IV
logica quindi, il rischio di credito deve essere misurato e conseguentemente gestito facendo
riferimento non a una semplice distribuzione binomiale dei possibili eventi (“insolvenza” vs
“non insolvenza”), quanto piuttosto avendo a riferimento una distribuzione nella quale
l’evento insolvenza rappresenta unicamente l’evento estremo, preceduto da diversi livelli di
probabilità che questo evento estremo possa in futuro manifestarsi. L’evento dannoso è
rappresentato dunque dall’insolvenza del debitore, mentre il deterioramento del suo merito di
credito comporta un aumento del rischio, ma non necessariamente una perdita. Inoltre,
affinché si possa parlare realmente di rischio di credito, occorre che la variazione del merito
creditizio della controparte sia inattesa. In questo senso, il rischio di credito rappresenta la
possibilità che una variazione inattesa del merito creditizio di una controparte nei confronti
della quale esiste un’esposizione, generi una corrispondente variazione inattesa del valore di
mercato della posizione creditoria; esso viene dunque propriamente confinato alla possibilità
di eventi che, seppur stimabili, risultano inattesi. Dopo aver chiarito il concetto di rischio di
credito, sono passata ad analizzare le due componenti principali del suddetto rischio: la
perdita attesa (la quale però, come si avrà modo di chiarire nello svolgimento della
trattazione, non rappresenta il vero rischio di un’esposizione creditizia) e la perdita inattesa (la
quale rappresenta invece, il vero fattore di rischio ossia, il rischio che la perdita si dimostri, a
posteriori, superiore a quella inizialmente stimata). Tale distinzione risulta fondamentale al
fine di comprendere la logica che sottende il modello di misurazione del rischio di credito
oggetto della presente tesi, in quanto quest’ultimo è chiamato a stimare il rischio di credito di
un portafoglio e quindi la perdita inattesa connessa ad esso. Tale distinzione, a mio avviso, è
estremamente rilevante anche per il fatto che, mentre la perdita attesa deve trovare copertura
in riserve e viene caricata direttamente sul tasso di interesse praticato dalla banca alla
controparte (attraverso il premio a rischio), la perdita inattesa- o meglio il valore a rischio
(VaR)- rappresenta il capitale economico assorbito da una singola esposizione o da un
portafoglio di esposizioni e deve dunque riflettersi in una corrispondente dotazione
patrimoniale. Prima di analizzare nel dettaglio la stima del VaR secondo CreditMetrics™, mi
sono soffermata ad analizzare alcuni problemi comuni anche ad altre tipologie di modelli
esistenti per la stima del rischio di credito di portafoglio, che vanno dalla scelta dell’orizzonte
temporale di riferimento, fino ai criteri di determinazione del livello di confidenza.
Nella seconda parte del lavoro ho esaminato le caratteristiche tecniche della metodologia
CreditMetrics™, la quale è volta a determinare la massima perdita che un portafoglio di
esposizioni può subire nel corso di un predefinito orizzonte temporale e con un certo livello di
confidenza. Il modello in esame si fonda su dati relativi a tassi di migrazione e agli spread
V
rispetto ai rendimenti dei titoli di Stato dei soggetti appartenenti alle diverse categorie di
rating. Il trattamento del merito di credito da parte di CreditMetrics™ infatti, è coerente con
una logica di portafoglio e di valutazione dei crediti al loro valore di mercato, in particolare, si
propone come metodologia per la stima della distribuzione a scadenza delle variazioni che il
valore di mercato di un portafoglio di esposizioni creditizie subisce entro un determinato
orizzonte temporale.
Dopo un’approfondita trattazione teorica di ognuna delle sei fasi in cui il modello esaminato
può sintetizzarsi, nell’ultima parte della tesi ho illustrato l’applicazione dello stesso ad un
caso di specie. Grazie ad uno stage effettuato presso la Cassa di Fabriano e Cupramontana, ho
potuto infatti testare l’applicazione del modello ad un campione di clienti della banca stessa. I
dati utilizzati derivano dal database della clientela della banca, attraverso i quali ho tentato di
stimare il valore a rischio connesso al portafoglio delle esposizioni creditizie appartenenti al
campione esaminato. Ho dunque sviluppato matematicamente ogni fase del modello
CreditMetrics™ e per farlo ho dovuto studiare la procedura informatica utilizzata dalla banca
per rilevare e monitorare automaticamente il rischio del portafoglio crediti. L’applicazione del
modello al campione di clienti si è basata sui giudizi riguardanti ogni singolo cliente, elaborati
dalla procedura informatica utilizzata dalla banca, espressi in valori numerici e quindi
rappresentati da punteggi o scores. Tali dati, derivano da una approfondita analisi soggettiva,
su base esperienziale, di ogni singolo cliente. Per poter applicare il modello in esame, ho
ipotizzato che tali punteggi riflettano un rating interno, il quale è in fase di elaborazione da
parte di una società di servizi esterna alla banca e presto verrà adottato da quest’ultima. Dopo
aver suddiviso i clienti del campione in classi di rating, ho analizzato in un periodo temporale
di riferimento pari ad un anno, la variazione del loro merito di credito (quindi la migrazione
verso le altri classi di rating – upgrading o downgrading), la conseguente variazione del
valore di mercato della posizione creditoria e quindi, del conseguente valore a rischio.
Attraverso il seguente elaborato, il mio intento è quello di offrire una trattazione sia teorica
che analitica, circa uno strumento in grado di misurare validamente il rischio di credito di
portafoglio e, conseguentemente, l’assorbimento di capitale economico che vi è connesso. Ciò
assume ancor più rilevanza in quanto, l’attuale scenario competitivo nell’attività di
intermediazione creditizia spinge le banche ad assumere rischi sempre più elevati e quindi, a
mio avviso, è cresciuta di conseguenza l’esigenza di misurare e controllare i rischi stessi, al
fine di migliorare il livello di consapevolezza delle scelte di gestione.
1
CAPITOLO 1
IL RISCHIO DI CREDITO E L’APPROCCIO VAR
- 1.1 Cosa si intende per rischio di credito
Prima ancora di analizzare le componenti del rischio di credito è bene chiarire cosa si intende
per “rischio di credito” poiché, per quanto apparentemente semplice e delimitato, tale termine
racchiude diversi significati ed è utilizzato con riferimento a diverse categorie di rischio e a
diverse tipologie di strumenti finanziari.
Il rischio di credito rappresenta la possibilità che una variazione inattesa del merito creditizio
di una controparte nei confronti della quale esiste un’esposizione, generi una corrispondente
variazione inattesa del valore di mercato della posizione creditoria.
In questa semplice definizione si racchiudono alcuni concetti impliciti che necessitano di
essere chiariti e quindi esplicitati.
- Anzitutto il rischio di credito non è confinato alla sola possibilità dell’insolvenza di una
controparte in quanto, anche il semplice deterioramento del merito creditizio di quest’ultima
deve considerarsi una manifestazione del rischio di credito. Se ad esempio si considera un
prestito a tasso fisso è evidente che, in presenza di un deterioramento del merito creditizio del
debitore, il valore di mercato del prestito subisce una diminuzione. Ciò accade in quanto il
valore di mercato del prestito in esame, è dato dal valore attuale dei flussi di cassa ad esso
associati utilizzando un tasso di sconto che oltre al tasso risk-free per la scadenza
corrispondente, incorpora un premio al rischio che riflette la probabilità di insolvenza della
controparte. Così, un peggioramento del merito creditizio di quest’ultima, innalzando tale
probabilità, conduce ad un corrispondente incremento del premio al rischio, e quindi
automaticamente ad una riduzione del valore di mercato dell’attività. Matematicamente
quest’ultimo è dato da:
n
VM = ∑ [Ft /(1+k)
t
]
t=0
VM = valore di mercato del prestito a tasso fisso
Ft = flussi di cassa associati al prestito
2
[1/(1+k)²] = fattore di sconto, dove k è il tasso di interesse sul prestito comprensivo del
premio per il rischio di credito
1
.
Analogamente, un prestito a tasso variabile per il quale lo spread rispetto ad un tasso di
mercato monetario è prefissato, nel caso di deterioramento del merito creditizio della
controparte affidata, subisce una diminuzione di valore.
Generalmente, la riduzione del valore di mercato di un’attività finanziaria in seguito ad un
deterioramento del merito creditizio dell’emittente di tale attività, risulta tanto maggiore
quanto maggiore è la vita residua dell’attività.
Conseguentemente a quanto detto sopra, il rischio di credito può in prima approssimazione
essere suddiviso in due componenti: il rischio di insolvenza, il quale rappresenta il rischio di
perdita conseguente all’insolvenza del debitore, e il rischio di spread
2
, rischio di una perdita
conseguente al semplice deterioramento del merito creditizio di quest’ultimo, a cui seguirebbe
un innalzamento dello spread richiesto dal mercato.
- Un secondo concetto implicito nella definizione di partenza riguarda il fatto che, affinché si
possa parlare realmente di rischio di credito, occorre che la variazione del merito creditizio
della controparte sia inattesa. Infatti se un istituto di credito affida una controparte, essendo
però consapevole che quest’ultima subirà un deterioramento della propria qualità dal un punto
di vista della redditività, della solvibilità, della liquidità ecc., nel momento della decisione di
affidamento e in sede di determinazione del pricing, valuterà attentamente tale deterioramento
che verrà tenuto quindi in considerazione. Le prospettive di evoluzione delle condizioni
economiche finanziarie della controparte affidata saranno adeguatamente considerate in sede
di determinazione della probabilità di insolvenza, giudicata compatibile con un puntuale
1
Il tasso di sconto comprensivo del premio per il rischio di credito (k), dipende in misura inversamente
proporzionale dalla probabilità che il capitale e gli interessi del prestito vengano interamente ripagati (p), infatti
ciò si deduce dallo schema logico per la definizione del pricing del prestito con cui la banca valuta la
combinazione rischio-rendimento ottimale relativa allo stesso (per semplicità il capitale preso a prestito è posto
pari ad 1):
P·(1+k) = 1+i
dove i è il tasso risk-free. Nel caso in cui p fosse uguale ad 1, si avrebbe quindi la certezza che il debitore ripaghi
interamente il capitale più gli interessi, il tasso k coinciderebbe con il tasso i. Infatti:
se p=1, (1+k) = (1+i) quindi, k=i
Di conseguenza, essendo noti i e p, dalla prima equazione si ricava k:
k = [(1+i) /p] -1
Per cui, al diminuire di p, aumenta il tasso di remunerazione del prestito (k) in quanto l’istituto che ha concesso
il prestito sopporta un rischio maggiore. Questa relazione non tiene però conto della circostanza che nel caso di
default, una parte del credito viene solitamente recuperata (come si vedrà in seguito).
2
Quando la distribuzione della probabilità di insolvenza dell’emittente è rappresentata in modo discreto, facendo
ad esempio ricorso ad una classificazione delle controparti in classi di rating, il rischio di spread viene anche
detto rischio di “migrazione” o rischio di “transizione”. Entrambi i termini indicano la possibilità che la
controparte affidata subisca un declassamento, ossia che il suo merito creditizio e dunque la sua probabilità di
insolvenza, si deteriorino.
3
pagamento dei flussi di interessi e con il rimborso del capitale, e del connesso pricing. La
reale componente di rischio è rappresentata dalla possibilità che le valutazioni effettuate si
manifestino a posteriori errate e che, quindi, si verifichi un deterioramento del merito
creditizio della controparte che non era stato previsto dalla banca che ha concesso il prestito.
In questo senso, il concetto di rischio viene propriamente confinato alla possibilità di eventi
che, seppure stimabili, risultano inattesi.
È sufficiente dare uno sguardo alla modellistica sviluppata fino ai primi anni Novanta così
come alla prassi operativa del sistema bancario nazionale e internazionale per rendersi conto
che in realtà il problema della misurazione del rischio di credito è stato tradizionalmente
identificato con – e dunque limitato a – il problema della stima della probabilità di insolvenza
o, alternativamente, del tasso “atteso” di insolvenza
3
.
- Un terzo punto che occorre richiamare riguarda il grado di estensione del concetto di
esposizione creditizia. Il rischio di credito non è limitato agli impieghi in titoli o ai prestiti in
bilancio, ma si estende anche, come riconosciuto esplicitamente dalla stessa autorità di
vigilanza in sede di determinazione dei requisiti patrimoniali relativi al rischio di credito, alle
posizioni fuori bilancio, come ad esempio quelle rappresentate dagli strumenti derivati
negoziati in mercati over-the-counter
4
(rischio di sostituzione o di pre-regolamento) e dal
regolamento delle transazioni nazionali ed internazionali in titoli, in valute o in strumenti
finanziari derivati (rischio di regolamento). È opportuno sottolineare che nella categoria del
rischio di credito rientrano anche i rischi di variazione dei prezzi dei titoli obbligazionari, che
l’autorità di vigilanza, seguendo una logica puramente contabile dei portafogli di una banca,
classifica come rischio specifico
5
all’interno dei rischi di mercato. Se infatti le variazioni dei
prezzi dei titoli sono la conseguenza di fattori specifici degli emittenti di tali strumenti di
debito, ossia di un deterioramento del merito creditizio di tali emittenti, è evidente che il
rischio di tali variazioni dovrebbe essere classificato come rischio di credito. Non è peraltro
un caso il fatto che i titoli di debito inclusi nel portafoglio di negoziazione siano sottoposti a
requisiti patrimoniali a fronte del relativo rischio specifico che corrispondono ai precedenti
3
SIRONI (2000).
4
Ossia contratti di tipo option con particolari caratteristiche offerte da intermediari specializzati.
5
Occorre considerare che ciascun rischio di credito è sottoposto a fattori di rischio specifico (ascrivibile alle
caratteristiche economiche e finanziarie peculiari di ogni singola controparte; derivante esclusivamente dal grado
di affidabilità delle singole controparti cui la banca presta denaro), ed a fattori di rischio sistematico (derivante
da fattori non direttamente controllabili dal management aziendale, e principalmente dall’andamento generale
della congiuntura macroeconomica; è relativo all’operare nel mercato, deriva dall’esterno). I primi si
differenziano dai secondi in quanto, attraverso la diversificazione di portafoglio è tendenzialmente possibile
eliminarli, con una conseguente riduzione del rischio complessivo dell’intero portafoglio, mentre il rischio
sistematico non è eliminabile, in quanto non prevedibile né controllabile (es. rischi catastrofali).
4
requisiti patrimoniali relativi al rischio di credito (dallo 0% per i titoli di Stato emessi dai
paesi OCSE, fino all’8% per i titoli obbligazionari emessi da imprese private)
6
.
Ciò avviene in quanto la classificazione dei rischi cui si espone un’istituzione finanziaria
risponde alla logica dei fattori causali che determinano gli stessi.
A tale proposito è importante sottolineare che non si devono considerare sinonimi
l’“esposizione” (la dimensione dei fidi) e il “rischio” (di credito) in cui si incorre, come
ancora in uso nelle prassi operative di concessione e revisione dei fidi di alcune banche.
Infatti, i due termini possono essere considerati sinonimi solo nell’ipotesi in cui ogni
esposizione abbia la stessa probabilità di generare lo stesso ammontare di perdite. L’ipotesi
appare irrealistica in quanto ogni esposizione può presentare una propria distinta probabilità
di insolvenza e, nel caso l’insolvenza si verifichi, ogni esposizione può consentire diversi
gradi di recupero coattivo del credito conducendo a perdite alquanto diverse
7
. Inoltre
considerare l’esposizione quale sinonimo di rischio, equivale ad assumere la prospettiva della
massima perdita realizzabile in assoluto: tale prospettiva è poco utile ai fini gestionali perché
spinge a prendere le decisioni in ipotesi di catastrofe anziché in funzione delle ipotesi
probabili. Se si riflette, invece, sui processi decisionali, è facile osservare come essi siano
6
SIRONI (1998).
7
In caso di default una parte del credito viene di solito recuperata attraverso il recovery rate. Per includere
quest’ultimo, la prima equazione descritta precedentemente (nota 1) deve essere così modificata:
(1-p)·rr·(1+k)+p·(1+k) = 1+i
dove:
rr= recovery rate
k= tasso sul prestito comprensivo del premio per il rischio di credito
p= probabilità che il capitale e gli interessi vengano interamente ripagati
(1-p)= probabilità dell’evento di default
i= tasso privo di rischio
Il termine (1-p)·rr·(1+k) rappresenta quanto la banca recupera nel caso di default. Dall’equazione sopra descritta
è possibile dunque ricavare k come segue:
(1+i)
k= ———— - 1
rr-rrp+p
Pertanto al crescere di rr il tasso di remunerazione del prestito (k) diminuisce. Sul piano pratico, per definire k
l’aspetto problematico è stimare correttamente il recovery rate e la probabilità che si verifichi l’evento di default.
Quanto al primo, la valutazione è resa difficile dalla variabilità del valore degli asset dell’impresa e delle
garanzie collaterali e dalle incertezze connaturate alla stima del valore degli asset immateriali quali i marchi, le
reti distributive, il know-how, ecc. che costituiscono spesso la parte più rilevante del valore delle imprese. Inoltre
i criteri di stima del valore degli asset, e quindi i risultati della valutazione, dipendono dalle conseguenze
dell’evento di default che, com’è noto, può condurre al dissolvimento dell’impresa ed alla cessione degli asset a
valori di liquidazione oppure a ristrutturazioni industriali che consentono la continuità dell’impresa e quindi
implicano una valutazione degli asset che tiene conto di tale condizione di continuità. Un ulteriore elemento
importante per stimare il recovery rate, è il tempo necessario al recupero parziale del credito. Esso, com’è noto,
è funzione della soluzione individuata per risolvere la crisi dell’impresa (giudiziale o stragiudiziale, di
liquidazione o di prosecuzione dell’attività) ed è quindi difficile da prevedere. Le agenzie di rating forniscono i
tassi di recupero medi di debitori appartenenti a classi di rischio omogenee. La stima della probabilità viene
effettuata utilizzando le informazioni disponibili sulla singola impresa e dati di mercato relativi a campioni
d’imprese, che vengono elaborati mediante schemi di analisi di tipo qualitativo o attraverso modelli
econometrici. Si veda ANOLLI e GUALTIERI (1999).
5
normalmente basati sulle circostanze ritenute possibili entro un certo livello di confidenza
(probabilità) definito in funzione della avversione al rischio del decisore, anziché sulle
circostanze estreme, più pericolose, ma meno probabili. In sintesi si può dunque affermare
che il volume dell’esposizione non è sinonimo del livello di rischio
8
.
- Infine, la definizione di rischio di credito inizialmente richiamata, esplicita come
conseguenza della potenziale variazione del merito creditizio di una controparte, una
variazione di valore di mercato della posizione creditoria. Da questa definizione emergono in
modo immediato due problemi. Anzitutto, le posizioni creditorie di un’istituzione finanziaria
sono in generale posizioni che rispondono ad una logica di tipo contabile più che ad una
logica di tipo di valori di mercato. Una corretta misurazione del rischio di credito,
richiederebbe che a valutazioni di tipo contabile si sostituissero valutazioni basate sul
verosimile valore economico che un mercato secondario attribuirebbe a tali posizioni,
indipendentemente dal fatto che guadagni o perdite siano o non realizzabili. La maggioranza
delle posizioni creditorie assunte da un’istituzione finanziaria corrispondono inoltre ad attività
illiquide, per le quali non esistono ancora mercati secondari sviluppati. Un valore di mercato
può dunque essere stimato esclusivamente sulla base di un appropriato modello interno che
consenta di cogliere, mediante valutazioni soggettive eventualmente supportate da sistemi
automatico-statistici, le variazioni del valore economico delle attività in bilancio. È peraltro in
questa direzione che si muovono anche le recenti modifiche apportate dalle direttive europee
alla normativa di bilancio delle banche quando richiedono che il valore contabile dei crediti
venga opportunamente e direttamente rettificato per l’importo delle perdite attese.
Seguendo questa logica, implicita nella definizione di rischio di credito inizialmente riportata,
è bene sottolineare che il rischio di credito deve essere misurato e conseguentemente gestito
facendo riferimento non a una semplice distribuzione binomiale dei possibili eventi
(“insolvenza” vs “non insolvenza”), la quale consentirebbe di cogliere adeguatamente il solo
rischio di insolvenza, quanto piuttosto avendo a riferimento una distribuzione nella quale
l’evento insolvenza rappresenta unicamente l’evento estremo, preceduto da diversi livelli di
probabilità che questo evento estremo possa in futuro manifestarsi. Solo in questo modo si
possono infatti adeguatamente cogliere entrambe le categorie di rischio. Numerose banche
basano ancora il proprio processo decisionale di affidamento su una distribuzione binomiale:
la controparte è considerata affidabile, e allora l’evento insolvenza non è neppure considerato
nel novero dei possibili eventi, oppure la controparte è semplicemente considerata
8
DE LAURENTIS (2001).
6
inaffidabile. In questo senso, le controparti affidabili sono tutte uguali fra loro e considerate
“non fallibili” nel periodo di tempo corrispondente alla scadenza dell’affidamento. In altri
casi, pur differenziando le imprese affidabili mediante l’applicazione di differenti spread
rispetto ai tassi di mercato, alcune banche non rendono esplicite le diverse probabilità di
insolvenza associate a tali differenze
9
.
- 1.2 Le componenti del rischio di credito
Dalla definizione di partenza di rischio di credito è possibile passare a un’esplicitazione delle
componenti di quest’ultimo, è possibile quindi distinguere due principali elementi.
Una prima componente è rappresentata dalla perdita attesa o expected loss (EL), ossia dal
valore medio della distribuzione dei tassi di perdita. Sebbene quasi tutti gli studi in materia di
gestione del rischio di credito si siano tradizionalmente concentrati su questa prima
componente del rischio di credito, essa non rappresenta il vero rischio di un’esposizione
creditizia. Infatti la perdita attesa stimata ex ante viene direttamente caricata in termini di
spread sulle condizioni di prezzo applicate dal mercato all’emittente di un’attività finanziaria,
e se essa dovesse trasformarsi in perdita effettiva ex post ciò significherebbe che, a livello di
portafoglio, l’istituzione finanziaria creditrice conseguirebbe il rendimento che si era
originariamente prefissata
10
.
Minore attenzione è stata invece tradizionalmente posta alla seconda componente, quella
relativa alla variabilità di tale perdita attorno al suo valore medio, la così detta perdita inattesa
o unexpected loss (UL), la quale rappresenta il vero fattore di rischio, ossia il rischio che la
perdita si dimostri, a posteriori, superiore a quella inizialmente stimata.
La distinzione tra perdita attesa e perdita inattesa risulta rilevante dal punto di vista della
diversificazione del portafoglio impieghi. Mentre infatti il livello di perdita attesa di un
portafoglio risulta pari alla media ponderata delle perdite attese degli impieghi che lo
compongono, indipendentemente dalla loro natura, la variabilità della perdita risulta tanto
minore quanto minore è il grado di correlazione fra i singoli impieghi. In altri termini, la
perdita attesa non può essere eliminata diversificando il portafoglio in termini di settori
produttivi, classi dimensionali o aree geografiche degli affidati. Essa può unicamente essere
stabilizzata mediante l’ampliamento del portafoglio ossia il conseguimento di un numero di
impieghi della medesima natura tale da garantire, in base alla legge dei grandi numeri, che il
9
SIRONI (2005).
10
SIRONI (2005).
7
livello di perdita media sia effettivamente quello conseguito dal portafoglio impieghi della
banca. Al contrario, la perdita inattesa può essere significativamente ridotta mediante
un’adeguata politica di diversificazione del portafoglio per aree geografiche, settori produttivi
e classi dimensionali.
Si può affermare che la distinzione tra perdita attesa e inattesa risulta particolarmente
rilevante anche da un punto di vista contabile. Se infatti da un lato, la quota di perdita che ci si
attende in un portafoglio di impieghi dovrebbe dar luogo ad una corrispondente rettifica del
valore dell’attivo o ad un accantonamento a fondo rischi, e in questo modo dovrebbe passare
attraverso il conto economico di una banca, dall’altro la quota di perdita inattesa dovrebbe
trovare adeguata copertura nel patrimonio della banca. Così come gli azionisti beneficiano di
eventuali risultati superiori alle aspettative derivanti da perdite inferiori a quelle attese,
analogamente gli azionisti devono sopportare, mediante una copertura patrimoniale, le perdite
superiori alle aspettative.
La perdita inattesa dipende infine, dalla composizione del portafoglio di esposizioni
creditizie, ossia dal grado di correlazione. Un’efficace politica di diversificazione del
portafoglio impieghi consente infatti, di ridurre in misura significativa, a parità di rendimento
atteso, il grado di rischio complessivo del portafoglio stesso
11
. Ciò consente quindi di ottenere
l’effetto diversificazione, ossia la diminuzione che il tasso di perdita inattesa subisce quando
all’interno del medesimo portafoglio vengono inseriti impieghi i cui tassi di perdita inattesa
risultano caratterizzati da una correlazione imperfetta. In altri termini, tale effetto corregge la
seconda componente del rischio di credito (UL), per il fatto che ogni singolo impiego si
inserisce in un preesistente portafoglio prestiti nei confronti del quale potrebbe presentare un
grado di correlazione imperfetto.
11
SIRONI (2000).