranti, è stato perlopiù assente dai programmi di formazione degli
interpreti.
Nel corso degli anni, è emersa una notevole varietà di modelli di corso
sostanzialmente differenti tra loro. Gli obiettivi dell’apprendimento possono variare
anche tra combinazioni linguistiche, il che rende la comparazione profonda tra scuole
ancor più problematica.
Data la grande varietà di approcci, obiettivi e modelli inerenti ai programmi di
formazione di tutto il mondo, non è possibile fornire una descrizione esaustiva
dell’ambiente formativo. Sappiamo inoltre che nessun modello di formazione può
essere considerato universale, ma perché? Principalmente, perché vi è troppa
variabilità di parametri ambientali come le condizioni di ammissione, l’età degli
studenti, l’esperienza scolastica precedente, la padronanza delle future lingue di
lavoro, la dimensione della classe, la qualifica del docente, l’accesso a un ambiente
multilingue al di fuori del programma, ecc. Tale variabilità presuppone che quando si
crea un corso, adattarlo ai limiti ambientali potrebbe essere più importante che
cercare di farlo aderire a un modello standard.
Tuttavia, è comunque possibile identificare una serie di modelli o approcci che hanno
preso piede nel corso degli anni:
Il modello continentale prevede una parte introduttiva o generale di due
anni, consistente principalmente nella didattica della traduzione, seguita da
una fase di specializzazione di due anni in interpretariato. In questo modo, gli
studenti provenienti da questi istituti ricevono una formazione relativamente
completa sia in traduzione che in interpretariato. Dopo un diploma di base, gli
studenti possono continuare a frequentare corsi più avanzati. In questo
modello, la formazione linguistica nelle lingue di lavoro (solitamente almeno
tre) è parte del programma di studi; solitamente, però, non sono consentiti test
d’ingresso formali.
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Le tradizioni piuttosto fisse nel campo della formazione in interpretariato
sono in forte contrasto con la cultura liberale nel Regno Unito, che segue il
cosiddetto approccio britannico/liberale. In tale contesto, diverse università
offrono una formazione in interpretariato, ma l’organizzazione e l’enfasi della
didattica varia molto a seconda dell’università in cui viene impartita; per
questo, è difficile schematizzare il sistema britannico. Dato che i corsi sono
piuttosto brevi (uno o due anni), gli studenti devono possedere le capacità
linguistiche necessarie prima di accedere al programma.
Una terza tendenza, non legata alle tradizioni accademiche, è l’istruzione
strettamente orientata al mercato del lavoro, erogata da istituti accademici, e
non, di tutto il mondo. In questo approccio orientato al mercato,
l’insegnamento e gli esami sono condotti da organizzazioni professionali e gli
studenti vengono ammessi sulla base di qualifiche formali, come la
formazione scolastica e i risultati dei test d’ingresso.
Un modello speciale nella didattica dell’interpretariato appartiene
all’organizzazione della formazione degli interpreti di comunità in alcuni
paesi scandinavi, soprattutto in Svezia. In questo sistema, definito approccio
scandinavo/flessibile, gli interpreti frequentano classi di formazione
professionale che non sono corsi accademici, ma piuttosto “liberal adult
education organisations
2
”, una sorta di centri di istruzione per adulti. Non vi
sono programmi fissi, ma l’Istituto per gli Studi sull’Interpretariato e la
Traduzione dell’Università di Stoccolma emana consigli da seguire nei profili
dei corsi, supervisiona la formazione e distribuisce i finanziamenti
governativi necessari allo svolgimento dei corsi stessi. Gli esami formali non
sono consentiti e l’obiettivo del corso è che gli studenti passino il test di
accreditamento governativo dopo aver concluso il programma.
I modelli teorici di cui disponiamo sono strumenti che ci consentono di analizzare il
processo ed identificarne le componenti. Certamente, la maggior parte dei docenti di
interpretariato tende ad insegnare senza fare affidamento su modelli teorici, ma solo
ed esclusivamente sulla base dell’intuizione e dell’esperienza. Il problema nasce
quando non ci si prefigge l’obiettivo di un determinato esercizio e quando non si
valutano sistematicamente i risultati che esso produce. Se si vogliono sviluppare e
migliorare i modelli di insegnamento, è necessario dunque adottare un approccio più
sistematico e critico riguardo agli strumenti didattici utilizzati. Piuttosto che come
fonte vaga di ispirazione, bisognerebbe utilizzare il materiale teorico di cui si dispone
per sviluppare ed esaminare gli strumenti didattici. In tal modo, i modelli e le teorie
2
NISKA, H., Training interpreters – Programmes, curricula, practices in “Training for the new
Millenium – Pedagogies for translation and interpreting”, (ed.) M. Tennent. John Benjamins
Publishing Company. Amsterdam/Philadelphia, 2005, p. 40.
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utilizzate in questo ambito potranno essere migliorate e adattate sulla base di dati
empirici.
Secondo molti, tra i quali John M. Dodds, bisogna parlare seriamente in termini di
una teoria generale dell’interpretazione e di una metodologia per insegnarla.
L’interpretariato di conferenza è sì una professione, ma è anche una materia
accademica che merita una teoria e una metodologia proprie. È pur vero, tuttavia, che
nessuna teoria scientifica può essere abbastanza potente da predire una prestazione
interpretativa secondo regole di corrispondenza assoluta. Date le infinite variabili che
fanno parte del processo interpretativo, l’unica teoria possibile è quella che valuta
anche le variabili non osservate, che è dunque capace di prevederle. Per questo, si
tende ad escludere una teoria prettamente scientifica, in favore di una teoria
razionale.
Al di là della teoria, sembra comunque che la prestazione dell’interprete dipenda
dalle sensazioni dell’ascoltatore o dalla sua reazione soggettiva a ciò che ha udito
(l’”intuizione dell’ascoltatore” di Chomsky).
Secondo Catherine Stenzl, l’interazione che avviene tra teoria e pratica è
particolarmente rilevante per lo sviluppo di metodi ottimali di insegnamento
dell’interpretariato. L’interpretazione non è certo qualcosa che si può apprendere
leggendo un libro; si tratta invece di una capacità molto complessa che necessita di
molta pratica per essere sviluppata. Quello che la maggior parte delle persone fa
quando insegna una capacità è suddividere tale arte in diversi stadi. Questo è quello
che avviene, ad esempio, quando si impara a suonare un qualsiasi strumento. Nel
caso dell’insegnamento dell’interpretariato, tuttavia, questo tipo di approccio risulta
essere difficoltoso: ammesso che sia possibile suddividere il processo in diversi stadi,
non è certo possibile valutare le performance isolandoli. L’unico modo in cui
possiamo verificare ciascuno stadio del processo è esaminarlo nel corso della
produzione.
Per quanto riguarda il posto che la teoria ha in classe, vi sono diverse visioni. Alcuni
considerano che sia indispensabile per migliorarsi; altri sostengono che
l’interpretazione sia un’azione e che la teoria non sia quindi in grado di migliorare né
la formazione né la pratica dell’interpretazione. È difficile provare che ciascuna di
queste visioni sia corretta, ma sembra ragionevole aspettarsi che il ruolo della teoria
in classe, seppur limitato, sia del tutto vantaggioso.
1.2.1. Programmi e corsi di formazione
Come accennato in precedenza, i programmi di formazione per interpreti di
conferenza vengono continuamente valutati dall’AIIC, la quale utilizza un sistema di
stelle per verificare la conformità dei programmi ai criteri di qualità stabiliti