Introduzione
Marco Vannini nato a S. Piero a Sieve (Firenze) nel 1948, si dedica da tempo allo studio della
mistica speculativa.
Oltre a Meister Eckhart, di cui ha tradotto ormai, con un lavoro ventennale, quasi l’intera
opera, tedesca e latina, ha curato l’edizione italiana della Teologia mistica di Jean Gerson (Paoline
1992); il Libretto della vita perfetta dell’Anonimo Francofortese (Newton Compton 1994); le
Prefazioni alla Bibbia di Lutero (Marietti 1997); in collaborazione con Giovanna Fozzer, il
Pellegrino cherubico di Angelus Silesius (Paoline 1989); Con Giovanna Fozzer e Romana
Guarnieri, lo Specchio delle anime semplici di Margherita Porete (San Paolo 1994).
Tra i suoi principali lavori ricordiamo Lontano dal segno (La Nuova Italia 1971); Dialettica
della fede (Marietti 1983); Meister Eckhart e il fondo dell’anima (Città Nuova 1991); L’esperienza
dello spirito (Augustinus 1991); Introduzione a Silesius (Nardini 1992). Più recenti, ricordiamo
Prego Dio che mi liberi da Dio. La religione come verità e come menzogna (Bompiani 2010),
Storia della mistica occidentale (Mondadori 2010), Invito al pensiero di sant’Agostino (Mursia
2009), Sulla grazia (Le Lettere 2008), Mistica e filosofia (Le Lettere 2007), La religione della
ragione (Mondadori 2007), Tesi per una riforma religiosa (Le Lettere 2006), La morte dell’anima.
Dalla mistica alla psicologia (Le Lettere 2004).
Nel seguire Vannini lungo una trattazione storica e filosofica sulla mistica, si impone la necessità di
definire, quanto meno, come introduzione, l’oggetto di questa ricerca.
“Mistica” è una parola dai molti significati, anche assai diversi e contrastanti, carica di valori e
disvalori consolidatisi nel corso dei secoli.
Come ricorda Vannini, il termine “mistica” va riportato al suo senso greco originario, nel quale esso
non era sostantivo, ma aggettivo di “teologia”, e indicava perciò una scienza di Dio, un discorso su
Dio, chiuso, riservato, riguardo al quale sono opportuni il silenzio e la quiete (cui allude il verbo
greco myein). La segretezza, il silenzio, la quiete, cui la teologia mistica rimanda, non sono da
intendersi, puntualizza Vannini, nel senso di esoterismo; ciò è, anzi, esplicitamente negato dalla
mistica, nel significato originario del termine.
Vi è, nondimeno, il riferimento a Dio, che però, per un verso, sembra mancare in Vannini,
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almeno per quel che concerne il riferimento a un Dio trascendente. Più precisamente, si egli intende
per “mistica” l’esperienza dell’Uno, ossia della profonda unità tra uomo e Dio; anzi, nella misura in
cui l’umano reca con sé il finito, l’esperienza mistica si configura come unità finito-infinito, e, si
potrebbe dire, di unità mondo-Dio.
Per questo motivo, si comprende come l’accusa di panteismo sia quella che, da parte delle
religioni positive, accompagna più spesso la mistica. L’esperienza dell’Uno, costituente la mistica
nella sua essenza, è tuttavia esperienza dello spirito e dell’unità nello spirito e dello spirito, per cui,
ammonisce Vannini, non ha senso porsi in una posizione valutativa verso la mistica al di fuori del
riferimento allo spirito, nel quale non hanno significato le determinazioni oppositive finite; infatti,
la mistica è essenzialmente dialettica, dal momento che l’esperienza dello spirito è al di là di ogni
contenuto e determinazione, e, al contempo, del tutto in grado di rendere conto di ogni contenuto e
determinazione.
Peraltro, riguardo al concetto di “Spirito”, bisogna rilevare che Vannini non giunge ad una
sua definizione vera e propria, insistendo, invece, fondamentalmente sulla sua importanza e sul suo
ruolo nella mistica e, in particolare, nella dialettica: qui si vede, peraltro, quanto Vannini sia
debitore nei confronti di Hegel.
La mistica, poi, sta quindi al di sopra e al di là della polemica riguardo al suo presunto panteismo;
nella rimozione della volontà personale, nell’estinzione di ogni desiderio e contenuto, il mistico sa
che la sua volontà è diventata la volontà di Dio e il suo io è diventato l’io di Dio, ma non pensa
affatto in termini di “panteismo”, ossia nel senso di una soppressione della differenza tra Dio e il
mondo o tra uomo e Dio; anzi, a ben vedere, mai l’alterità e la trascendenza di Dio appaiono chiare
come nell’esperienza dello spirito, che è, come già detto, esperienza di unitas spiritus.
Inoltre, in quanto la mistica è esperienza di unità, seppur dialettica, su di essa incombe
sempre, oltre all’accusa di panteismo, anche quella di ateismo. Si tratta, nello specifico, di un
“ateismo” tutto particolare, ben lontano da ciò che comunemente si intende con questo termine, dal
momento che, in questo caso, è la coscienza stessa del divino, dell’Assoluto, che, pienamente
esperita nell’identità del soggetto, rischia di negare l’alterità di Dio. È l’“ateismo” di Eraclito, per il
quale identico è il Logos umano e quello divino, così come nel caso di Gesù, il quale aveva
affermato di essere una cosa sola con il Padre e come nel caso di molte altre personalità della storia
della mistica.
Comunque, l’esperienza dello spirito, e questo è un altro punto fondamentale, è sintesi di
intelligenza e amore, benché una conciliazione tra i due termini sembri quanto mai ardua:
dell’intelligenza nel senso forte dell’intelletto attivo aristotelico, libero da condizionamenti, divino,
e dell’amore del Convito platonico, che non è passione e legame ma, al contrario, termine e fine di
tutte le passioni, carità che si estende su tutto, dimentica di se stessa.
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Su questa tematica, Vannini si preoccupa (a più riprese, talora, pare, eccessivamente) di
chiarire che per “mistica” non si intende la cosiddetta “mistica del sentimento”, che, distinta da
quella “speculativa”, permette di inserire nel genere mistico tutto l’apparato devozionale, estatico,
visionario, della pietà religiosa: è evidente che, in questo tipo di mistica (che peraltro perde di vista
il mirabile quotidiano dell’istante, esperienza spirituale per eccellenza), fondamentale è l’aspetto
psicologico e di autoaffermatività dell’io, che potrà anche aver valore sul piano storico, ma non
certo su quello filosofico.
Centrale è, in Vannini, l’impianto storico: Vannini parte dalla storia della mistica e si fonda
sulla storia della mistica per esporre (non tanto per costruire), o, meglio, lasciar intravedere, il suo
pensiero nell’abbondanza di riferimenti storico-filosofici. Ma c’è di più.
Proprio il suo approccio alla storia della mistica è peculiare, se si considera come egli abbia
praticamente fondato la sua ricerca fin dagli inizi sull’analisi e l’esposizione di Meister Eckhart:
egli interpreta e studia la storia della mistica (e della filosofia?) con la lente del pensiero
eckhartiano, arrivando a considerazioni che possono sembrare paradossali, chiamando in causa
l’intelletto attivo aristotelico e accostandolo alla mistica.
Come si vedrà nella parti finali, la mistica si pone in netta antitesi con la psicologia, intesa
non come disciplina che studia alcuni processi della mente e della psiche, ma come pretesa di esser
conoscenza esaustiva e normativa della realtà psichica dell’uomo. Come ben scrisse Eraclito, non
si può tuttavia avere conoscenza esaustiva dell’anima all’interno dell’anima stessa (non si possono
trovare i confini dell’anima...); e, d’altra parte, il riconoscimento della sua radice volontaristica, di
quell’amor sui sul quale si articolano, poi, tutti i contenuti psicologici, e che costituisce il peccato
originale dell’anima stessa, presuppone semmai un’uscita dallo psicologico, vale a dire, quella
morte dell’anima di cui la mistica tanto parla.
Termine chiave della mistica, stante quanto si è detto, è perciò, sin dalla sua origine greca, il
distacco. Esso non è altro che il movimento dell’intelligenza e di tutto l’essere che ci libera dalla
finitezza, dalla parzialità, dall’incidenza del volere del soggetto in ogni contenuto e affermazione,
ossia in ogni legame con le cose ; una liberazione che è possibile solo in rapporto all’Assoluto,
poiché soltanto così si può operare la distruzione dell’autoaffermatività : solo in relazione
all’Assoluto le cose e il soggetto psicologico appaiono prive di valore, appaiono e sono un puro
nulla.
Certo, questa lettura non risolve appieno l’individualità, la quale esce indubbiamente
svalutata, ma mai negata appieno; Vannini, infatti, si limita a stigmatizzare (a suon di citazioni e
riferimenti) quella che, in fondo, è solo una componente dell’individualità: l’auto-affermazione.
La psicologia, dal canto suo, è incapace di scendere nel profondo (ricordiamoci, però, che
neppure Vannini precisa di cosa sia esattamente il “fondo” dell’anima, concezione ripresa pari pari
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da Meister Eckhart), proprio in quanto resta psicologia, ovvero rimane all’interno di un’esperienza
solo e prettamente psichica dell’uomo, priva di spirito: la psicologia, dunque, non è altro che una
grande opera di potenziamento dell’Io.
Bisogna altresì rilevare il rapporto conflittuale che la mistica ha, in quanto tale, con le
Scritture, ossia con ogni corpus dottrinale o comunque di contenuti che si ponga come
determinato/determinante nel rapporto uomo-Dio.
Il mistico insegna a diventare la cosa stessa, diventare il Libro e, è bene far notare, il
conflitto mistica e Scrittura è assai più profondo di quello che si pone tra la mentalità laicistico-
illuministica e la creduloneria superstiziosa, che pensano entrambe in termini meramente
intellettualistici ed estrinseci il rapporto uomo-Dio: ma il rischio non sarà il medesimo, se non si
risolve il conflitto, citato poc’anzi, tra intelligenza e amore, specie se si preferisce la prima?
Non è raro che, alla Scrittura, il mistico preferisca il liber Naturae, nel suo infinito svolgersi;
ma soprattutto, se cristiano, preferisce l’esempio della vita di Gesù Cristo, cui conformarsi nella
totale rinuncia alla volontà personale (rischiando, però, per compulsione, di voler diventare o
quanto meno imitare Gesù, inarrivabile, per un essere umano finito e limitato).
In conclusione, da quanto si è detto, si comprende quanto apparentemente siano vicine
mistica e filosofia, benché, in realtà, il loro rapporto necessiti più che mai, di chiarificazione. E far
comprendere il rapporto tra mistica e filosofia, è anche l’obiettivo del lavoro di Marco Vannini.
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Capitolo 1
Per una storia della mistica
1.1) L’antichità
La parola “mistica” rivendica una parentela almeno etimologica con “mistero”: si è pensato spesso,
infatti, alla mistica come a un qualcosa di esoterico, di intimamente connesso con le religioni
misteriche.
Ora, è vero che i grandi mistici greci, da Eraclito a Platone e Plotino, hanno utilizzato un linguaggio
misterico, ma, come vedremo, in un’accezione completamente diversa.
Nelle religioni misteriche, si agisce su e mediante un meccanismo psicologico: a colui che vive una
situazione di sofferenza (più o meno intensa che sia), viene presentato il tormento fisico e la morte
di Dio, seguiti dalla sua rinascita/resurrezione, di modo che si creda che il medesimo processo può
avvenire per l’uomo, specie se egli partecipa al mistero del Dio sofferente.
Tuttavia, non è nel mondo dei misteri che si deve cercare l’origine della mistica in Grecia, bensì nel
mondo omerico.
1.1.1) L’Iliade: la forza e il suo dominio
Dobbiamo ringraziare una grande mistica contemporanea, Simone Weil, se è stato messo in
evidenza come l’Iliade, poema omerico assai noto, fosse veramente conosciuto nel suo significato
spirituale solamente da pochi.
Al centro della riflessione omerica stanno la misura, il limite, l’equilibrio, concetti che noi, ai nostri
giorni, sempre più difficilmente siamo in grado di riportare all’uomo, alla sua anima e alla sua vita.
I concetti sopra indicati sussistono tuttavia in Oriente, sotto il nome di karma.
Ad ogni modo, proprio il castigo che, con singolare rigore, punisce inevitabilmente l’abuso della
forza, fu il primo oggetto della meditazione greca. La hybris, la tracotanza, è per essi, sin
dall’Iliade, il peccato per eccellenza.
Nondimeno, solo l’anima che ha piena esperienza del dominio della forza è in grado, seppur per
pochi istanti, di risvegliarsi, ritrovando se stessa: non c’è dunque posto per altri sentimenti se non il
coraggio e l’amore.
Unica differenza: la sventura dei nemici viene sentita più dolorosamente.
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Chi ignora fino a che punto la (volubile) fortuna e la necessità avvincono ogni anima umana alla
loro mercé non può considerare suoi simili né amare come se stesso quelli che il caso ha separato da
lui. Le diverse costrizioni che pesano sugli uomini possono far nascere l’illusione che, tra di loro, vi
siano specie distinte, specie particolari, senza nulla in comune.
Come è dunque possibile, si chiede Vannini1, amare ed essere giusti se non si è consapevoli
dell’influenza della forza?
L’uomo che non si affida alla menzogna e alla corruzione non può patire la forza senza esserne
colpito fino all’anima; e la grazia può impedire che questo colpo lo corrompa, ma non può impedire
la ferita e il dolore.
Il riconoscimento del dominio della forza è, altresì, il riconoscimento che qualcosa sfugge alla
forza: nell’Iliade è implicita la scoperta di un qualcosa, connesso all’anima, che non cede al peso
della necessità, proprio perché è in grado, mediante uno scarto, di guardare in faccia questa forza,
riconoscendola ma non adorandola.
Anche gli dèi, in Omero, sono sottomessi a questa forza: al poeta greco è dunque palese che, al di
sopra degli dèi, antropomorfici, vi è una divinitas del tutto impersonale, non pensata secondo la
limitatezza dell’uomo (anti-mistica); è implicita, nell’Iliade, secondo Vannini2, l’idea di una bontà
del Tutto.
1.1.2) Eraclito: lo scopritore del logos
Ciò è manifesto anche in Eraclito, prima grande figura della mistica.
Eraclito è, afferma Vannini3, anzitutto lo scopritore del logos, la cui superiore verità (forse per
primo) contrappone all’esperienza sensibile, mutevole e superficiale, dunque non affidabile. Il
termine greco logos significa “discorso”, “pensiero”, ma in Eraclito assume il significato di
“ragione” sia nel senso di motivo profondo per cui un qualcosa avviene, che nel senso di facoltà di
comprensione umana.
La ragione, infatti, comprende ciò che i sensi non possono capire e, in particolare, comprende che,
attraverso la conflittualità del divenire, ciò che si profila è una realtà profondamente unitaria,
benché apparentemente in contrasto nei suoi opposti.
Necessario è, dunque, liberarsi dai condizionamenti, per non esser preda dell’opinione.
1.1.3) Platone:amore, anima e morte mistica
Un filo conduttore lega Platone a Eraclito: sappiamo infatti che il filosofo ateniese fu in gioventù
discepolo dell’eracliteo Cratilo, prima di incontrare Socrate.
1 M. Vannini, Storia della mistica occidentale, Mondadori, Milano 2010, p. 40
2
Ivi, p. 44.
3
Ivi, p. 45.
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Ma, a ben vedere, non sarebbe sbagliato pensare a Platone come a un vaso di raccolta della
religiosità antica, anche pre-ellenica ed extra-ellenica.
Ad ogni modo, senza Platone, afferma Vannini4, la Filosofia e la Mistica occidentali non
sussisterebbero, come vedremo: basti pensare alla concezione dell’Amore, del Bello e, nondimeno,
dell’Anima.
Troviamo altresì in Platone, rimarcato da Vannini5, il grande tema mistico della morte, vista
anzitutto come separazione dell’anima dal corpo, raccoglimento, un abitare dell’anima sola con se
stessa.
1.1.4) Aristotele: l’intelletto attivo
Troviamo in Aristotele, per Vannini6, alcuni punti fondamentali nella storia della Mistica, anche
cristiana, ancor più significativi proprio perché presenti in uno spirito spiccatamente scientifico.
Il primo ed essenziale è la concezione dell’intelletto attivo, presente nel De anima.
Trattando dell’anima e delle sue funzioni, ad Aristotele appare palese che l’anima non riceve né
produce sensazione o affezione alcuna senza il corpo e, se il pensare è una sorta di immaginazione,
neppure esso può darsi senza il corpo: nulla sfugge la condizionamento del mondo sensibile.
A questo punto, però, il filosofo afferma che esiste, nell’uomo, anche un intelletto che non è
mescolato al corpo. Vi sarebbe dunque, chiosa Vannini, «un intelletto analogo alla materia, che
diviene tutte le cose e da esse dipende, ma c’è anche un altro intelletto che produce tutte le cose. [...]
Tale intelletto “ è separato, non mescolato, impassivo, per sua essenza atto»7
Nella Metafisica si precisa che esiste, necessariamente, un essere che è causa prima incausata,
principio del divenire, identico al Bene, che è veramente principio di tutte le cose; tutti i contrari
hanno materia, mentre nel Primo Essere non vi è materia, pertanto non vi è contrarietà alcuna.
Tale Essere è intelletto puro, pensiero di pensiero, sempre in atto e dunque suprema felicità.
Il Dio di Aristotele, lungi da qualsiasi mitologia, è contemplazione pura, pensato da un’intelligenza
umana totalmente distaccata e nobile.
Dal Libro IV dell’Etica Nicomachea, parlando della megalopsychìa (la “grandezza dell’anima”),
ossia delle caratteristiche dell’uomo nobile, apprendiamo che l’uomo dall’anima grande è un uomo
del distacco.
1.1.5) Neoplatonismo: ultima sintesi del pensiero classico
Il compimento della filosofia e della mistica elleniche avviene nell’era ormai cristiana, quando
4
Ivi, p. 51.
5
Ivi, p. 55.
6
Ivi, p. 63.
7
Ivi, p. 64.
9