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settentrionale (Regno Unito, Germania, Francia, Olanda, Paesi scandinavi). Tale peculiarità
è condivisa da altri paesi europei meridionali (Spagna, Portogallo, Grecia) (Puggioni 2005),
e conferma la presenza di paesi europei di “nuova immigrazione” (Sacchi, Viazzo, 2003).
Date queste insufficienze nella produzione scientifica ho potuto valutare e comprendere
l’esperienza dei rifugiati come migranti solo accedendo a testi pubblicati al di fuori
dell’Italia. In questo senso è stato fondamentale l’accesso agli studi promossi dal Refugee
Studies Centre (RSC), del University of Oxford's International Development Centre. RSC
adotta un’espressione efficiente e sempre più diffusa negli studi anglosassoni per indicare
la natura della migrazione dei rifugiati: “forced migration”, traducibile in italiano con
“migrazione forzata”. Il termine è ormai diffuso in ambito internazionale e individua una
forma di migrazione che si distingue da quella più diffusa, comune, a seconda dei casi detta
“economica”, “volontaria”. La definizione di “forced migration” adottata dal RSC è quella
promossa dall’International Association for the Study of Forced Migration (IASFM): “a
general term that refers to the movements of refugees and internally displaced people
(people displaced by conflicts) as well as people displaced by natural or environmental
disasters, chemical or nuclear disasters, famine, or development projects.” (Forced
Migration Online). Dalla definizione è quindi possibile individuare diversi tipi di
migrazioni forzate, i cui protagonisti condividono l’esperienza del displacement, dello
sradicamento, dell’abbandono drastico di uno spazio, fisico e sociale assieme.
Tuttavia, l’attività del RSC non si limita all’elaborazione di tipologie di migrazione.
Fondato nel 1982, gli obiettivi del centro consistono nella realizzazione di ricerche
multidisciplinari volte all’individuazione delle cause e delle conseguenze delle migrazioni
forzate, alla diffusione dei risultati nel mondo accademico e in quello politico-decisionale,
alla comprensione delle migrazioni forzate attraverso l’adozione delle prospettive delle
vittime dei diversi displacement (Refugee Studies Centre).
Se le pubblicazioni del RSC - Journal of Refugee Studies (JRS), Forced Migration Review
(FMR) - mi hanno permesso di considerare il rifugiato come migrante forzato, la
considerazione del rifugiato come oggetto di conoscenza antropologica mi è stata possibile
grazie agli studi di Lisa H. Malkki (Malkki 1995, 1997a, 1997b), attualmente l’antropologo
che più ha riflettuto sulla sua origine storica, sociale, politica, elaborando concetti e
prospettive a partire dalle ricerche effettuate tra i rifugiati hutu in Tanzania . Ho avuto
conferma dell’autorità e del prestigio che gode tra gli scienziati sociali attivi nelle stesse
ricerche con la lettura del numero della rivista di antropologia “Antropologia” dedicato ai
rifugiati (Van Aken 2005a), in cui era costantemente citata. I saggi di questa rivista mi
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hanno permesso di considerare le diverse dimensioni sociali in cui si situa l’azione del
rifugiato, valutandone l’esperienza nel contesto di origine e in quello che segue il
displacement, osservando le diverse relazioni sociali in cui è coinvolto, i diversi eventi di
cui è protagonista più o meno volontario.
Dallo studio di questi testi ha preso forma il primo capitolo, che può essere brevemente
indicato come un’introduzione alla figura giuridica, politica, sociale, storica e
antropologica del rifugiato. In questo senso sono stati oggetto di particolare attenzione le
convenzioni internazionali che disciplinano lo status di rifugiato, la distinzione tra
migrazione forzata e migrazione economica, il rifugiato nella storia come oggetto di ricerca
antropologica, l’ordine politico mondiale e la crisi dello stato-nazione, le nuove forme di
conflitto e la violenza cui sono soggetti i rifugiati, le relazioni di assistenza e d’aiuto a cui
sono legati, la precarietà e il senso di sospensione esistenziale che li connotano.
Il secondo capitolo (a differenza del primo, che tenta di offrire una rappresentazione
generale dell’essere rifugiato nel mondo contemporaneo) si concentra sulla situazione in
Italia. Viene presentata la restrizione del diritto d’asilo a livello europeo e nazionale
attraverso l’approfondimento della normativa comunitaria e italiana in tema. La trattazione
degli aspetti legali della condizione del rifugiato in Italia non intende assumere le pretese di
uno studio giuridico, né le sembianze di un discorso in difesa dei diritti previsti dalle
convenzioni internazionali, ma piuttosto un momento per poter rendere esplicita la
centralità della legge nell’esperienza del migrante forzato.
La legislazione italiana prevede tre forme differenti dell’essere rifugiato, migrante forzato:
richiedente asilo, titolare di protezione umanitaria, titolare dello status di rifugiato. Anche
se in questi casi la migrazione forzata viene riconosciuta giuridicamente, di fatto la loro
condizione risulta essere vicina a quella dei migranti che attraversano irregolarmente le
frontiere del territorio italiano, una vicinanza che si esprime a partire dagli spazi dei Centri
di Identificazione (CI) in cui sono nella maggior parte dei casi “trattenuti”, del tutto simili
ai Centri di Permanenza Temporanea (CPT) destinati ai cosiddetti “clandestini”. I CI e i
CPT sono entrambi luoghi di restrizione della libertà personale, simboli dell’esclusione
degli stranieri dalla cittadinanza nazionale italiana e dal pieno godimento dei diritti civili.
La presenza di spazi simbolo dei confini nazionali alimenta una riflessione sui modelli di
appartenenza nazionale, sui sentimenti identitari nazionali e sulle idee di uomo e di
persona. Secondo Alessandro Dal Lago (Dal Lago 1999, p. 9) “L’umanità viene divisa in
maggioranze di nazionali, cittadini dotati di diritti e di garanzie formali, e in minoranze di
stranieri illegittimi (non cittadini, non nazionali) cui le garanzie vengono negate di diritto e
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di fatto. Grazie a meccanismi sociali di etichettamento e di esclusione impliciti ed espliciti,
l’umanità viene divisa tra persone e non-persone.” Il sociologo definisce la persona come
“uomo in senso sociale più che biologico” (Dal Lago 1999, p. 208), naturale. Individua la
peculiarità dell’essere persona nell’appartenenza possibile ad un ordinamento socio-
politico. L’esistenza di un individuo come persona sociale deriva perciò dalla sua posizione
all’interno di un ordinamento politico-giuridico come titolare di diritti e doveri. Secondo il
diritto moderno chi è escluso dalla cittadinanza è quindi “uomo solo in senso naturale, non
sociale. La cittadinanza … è quindi condizione esclusiva della personalità sociale, e non
viceversa, come recitano sia il senso comune filosofico sia quelle dichiarazioni o
convenzioni internazionali che affermano o riaffermano i ‘diritti universali dell’uomo o
della persona ’.” (Dal Lago 1999, p. 217). In altri termini, non si è persone senza essere
cittadini. Quando si nega la persona escudendola dalla cittadinanza Dal Lago parla di non-
persone, creando una categoria in cui immette gli “stranieri giuridicamente e socialmente
illegittimi (migranti regolari, irregolari o clandestini, nomadi, profughi)” (Dal Lago 1999,
p. 213).
Ma non si può solo negare la persona negando la cittadinanza. Si può anche colpire l’uomo
attraverso la persona, o la persona attraverso l’uomo. In questi casi si hanno,
rispettivamente, “due strategie diverse di disumanizzazione e di spoliazione dell’essere
umano. La prima è quella ordinaria, normale, legale, del controllo sociale nelle istituzioni
totali. La seconda è quella estrema e distruttiva della guerra totale, dei campi di
concentramento, della tortura su larga scala e dello sterminio organizzato.” (Dal Lago
1999, p. 209).
Oggi in Italia i migranti forzati sono soggetti alla prima strategia di disumanizzazione nel
momento in cui sono detenuti presso i CI o i CPT - si moltiplicano gli studi che ritraggono
tali centri come istituzioni totali (Simone 2005) – quando già hanno sperimentato (magari
in forme diverse) la prima strategia di disumanizzazione nei paesi da cui sono fuggiti.
Dal Lago individua nella condizione della non-persona l’espressione della forza del
principio della nazionalità, il risultato del dominio del modello di appartenenza nazionale
nell’attuale ordine geopolitico mondiale. E’ sufficiente essere stranieri provenienti da
un’altra nazione in maniera “illegale” per essere una non-persona, per non esistere
socialmente, per essere invisibili alla società, per appartenere ad un mondo in cui in ogni
momento si può essere allontanati o fatti sparire, senza essere visti da nessuno. Questo
mondo è un vero e proprio limbo, una forma estrema di esistenza precaria.
La metafora del limbo è stata anche usata efficacemente per rappresentare il senso di
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sospensione e di precarietà delle esistenze dei rifugiati (Vacchiano 2005). Anche i migranti
forzati che accedono a forme di protezione umanitaria previste dalla legislazione italiana
devono essere considerati come non-persone. Tuttavia l’essere non-persona del rifugiato è
una condizione differente da quella dei migranti economici, regolari e irregolari. Il
migrante forzato per accedere ad una forma di protezione giuridica in Italia rifiuta il ritorno
nel proprio paese di origine, negandosi quindi non solo la cittadinanza italiana nel
momento dell’ingresso, ma anche quella del paese da cui è fuggito. La sua situazione
risulta ben più critica degli altri migranti, dato che si ritrova ad essere escluso non da uno,
ma da due ordinamenti politici. Il suo essere non-persona è quindi doppio, così come il
limbo in cui vive, sospeso tra due nazioni. Nella nazione d’arrivo l’accesso ai diritti che gli
spettano risulta essere particolarmente difficoltoso, dato che la regolarizzazione della sua
permanenza sul territorio è frutto di accordi e convenzioni che travalicano i confini
nazionali, faticosamente applicati e rispettati perché contrari al puro interesse nazionale.
Invece, nella nazione da cui è fuggito sovente non è in pericolo solo la persona intesa come
cittadina di un ordinamento politico, ma l’essere umano in senso naturale, biologico,
corporale, possibile vittima di violenze e conflitti.
L’idea del migrante forzato in quanto non-persona e uomo in un limbo, escluso dalla
cittadinanza, compare soprattutto nel terzo capitolo, che tratta principalmente del sistema
d’accoglienza torinese per rifugiati e dell’esperienza di due sudanesi titolari di permesso di
soggiorno per motivi umanitari, Azhari Sulaiman e Yaya Abdalla. L’osservazione dei
servizi di Torino rivolti ai rifugiati (effettuata assumendo la posizione dell’UPM al loro
interno) conferma le tesi sostenute da Raffaella Puggioni in seguito ad una ricerca tra i
rifugiati curdi a Roma (Puggioni 2005). La tradizionale assenza del settore pubblico
nell’assistenza ai rifugiati rispetto ai paesi nordeuropei ha portato allo sviluppo dei servizi
offerti dalle organizzazioni caritatevoli, del privato-sociale, del terzo settore (l’UPM rientra
tra queste). La loro attività non è del tutto indipendente, ma supportata dagli enti pubblici.
Le politiche e le leggi che riguardano il diritto d’asilo continuano ad essere incluse in
quelle che hanno come oggetto l’immigrazione in genere. Se richiedenti asilo, titolari di
protezione umanitaria e rifugiati non sono considerati come migranti qualsiasi, in ogni caso
appaiono non tanto come persone i cui diritti specifici vanno riconosciuti e garantiti, ma
piuttosto come una categoria che necessita assistenza (Puggioni 2005). Vengono
considerati come bisognosi anche perché spesso le circostanze e gli ostacoli nell’accesso
alle accoglienze li costringono ad adottare comportamenti e strategie tipici dei senzatetto.
I racconti di Azhari e Yaya, originari del Darfur, hanno permesso la presentazione del
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conflitto da cui sono fuggiti, la ricostruzione del percorso migratorio forzato e la loro
attuale esperienza come beneficiari d’aiuto a Torino. L’obiettivo della ricerca consisteva
nel riconoscere ai rifugiati l’autorità narrativa che spesso si nega, costringendoli ad un
mutismo poco umano (Malkki 1997a, p. 238). Dando loro voce mi è stato possibile
presentare il loro punto di vista, le loro osservazioni sull’essere migrante forzato, sulle
difficoltà incontrate nella fuga, sulle esperienze di lavoro irregolare, sulla situazione
politico-sociale del paese di origine, sull’applicazione delle leggi a cui sono soggetti.
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Premessa
In Italia a ricevere una protezione in base alla Convenzione di Ginevra relativa allo status
di rifugiato1 sono coloro che giunti nel territorio nazionale in maniera regolare o irregolare
accedono alla procedura per il riconoscimento dello status di rifugiato, facendo richiesta di
asilo per poi raggiungere lo status previsto dalla convenzione in seguito ad una audizione
presso una apposita commissione. Ad un periodo di tempo trascorso con un permesso di
soggiorno rinnovabile ogni tre mesi come richiedente asilo segue, in caso di
riconoscimento, la permanenza regolare in Italia per due anni senza alcun rinnovo, e la
possibilità di acquisire la cittadinanza italiana entro cinque anziché dieci anni come
previsto per gli altri immigrati soggiornanti. Questo privilegio, se così può essere definito,
rientra in una serie di accorgimenti particolari rivolti a determinate categorie di immigrati,
che si allontano da quelli più comuni, più diffusi, il cui processo migratorio ha origine in
scelte e progetti più o meno personali e comunitari, orientati ad un miglioramento della
propria condizione socio-economica nel paese d‘arrivo e ad un sostegno delle comunità e
delle famiglie rimaste nel paese di partenza attraverso rimesse periodiche. I protagonisti di
questi movimenti migratori, crescenti con lo sviluppo sempre più imponente delle
comunicazioni e dei trasporti, vengono in genere denominati “migranti economici”.
Il viaggio di questi migranti per raggiungere l’Italia segue diversi percorsi a seconda della
nazionalità, delle disponibilità economiche, dei contatti stabiliti con propri connazionali già
1
La Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati è stato il risultato di una Conferenza di
Plenipotenziari delle Nazioni Unite a Ginevra, decisa dall’Assemblea Generale. La Convenzione è stata adottata
il 28 luglio 1951 ed è entrata in vigore il 21 aprile 1954. In Italia è stata ratificata con la legge 24 luglio 1954, n.
722.
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residenti sul territorio italiano, a cui si accede attraverso ingressi di diverso tipo. Alcuni
sono regolari, rispettano la legislazione sull’immigrazione dello stato italiano, attraverso il
rilascio di visti o di permessi di soggiorno per lavoro subordinato o autonomo che seguono
i decreti flussi2. Alcuni raggiungono i propri parenti, effettuando ricongiungimenti familiari
sempre più tutelati e diffusi. I bambini raggiungono i genitori, i coniugi si riuniscono, gli
anziani trovano nei figli emigrati un assistenza e l’accesso a servizi che non sono
facilmente disponibili nel proprio paese. Altri tentano l’ingresso in Italia tentando di
aggirarne le leggi, imbarcandosi spesso su affollati e precari pescherecci, attraversano parte
del Mediterraneo per raggiungere le coste meridionali dell’Italia, che da quando è entrato in
vigore il trattato di Amsterdam sulla creazione di uno spazio europeo di libertà, sicurezza e
giustizia possono chiamarsi coste europee, anche se è ancora in corso il processo di
armonizzazione delle politiche in tema di migrazione e asilo degli stati membri. Dati gli
attenti controlli delle frontiere, incluse le acque territoriali, l’ingresso irregolare
difficilmente passa inosservato perciò si tramuta in un trattenimento presso un Centro di
Permanenza Temporanea (CPT), a cui segue il provvedimento di respingimento nel proprio
paese di origine, dopo un esatta identificazione3. Non tutti gli ingressi irregolari
condividono questo processo, però. Se il soggetto in seguito ad un respingimento dal
territorio italiano rischia nel proprio paese di subire persecuzioni, maltrattamenti e
violazioni dei diritti umani oggetto di protezione internazionale, si applica il principio di
“non-refoulement”, di non-respingimento. Si vieta l’applicazione del provvedimento
stabilito dalla legislazione nazionale seguendo un principio che compare nell’art. 33 della
Convenzione di Ginevra e che è ormai entrato a far parte del diritto consuetudinario
internazionale. Applicato tale principio, ad un ingresso irregolare può seguire un soggiorno
regolare. L’irregolarità giuridica al momento dell’attraversamento delle frontiere italiane è
legittimata dall’eventuale richiesta di asilo del migrante, sulla base di motivazioni personali
legate alla permanenza nel proprio paese d’origine. La richiesta d’asilo precede il rilascio
del permesso di soggiorno come richiedente asilo, ai sensi della convenzione di Ginevra e
dell’art. 10 della Costituzione italiana. La legittimazione dell’ingresso è dovuta se è
riconosciuta una “forced migration”, una migrazione forzata, alla ricerca sì di migliori
condizioni socio-economiche, ma soprattutto frutto della fuga dal proprio paese, lontano da
2
Decreti legge del Governo italiano che fissano quote massime di ingressi autorizzati per lavoro autonomo e
soprattutto subordinato, a carattere stagionale o non stagionale.
3
“Trattenimento” e “respingimento” sono i due termini che compaiono nella legislazione nazionale in tema.
Possono essere considerati eufemismi per delineare provvedimenti che forse sarebbe meglio indicare come
“detenzione” e “espulsione”, date le caratteristiche concrete che li contraddistinguono. Tuttavia possiedono un
proprio significato giuridico e quindi preferisco adottarli.