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nido.
L’osservazione è sicuramente il metodo di indagine più adatto allo studio dei
bambini piccoli perché è facile osservarli senza che se ne rendano conto e perché
è difficile sottoporre bambini così piccoli a procedure sperimentali rigide e
intrusive.
L’occasione di sperimentare tecniche e metodologie di osservazione sul campo
per studiare le interazioni tra pari, si è presentata nel momento in cui ho scelto di
svolgere il tirocinio previsto dal mio corso di laurea in un asilo nido (l’asilo nido
“Arcobaleno” di Savona). .
Da questa esperienza di tirocinio a contatto con i più piccoli ha preso così il via
un vero e proprio lavoro di indagine in un luogo di sperimentazione unico e
privilegiato come quello del nido. .
La tesi si sviluppa in tre grandi capitoli. .
Il primo capitolo affronta il tema dell’interazione inizialmente in termini
generali, e poi più specifici, facendo riferimento alle interazioni tra bambini.
Il secondo capitolo, invece, presenta i principali aspetti dell’osservazione come
metodo di indagine in psicologia dello sviluppo, illustrando i diversi tipi di
osservazione, descrivendo vantaggi e limiti dei vari strumenti osservativi,
affrontando questioni cruciali come il ruolo dell’osservatore, l’abilità di
osservare, la scelta del cosa, come e quando osservare, i problemi etici nell’uso
dell’osservazione.
Infine, l’ultimo capitolo, illustra inizialmente le caratteristiche dell’asilo nido, il
problema dell’inserimento del bambino al nido, l’organizzazione degli spazi, il
rapporto tra gli educatori e le famiglie. Successivamente viene presentata la
ricerca condotta al nido “Arcobaleno” di Savona durante il periodo del tirocinio
nelle sue linee fondamentali: la scelta del campione, la descrizione del contesto,
lo strumento specifico utilizzato per l’osservazione del bambino nel contesto
educativo (scheda Bruner – Camaioni), la codifica e l’elaborazione dei dati
osservativi. A titolo esemplificativo nel corso del capitolo sono anche riportati
per intero quattro protocolli di osservazione tratti dal mio lavoro al nido.
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Capitolo 1
L’INTERAZIONE
«Nessun uomo è un’isola», scrisse il poeta John Donne più di tre secoli fa
(cit. in Robertson,1988). Con queste parole egli intendeva porre l’accento su una
delle caratteristiche più tipicamente umane: siamo animali sociali, per tutta la
vita svolgiamo gran parte delle nostre attività quotidiane insieme agli altri.
Ogni essere umano, fin dai primi momenti della sua esistenza, viene a contatto
con un contesto sociale fatto di interazioni frequenti e significative con altri
esseri umani. Si pensi alla vita di un bambino appena nato: è una creatura
indifesa, non potrebbe sopravvivere per più di qualche ora senza l’aiuto degli
adulti. Ha bisogno degli altri. Ciò che vale per il neonato, si ripete lungo l’intera
esistenza umana. Viviamo in un mondo intersoggettivo, un mondo che
condividiamo con altri e non possiamo esistere in questo mondo senza
comunicare e interagire continuamente. .
L’interazione è stata definita da Robertson (1988) come il «processo mediante il
quale le persone agiscono e reagiscono in relazione agli atti di altre persone».
Essa comprende ogni tipo di comportamento sociale: salutare un amico, scrivere
una lettera ai genitori, parlare con un professore, sorridere al vicino di casa, fare
una domanda ad un passante. .
L’interazione può essere talmente fugace da divenire impercettibile (con molta
probabilità non ricordiamo nemmeno il volto della persona a cui abbiamo sorriso
per strada questa mattina). .
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Quando però l’interazione si ripete o prolunga nel tempo, tra gli individui
coinvolti si forma una specie di legame, una relazione tale per cui il
comportamento dell’uno tiene fin da principio conto del comportamento atteso
dell’altro.
Ad esempio, può capitare che uscendo per andare al lavoro, alla fermata
dell’autobus, io incontri e scambi qualche parola con una persona che in seguito
non rivedrò più. In questo caso il nostro incontro ha le caratteristiche di una
semplice interazione. Ma se il giorno dopo e il giorno dopo ancora, incontro
quella stessa persona alla fermata dell’autobus e s’instaura l’abitudine di
scambiarci un saluto e dialogare, l’interazione non è più fugace e fine a se stessa,
il nostro comportamento non è più libero e casuale, ma ognuno ha delle attese
rispetto al comportamento dell’altro: mi aspetto che l’altro mi saluti, che si fermi
a parlare con me. Si è instaurata tra noi una relazione sociale. .
La relazione implica il livello delle interazioni, ma non si riduce ad esse.
Interagire con qualcuno non significa ancora aver stabilito una relazione con
questa persona. Due sconosciuti che si parlano brevemente mentre sono in coda
alla posta interagiscono tra loro, ma non diremo certo che hanno un rapporto
interpersonale. .
Qualunque relazione comporta delle interazioni tra i partecipanti, ma:
1) le interazioni devono essere ripetute nel tempo; 2) i partner devono
riconoscersi; 3) le interazioni precedenti influenzano quelle in atto e queste
influenzano le interazioni future. .
È attraverso le interazioni che le relazioni sociali si formano e cambiano nel
tempo.
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1. L’interazione simbolica
Ogni individuo, per tutta la vita, è inserito in un mondo sociale in cui deve
imparare a muoversi e con cui deve rapportarsi, un mondo ricco di simboli. .
Il simbolo è qualcosa che rappresenta in modo significativo qualcosa di diverso.
Qualsiasi cosa può essere un simbolo: un gesto, un segno, una regola condivisa,
un cartello stradale, una risata. .
Un simbolo ha un significato solo perché le persone gliene assegnano uno.
Il rosso di un semaforo, le parole di un libro, una bandiera, non hanno di per sé
alcun significato. Accade invece che le persone imparino ad attribuire un
significato simbolico a queste cose e ordinino la propria vita sulla base di questi
significati. Una bandiera, per esempio, rappresenta una data nazione per il solo
fatto che le persone condividono la stessa interpretazione di un oggetto che
altrimenti non avrebbe significato. .
Anche le parole sono simboli ai quali l’uomo attribuisce arbitrariamente
significati condivisi, e il linguaggio è il sistema di simboli più ricco che esista.
Attraverso il linguaggio e gli altri simboli, le persone interpretano il mondo e
contrattano le proprie interazioni con gli altri. .
Si parla d’interazione «simbolica» per sottolineare il fatto che l’interazione
sociale passa attraverso l’uso di simboli, come per esempio il linguaggio verbale
o gestuale, ed è dunque basata sull’interpretazione del significato dei simboli che
vengono utilizzati. .
Come sostiene Herbert Blumer, uno dei più importanti esponenti della
prospettiva interazionista (cit. in Robertson, 1988): .
«Il termine interazione simbolica si riferisce, naturalmente, al carattere proprio e
particolare dell’interazione così come avviene tra gli esseri umani. La
particolarità consiste nel fatto che gli esseri umani interpretano le azioni l’uno
dell’altro piuttosto che semplicemente reagirvi […] Così l’interazione umana è
mediata dall’uso di simboli, dall’interpretazione del significato delle azioni
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reciproche […] ». .
Gli esseri umani agiscono nei confronti delle “cose” in base al significato
condiviso che attribuiscono a quelle cose. Per noi un pezzo di legno non è solo
un oggetto: può essere una mazza da hochey, un’arma potenziale o legna da
bruciare, e agiremo nei confronti di esso a seconda del significato che gli
assegniamo. Lo stesso vale per l’interazione con gli altri: dobbiamo interpretare
ciò che fanno. Quando interagiamo con gli altri, cerchiamo costantemente di
interpretare il loro comportamento. Una persona che urla, di per sé non significa
niente. Non possiamo reagire nei suoi confronti finché non abbiamo capito se sta
cercando di attirare l’attenzione, se si è appena fatta male oppure se sta
chiamando qualcuno. .
La reazione di una persona ad un evento non dipende dall’evento in sé, ma
dall’interpretazione che la persona dà della situazione. .
L’interazione sociale può svolgersi ordinatamente solo se riusciamo ad
interpretare il comportamento degli altri e le situazioni in cui ci troviamo.
Il successo delle nostre interazioni sociali è quindi legato alla capacità di capire,
interpretare e prevedere il comportamento altrui.
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2. La comunicazione interpersonale
L’interazione con gli altri si fonda sulla comunicazione, cioè sullo scambio
regolato di messaggi. .
Quasi sempre l’interazione sociale si manifesta assumendo le forme della
comunicazione. Certo è possibile trovare delle situazioni in cui ci sia interazione
senza comunicazione apparente. Si pensi a due persone che senza conoscersi si
incrociano per strada: ciascuno dei due percepisce il volto dell’altro e tale
percezione influirà sul loro comportamento dando vita ad una forma elementare
di interazione. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, le interazioni tra le persone
si realizzano attraverso una comunicazione verbale o / e non verbale.
Consideriamo quindi il ruolo che la comunicazione verbale e la comunicazione
non verbale svolgono nell’interazione sociale.
2.1. La comunicazione verbale
La maggior parte delle nostre interazioni con gli altri avviene attraverso l’uso del
linguaggio. .
Nessun altro sistema di comunicazione utilizzato da qualsiasi altra specie si
avvicina alla complessità e alla finezza proprie del linguaggio umano.
Il linguaggio si compone di centinaia di migliaia di parole e le parole sono
simboli il cui significato è socialmente condiviso. .
Queste parole si combinano seguendo regole grammaticali in modo da esprimere
qualsiasi idea che la mente umana possa produrre. .
Il linguaggio non è un carattere naturale dell’uomo, come il peso o l’altezza, ma
è una convenzione sociale. Esso è il risultato di un accordo implico tra chi
appartiene ad una data cultura. Che in italiano la parola “palla” indichi un certo
oggetto è frutto di una decisione arbitraria, ma dal momento che la decisione è
stata presa, essa vale come regola per tutti i membri di quella cultura. Essa vale
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come norma sociale. Nessuno è obbligato a rispettare questa norma, ma chi non
lo fa è destinato a non farsi capire dalla società. .
Conoscere e saper utilizzare il codice linguistico locale è un prerequisito per
un’interazione sociale riuscita.
2.1.1. La comprensione condivisa
Ogni forma di conversazione quotidiana presuppone una conoscenza condivisa
da coloro che vi partecipano. .
Le parole usate nei discorsi quotidiani non hanno significati precisi; molti
messaggi non sono espressi effettivamente ma dati per scontato. Per esempio,
una semplice domanda “cos’hai fatto oggi?”, non è in se stessa significativa. Una
giornata è lunga e la cosa più logica potrebbe essere quella di rispondere
descrivendo tutto quello che si è fatto dal mattino: “Mi sono svegliato alle otto,
sono sceso dal letto, sono andato in bagno…”. .
Per interpretare correttamente la domanda che è stata posta, devo conoscere
molte cose che sono sottintese in questo contesto: sapere chi è la persona che la
pone, che tipo di rapporto ho con questa persona, che attività svolgo solitamente
con lui e tante altre cose. .
Lo scambio verbale segue delle regole tacite e inespresse che le persone
rispettano e condividono e delle quali si rendono scarsamente conto nel corso
della vita. .
Se non si potessero dare certe cose per scontato, qualsiasi domanda dovrebbe
essere seguita in ogni occasione da una spiegazione dettagliata di cosa si voleva
realmente intendere e una comunicazione dotata di senso sarebbe impossibile.
Quelle che a prima vista sembrano irrilevanti convenzioni dello scambio verbale,
si dimostrano fondamentali per la vita sociale dell’uomo. .
Il linguaggio si fonda quindi sulla conoscenza condivisa degli interagenti per
rendere più economica e pratica la comunicazione. Quanto più stretta è la
relazione tra le persone, tanto più specifico diviene il loro uso del linguaggio. Gli
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amici, i coniugi, le famiglie sviluppano codici linguistici che possono risultare
incomprensibili agli estranei.
2.2. La comunicazione non verbale
Una parte notevole dell’interazione umana è di tipo non verbale, cioè non
avviene attraverso l’uso del linguaggio, ma attraverso altri simboli.
I messaggi verbali costituiscono una parte importante della comunicazione
interpersonale, ma non l’unica. Le parole sono accompagnate da un ampio
gruppo di segnali non verbali che sostengono, contraddicono o persino
sostituiscono il messaggio verbale. .
L’uomo non “parla” solo con gli organi vocali, ma con tutto il corpo: con le
espressioni del viso, i gesti, i movimenti, la postura, gli odori, i sorrisi ecc.
Il corpo parla e lo fa in modo più eloquente delle parole che usiamo per
esprimere i nostri pensieri. Anzi, quando vorremmo nasconderci dietro un fitto
manto di discorsi, i nostri gesti, il tono della voce, i movimenti oculari mettono a
nudo pensieri ed emozioni senza chiederne il permesso. .
Spesso accade che parlando durante un colloquio di lavoro, un esame
all’università o semplicemente con un amico, il nostro corpo, i movimenti che
facciamo rivelino qualcosa che in realtà vogliamo tacere a chi ci sta davanti.
Il linguaggio del corpo ha un peso decisivo nell’interazione tra le persone.
Quando incontriamo una persona, il corpo manifesta ciò che sente e difficilmente
riusciamo a controllare i messaggi inviati dal nostro corpo. .
Chi interagisce non sta mai fermo: usa le mani per gesticolare, muove i piedi, fa
cenni col corpo e assume differenti espressioni facciali. .
Due forme importanti di comunicazione non verbale sono costituite dal
“linguaggio del corpo” e dalla manipolazione dello spazio fisico tra persone.
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2.2.1. Il linguaggio del corpo
La forma più evidente del linguaggio del corpo è costituita dalle espressioni
facciali e dai gesti. .
Il volto è uno dei canali più importanti della comunicazione non verbale. La
mimica facciale, infatti, lascia trasparire facilmente le emozioni, oltre ad
accompagnare e sostenere il discorso. Sul viso è possibile leggere sentimenti e
pensieri.
Durante l’interazione, il bisogno di vedere in faccia il nostro interlocutore indica
l’importanza di questa parte del corpo nel veicolare i messaggi. .
L’espressione del volto spesso accompagna e chiarisce il linguaggio verbale.
Guardando le espressioni del viso della persona che abbiamo di fronte possiamo
avere importanti informazioni sul suo grado di attenzione, sui suoi stati emotivi,
sulla sua comprensione, accordo o disaccordo nei confronti del contenuto del
messaggio. Informazioni utili al corretto e completo svolgimento dell’interazione
comunicativa. .
Le espressioni facciali che comunicano le emozioni umane fondamentali quali la
rabbia, la tristezza, la paura, il dolore, il disgusto e la gioia sono degli universali
culturali; sembra che siano innate nella nostra specie e comprensibili ai popoli di
qualsiasi cultura. .
I gesti invece variano da una cultura all’altra. Non tutti i popoli esprimono il “si”
e il “no” annuendo e scuotendo la testa. In alcune culture, per esempio, il “no” è
espresso toccandosi il naso con la mano destra. .
I gesti quindi possono essere compresi solo da persone che, appartenendo alla
stessa cultura, attribuiscono loro lo stesso significato simbolico.
Le mani possono produrre messaggi molto complessi ed espressivi considerando
i gesti che si possono compiere attraverso esse. .
Molti gesti servono a trasmettere informazioni (“vieni qua”, “vai a quel paese”,
“fermo!”). Altri, in particolare la gesticolazione delle mani mentre si parla,
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illustrano e completano l’espressione verbale. Altri ancora esprimono lo stato
d’animo del soggetto (battere i pugni, mettere le mani sul viso). .
Esistono poi altre forme di linguaggio del corpo, come la posizione della
persona, delle gambe o l’inclinazione del corpo verso l’altro attore
dell’interazione, che non vengono notate con la stessa facilità delle espressioni
facciali e dei gesti. Tuttavia questi segnali trasmettono potenti messaggi anche
quando i partecipanti all’incontro non ne sono assolutamente consapevoli.
Si deve, infine, fare riferimento all’importanza del contatto fisico durante
l’interazione tra due persone. Il toccare è uno dei segnali non verbali più
importanti nella vita neonatale: i genitori e i lattanti comunicano molto attraverso
il contatto fisico.
2.2.2. La vicinanza fisica
Un altro modo in cui gli uomini possono comunicare tra loro è la manipolazione
dello spazio che li separa. .
Gli esseri umani hanno un senso molto spiccato dello spazio personale che li
circonda e sono infastiditi quando esso viene invaso. Trovarsi chiusi in un
ascensore affollato, per esempio, suscita nelle persone delle reazioni e uno stato
di disagio. Quando ci si trova in situazioni simili, si spingono avanti i gomiti, si
evita il contatto oculare, si fanno gesti di fastidio e si aumenta la distanza
cercando di spostarsi. .
La distanza che si adotta nell’interazione con le persone, dipende anche da fattori
come la confidenza e la simpatia. Gli amici interagiscono ad una distanza più
ravvicinata rispetto agli estranei.
Hall (1968) ha suggerito l’esistenza di quattro aree di spazio privato:
distanza intima (fino a 45 centimetri), riservata ai contatti intimi.
distanza personale (da 45 centimetri a 1,5 metri), riservata ad amici e
conoscenti.
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distanza sociale (da 1,5 a 4,5 metri), che si tiene in situazioni relativamente
formali come le interviste.
distanza pubblica (4,5 metri e più), che è tenuta soprattutto da chi si rivolge al
pubblico.
2.3. Parola, viso e corpo nell’interazione
Benché il linguaggio e la comunicazione verbale siano spesso il centro della
nostra attenzione quando parliamo delle interazioni sociali, i segnali non verbali
possono essere altrettanto importanti, e talvolta più importanti del linguaggio nel
comunicare con altri. I segnali non verbali sono particolarmente potenti nel
comunicare emozioni e sentimenti, messaggi spesso difficili da trasmettere
verbalmente. .
La comunicazione non verbale, in ogni caso, non raggiunge mai lo stesso grado
di complessità e raffinatezza di quella verbale. Non è possibile sostituire
totalmente il linguaggio verbale con quello non verbale. Questo però non
significa che quella corporea sia una forma inferiore di comunicazione. .
Nelle interazioni sociali quotidiane il linguaggio verbale non può fare a meno di
una parallela comunicazione non verbale. Mentre una persona parla muove la
faccia, gesticola e in questo modo completa la comunicazione non verbale.
Le persone sfruttano la mimica facciale e i gesti di chi hanno di fronte per
ampliare il senso delle parole che ascoltano e per valutarne la sincerità.
Le interazioni dipendono quindi dal sottile rapporto che esiste tra ciò che la
persona esprime con volto e corpo e ciò che invece comunica a livello verbale.
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3. Le prime interazioni
Dopo aver affrontato il tema dell’interazione in termini generali, concentreremo
la nostra attenzione sull’interazione nella prima infanzia. In che modo i bambini
interagiscono con gli altri? .
I bambini sono esseri sociali fin dalla nascita. .
I neonati vengono al mondo provvisti di riflessi, abilità e caratteristiche che li
predispongono alla costruzione di rapporti con gli altri, e già nel corso del primo
anno di vita ulteriori capacità in tal senso si manifestano e si affinano (Camaioni,
1993). .
In primo luogo, il bambino è in grado di emettere segnali che attivano risposte
appropriate da parte di chi si prende cura di lui: il pianto, il sorriso e
vocalizzazioni di vario genere. .
Il pianto, ad esempio, è certamente un meccanismo innato che consente al
neonato, ancora incapace di muoversi, di attirare l’attenzione della madre. Il suo
valore interpersonale e quindi sociale, consiste nel fatto che suscita nella madre
un’attività complementare – quella di prendere in braccio e cullare il piccolo – in
grado di calmare contemporaneamente sia il pianto del bambino sia l’ansia che
questo ha generato nella madre stessa. .
Anche il sorriso, pur essendo innato, acquista presto un significato importante nei
rapporti interpersonali. Alla nascita il sorriso del bambino è un “sorriso riflesso”:
è automatico, una reazione innata, un atto istintivo. Il bambino non sorride per
comunicare qualcosa agli altri. Anche se inizialmente il sorriso è semplicemente
un’espressione innata del bambino, la madre e il padre lo accolgono spesso come
fosse una vera e propria forma di comunicazione e rispondono ad esso con parole
e sorrisi. A partire dalle 6 settimane di vita, si presenta il “sorriso sociale”. Il
bambino adesso sorride in risposta a stimoli sociali veri e propri come il volto o
la voce di chi lo accudisce. .
Il sorriso provoca delle risposte in chi si prende cura del bambino: suscita
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l’attenzione dell’adulto, il desiderio di dare cura e protezione al piccolo, di
coccolarlo. Fa nascere nell’adulto un sorriso di risposta. Il padre e la madre,
rispondendo con sorrisi e parole, al sorriso del figlio, lo «rinforzano»: il piccolo
capisce le reazioni che il suo sorriso provoca negli altri e si sente stimolato ad
esprimersi nuovamente attraverso questo mezzo. .
In secondo luogo il neonato fin dai primi giorni di vita è particolarmente
interessato alle esperienze sensoriali fornite dagli altri esseri umani. Per
esempio preferisce i genitori che parlano e si muovono a quelli che rimangono
immobili e non mostrano alcuna reazione alla sua presenza; preferisce voci
umane a suoni di altro tipo; preferisce le facce ad altre figure simmetriche; si
orienta attivamente verso certe caratteristiche della voce o l’odore del latte
materno (Hewstone et al., 1991).
.
In sintesi, le capacità percettive del neonato garantiscono che egli presti
attenzione alle altre persone; le altre persone, da parte loro, di solito rivolgono la
loro attenzione al comportamento del neonato cercando di massimizzare le
occasioni di interesse reciproco. .
In seguito, verso il quarto o quinto mese, il bambino reagisce in modo
differenziato a persone diverse: ad esempio, distingue la madre da altri oggetti,
sociali e non; il suo sorriso non è più provocato in modo indiscriminato da tutte
le facce ma soltanto da quelle familiari; reagisce alla voce del padre in modo
diverso che a quella di altri uomini; dispone anche di comportamenti di
accostamento, inizialmente basati su riflessi come il grasping e sostituiti poi
dalla capacità di afferrare. .
Sulla base di queste disposizioni e delle acquisizioni che ne derivano, nel corso
del primo anno di vita il bambino diviene capace di partecipare in modo sempre
più appropriato ad interazioni diadiche (Aureli, 1986). .
Inizialmente non si può parlare di scambi sociali intenzionali da parte del
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bambino.
In principio è solo l’adulto l’elemento socialmente competente della diade. È
l’adulto che inizialmente costruisce il contesto delle interazioni, massimizzando
anche dal punto di vista fisico le occasioni di incontro e di interesse reciproco: ad
esempio tiene il bambino con la faccia di fronte alla propria.
Questo semplice gesto stimola l’interesse di entrambi: il neonato in quella
posizione è più facilmente attratto dal viso e dalla voce dell’adulto, e l’adulto ha
ampie possibilità di cercare nel piccolo ogni indizio di curiosità, divertimento o
disagio. Ed è l’adulto che, trattando il bambino come se stesse interagendo
intenzionalmente con lui, crea le condizioni favorevoli all’acquisizione di schemi
di azione congiunta. Inizialmente, infatti, non vi è da parte del bambino alcuna
intenzione di comunicare.
Ad esempio il neonato di 20 giorni che scoppia a piangere per la fame, esprime
con il pianto il proprio bisogno. Non piange allo scopo di comunicare con la
madre. La madre però interviene soddisfacendo il bisogno del figlio. È lei che
interpreta il pianto come un segnale del fatto che il bambino voglia interagire con
lei comunicandole i propri bisogni e tratta il figlio come se fosse in grado di
comunicare intenzionalmente. .
La stessa cosa accade, ad esempio, quando il bambino di 1 mese sorride alla vista
del volto della madre. La madre interpreta questo sorriso come un “sorriso
sociale”, ovvero come un segnale del fatto che il bambino voglia interagire con
lei. Di conseguenza lo guarda, gli sorride, gli parla. Anche in questo caso è la
madre che costruisce interamente la comunicazione. Infatti, all’età di un mese il
sorriso è semplicemente una risposta riflessa, istintiva, agli stimoli provenienti
dalla persona umana, più precisamente il volto e la voce. Il bambino non sorride
ancora con l’intenzione di comunicare con la madre. .
A questo proposito Kenneth Kaye (cit. in Camaioni, 1993) sostiene che:
«L’evoluzione ha prodotto bambini che sono capaci di farsi trattare dai loro
genitori come se fossero più intelligenti di quanto effettivamente non siano.