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ambiti applicativi della metafora in campo formativo, sulla base delle conoscenze
maturate durante la stesura dei capitoli precedenti (cap. 6).
La seconda parte è interamente dedicata all’indagine sperimentale che ha
coinvolto venti testimoni privilegiati, esponenti della professione di formatore. Non
avendo a disposizione precedenti teorici o sperimentali cui riferirmi, attribuisco alla mia
ricerca un carattere essenzialmente esplorativo, il cui obiettivo è quello di identificare
ed esaminare le dimensioni chiave che strutturano il quadro d’azione della pratica
professionale formativa circa l’utilizzo di strumenti metaforici. Avvalendomi del
metodo dell’intervista di esplicitazione teorizzata da Vermersch (2005), ho chiesto ai
formatori di riflettere sulla metaforicità dei metodi formativi dei quali si avvalgono e di
esprimere opinioni, esplicitare conoscenze e raccontare episodi concreti circa le
modalità e gli obiettivi coi quali ricorrono a tali metodi. Prima di esaminare le interviste
ho costruito un sistema di categorizzazione delle risposte, per facilitare il trattamento
del vasto ed eterogeneo spettro informativo raccolto, nonché al fine di consentire
un’analisi statistica descrittiva e non parametrica sulle variabili ottenute.
All’illustrazione delle motivazioni che mi hanno spinta a realizzare questa ricerca e alla
presentazione dell’indagine (cap. 7), seguono le considerazioni sui risultati. Non
reputando opportuno trattare dicotomicamente le elaborazioni quantitative dei dati e le
interpretazioni qualitative dei testi d’intervista, la discussione dei risultati sarà di natura
quali-quantitativa ed affronterà trasversalmente le dimensioni di studio (cap. 8).
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PARTE I
LA NATURA POLIVALENTE DELLA METAFORA
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CAPITOLO 1
CONTESTUALIZZAZIONE STORICA
Rassegna delle concezioni simboliche e recupero del pensiero indiretto
La coscienza può rappresentarsi il mondo in due modi: direttamente o
indirettamente. Gilbert Durand (1999) tenta di mettere ordine al confuso vocabolario dei
termini relativi all’immaginario, edito dal pensiero occidentale e dall’Antichità classica
che tanto hanno svalutato l’immaginazione simbolica, fornendo così una semplice e
chiara distinzione tra pensiero diretto e indiretto. Quando l’oggetto sembra presente allo
spirito, una porzione di realtà incontra direttamente la sensibilità del soggetto
conoscente, il quale compie un’attività percettiva. Se, al contrario, l’oggetto è assente e,
di conseguenza, non può presentarsi direttamente alla sensibilità, la coscienza lo ri-
presenta attraverso un’immagine. In questo caso le azioni che permettono al soggetto di
conoscere la realtà non sono più la percezione e la sensazione, ma il ricordo,
l’immaginazione e la rappresentazione. Pensiero diretto e pensiero indiretto non sono
alternative nettamente identificabili: la coscienza ha la possibilità di presentarsi
indirettamente l’oggetto con differenti gradi di immagine, i cui estremi sono
l’adeguazione totale (presenza percettiva)
e, sul versante opposto, l’inadeguazione
radicale (assenza di significato). Disposti lungo questo continuum si trovano il segno,
qualora la realtà significata sia sempre presente o presentabile, l’allegoria, nel caso in
cui la realtà significata sia astratta e quindi difficilmente presentabile, e il simbolo,
quando “il significato non è più del tutto presentabile” (Durand G., 1999, p. 21). I segni
arbitrari sono convenzionali, ad esempio i nomi propri e i segnali stradali, e hanno la
funzione di economizzare le operazioni mentali; i segni allegorici non sono scelti
arbitrariamente e sono costretti a figurare concretamente una parte del concetto astratto
che significano: un personaggio che assolve o punisce è l’allegoria della giustizia; gli
oggetti di cui si serve, come la bilancia e la spada, sono i suoi emblemi; il simbolo è un
segno che, data la totale assenza della realtà significata, “può riferirsi solo a un senso e
non a una cosa sensibile” (Durand G., 1999, p. 21).: le parabole evangeliche, ad
esempio, sono il simbolo del Regno divino. Il simbolo non può essere scelto
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arbitrariamente dato che la presentazione di ciò che significa non può mai essere
riscontrata e confermata: il simbolo è “epifania dell’indicibile” (Durand G., 1999, p.
22), “trasfigurazione di una rappresentazione concreta mediante un senso per sempre
astratto” (Durand G., 1999, p. 22). I campi del simbolo riguarderanno per questo
l’inconscio, il metafisico e il soprannaturale e i temi privilegiati saranno quelli dell’arte
e della religione.
La mancanza di concretezza e di oggettività caratterizzanti il simbolo lo rendono
costantemente ambiguo e impossibile da esplicitare e rappresentano, in tal modo, le
ragioni di fondo del rifiuto da parte della scienza, della filosofia e della religione di
legittimare l’immaginazione simbolica. Di seguito presenterò il succedersi degli stadi
dell’estinzione simbolica nella storia del pensiero occidentale, seguendo l’analisi di
Gilbert Durand (1999), al fine di contestualizzare storicamente l’evoluzione della
concezione filosofico-psicologica relativa alla metafora. Ritengo, difatti, che la metafora
rientri pienamente nella definizione che ho riportato sopra di simbolo: la metafora,
etimologicamente “portare (phérein) fuori (metá)”, proietta la struttura semantica di un
termine sull’altro, creando un’entità concettuale originale non riconducibile a nessuno
dei due termini, né ad alcuna parte o singola proprietà di essi. La metafora è immagine
di una realtà che non può essere mai presentata direttamente alla sensibilità: la vita è un
labirinto fonde un termine astratto, presente o presentabile alla coscienza, e uno
concreto, riscontrabile sensorialmente, originando una nuova struttura semantica nella
quale vita e labirinto lasciano i propri significati consueti per costituirne uno che non è
più del tutto presentabile.
1.1 IL TRIPLICE ICONOCLASMA OCCIDENTALE
L’Occidente viene definito da Durand “paradossalmente iconoclasta” perché,
nonostante abbia saputo proporre immagini simboliche e una straordinaria varietà di
mezzi di comunicazione e riproduzione iconografica (cinema, fotografia, pittura ...), la
sua abbondanza immaginativa è nondimeno sintomo di un iconoclasma per eccesso,
ossia di una macroproduzione simbolica nella quale il senso si dilegua. A questo si
contrappone l’iconoclasma per eccellenza, quello dell’Oriente bizantino del VII secolo:
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con l’obiettivo di purificare il simbolo dal realismo antropomorfo dell’umanesimo
cristologico, Bisanzio opera un iconoclasma rigorista, per difetto (Durand G., 1999).
Il simbolo si estingue in Occidente in modo graduale, con la delegittimazione dei
tre criteri che lo compongono, ai quali vengono opposti tre tipi di elementi pedagogici
antagonistici. Si hanno, così, tre stadi dell’iconoclasma:
1. alla presenza figurata della trascendenza le Chiese oppongono dogmi e
clericalismi;
2. al pensiero indiretto i pragmatismi del concettualismo aristotelico e del
nominalismo occamista oppongono il pensiero diretto;
3. alla comprensione epifanica la scienza oppone una spiegazione semiologica e
positivista.
Essendo il simbolo
ogni segno concreto che evochi, mediante un rapporto naturale, qualcosa di assente o di impossibile da
percepire (Lalande A., 1971),
esso è per sua natura polisemico, soggetto ad un’apertura interpretativa che
costituisce il presupposto della libertà di ispirazione individuale. Il Mediatore (Angelo o
Spirito Santo), che ha il compito di ricongiungere il significante concreto e il significato
invisibile trascendentale, è personale e non necessita di un intermediario sociale,
sacramentale od ecclesiale. È precisamente questa libertà creatrice di senso che la
Chiesa romana non ammette: essa diviene funzionalmente dogmatica, in particolare con
Innocenzo III e dopo il Concilio di Trento, per proteggersi da eventuali aperture verso il
sacrilego. Le manifestazioni visibili del simbolo irrigidito e dogmatico sono numerose:
emblematica, in questo senso, la traduzione teologica latina di “mistero” con
“sacramento”, evidenziata da Bernard Morel (1959, p. 186). Se, infatti, il primo termine
greco rimanda ad una tensione trascendentale, il secondo suggerisce un rigore giuridico.
L’arte è il campo che maggiormente rivela l’iconoclasma occidentale: le icone del
romanico, fortemente simboliche, cadono in disuso per cedere il passo all’allegoria, al
“realismo” gotico e all’ornamentazione barocca al fine di illustrare verità di fede
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rigidamente definite. Il simbolo non è più quello della gloria di Dio e della sua vittoria
sulla morte, poiché l’attenzione è posta sulle sofferenze dell’uomo-Dio.
Il primato del pensiero diretto è il risultato della disputa filosofica dell’Antichità
classica ripresa dal Medioevo occidentale. Sul Platonismo, che è “una filosofia della
‘cifra’ della trascendenza” (Durand G., 1999, p. 34) e implica quindi una simbolica,
vince il concettualismo aristotelico. Valentino (Sagnard F., 1947), nei primi secoli
dell’era cristiana, propone una dottrina degli angeli che è frutto dell’evoluzione storica
del platonismo. Gli angeli sono i simboli della funzione simbolica stessa, poiché
mediano tra la trascendenza del significato e il mondo dei segni concreti; in termini
platonici, gli angeli hanno il compito di ricondurre gli oggetti sensibili al mondo delle
idee, incarnando quell’immaginazione epifanica che è la reminiscenza. Questo pensiero
indiretto e simbolico, che parla di un mondo ontologicamente interconnesso ad un senso
metafisico, viene soffocato dalla crisi degli universali, promossa in occidente dal
concettualismo aristotelico ed acuita dall’empirismo. Nonostante le resistenze dello
spirito cortese, dell’amore platonico dei Fedeli d’Amore e della rinascita francescana
del simbolismo con San Bonaventura, il pensiero diretto ha il sopravvento; espressione
massima di quest’ultimo sarà il terminismo di Occam, il quale considera come unico
oggetto di conoscenza l’esperienza sensibile e riduce gli universali a termini logico-
verbali del giudizio. Il pensiero diretto nega l’evocazione simbolica in nome di un
realismo percettivo che considera la realtà dei segni concreti non riconducibile ad altro
se non a se stessa, per cui le qualità sensibili rimandano al sensibile e le idee sono
ridotte ad un concetto definito che ha senso proprio. Anche in questo caso
l’iconoclasma viene marcato dal passaggio dall’arte romanica, che eredita l’iconografia
simbolica dall’Oriente, all’arte gotica, che domina la scena per ben tre secoli (dalla metà
del XII secolo alla fine del XV secolo). L’arte indiretta, simbolica, iconica
rappresentante la teofania angelica, viene sostituita da un’arte iconoclasta per eccesso:
l’esasperazione del significante è visibile nell’immagine naturalista che diviene oggetto
ornamentale.
L’opera di distruzione del simbolo è ormai completa: l’ultimo stadio, quello
dello scientismo semiologico e del positivismo, demolisce il terzo criterio del simbolo,
concernente la comprensione immaginativa. Con Cartesio, innanzitutto,
l’immaginazione viene considerata erronea e pericolosa in quanto “deformante”
9
l’oggetto del sapere (Durand G., 1999, p. 32); solo l’esplorazione scientifica ha diritto al
titolo di conoscenza. Per Cartesio, non solo il mondo fisico è figura e movimento, res
extensa riducibile ad un’equazione algebrica, ma anche la res cogitans è sottoponibile al
metodo di riduzione delle evidenze analitiche. Con Spinoza, addirittura, sarà Dio stesso
a subire il metodo riduttivo della geometria analitica. Il metodo matematico universale
diviene, così, l’unico simbolo dell’essere, il quale è ricondotto ad una rete di relazioni
oggettive, e la coscienza perde ogni tipo di contatto trascendentale e finalistico. Tutto il
senso figurato è concentrato nel significante e di conseguenza il segno trionfa sul
simbolo. L’immagine artistica, in questo contesto, non possiede più una funzione
simbolica, spariscono le allegorie rinascimentali e nel XVII e XIII secolo l’arte finisce
per essere considerata divertente e ornamentale. Nonostante la ribellione degli artisti
romantici e impressionisti , il simbolo non avrà più la stessa pregnanza evocativa e
significativa delle culture iconofile, come quelle della Bisanzio macedone e della Cina
dei Song.
Nel XIX secolo l’uomo perde definitivamente la capacità di relazionarsi alla
trascendenza e lo spirito, non avendo più a disposizione mediatori simbolici, si aliena. Il
positivismo di Comte rappresenta il culmine del processo di distruzione del simbolo, in
quanto sintetizza in un momento storico, in una corrente filosofica, tutte le
caratteristiche dei tre stadi iconoclasti presentati:
Il positivismo [...] è insieme dogmatismo ‘dittatoriale’ e ‘clericale’, pensiero diretto al livello dei fatti
reali in opposizione alle «chimere», e altresì legalismo scientista (Durand G., 1999, p. 42).
1.2 IL PROGRESSIVO RIEMERGERE DEL SIMBOLO NELLA NOSTRA EPOCA
Il simbolo riacquista un ruolo di primo piano congiuntamente all’interesse della
psicologia e dell’antropologia per la vita mentale, benché rimanga inserito in una
concezione ancora riduttiva.
Un primo importante recupero del simbolo si ha con la psicanalisi freudiana, i
cui principi, lo ricordiamo, sono essenzialmente quattro:
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1. vi è una causalità propriamente psichica, in quanto gli episodi psichici e
fisiologici non hanno necessariamente una causa organica;
2. esiste un inconscio psichico nel quale sono conservate le cause delle nevrosi e
sedimentati i dati concreti dimenticati della vita dell’individuo;
3. le dimenticanze depositate nell’inconscio (censura, rimozione) hanno una
causa che provoca gli effetti nevrotici, come ad esempio divieti familiari o
sociali;
4. la causa generale della vita psichica è la pulsione sessuale, o libido, repressa
dalla censura e presente già durante l’infanzia.
La pulsione libidinosa, rimossa a causa di un divieto, viene soddisfatta in via
indiretta e deviata, trasformandosi in un’immagine, per esempio onirica, che il terapeuta
cerca di identificare e analizzare alla ricerca della fonte biografica e della causa che l’ha
originata. L’immagine è, perciò, “simbolo della causa conflittuale che ha opposto la
libido e le contro-pulsioni della censura” (Durand G., 1999, p. 49) e, in tal modo,
rimanda ad una ricerca deterministica delle cause che l’hanno originata. Più che di
simbolo, dunque, sarebbe corretto parlare di segno, di effetto, di sintomo.
Come ammonisce Jung, il simbolo è per sua natura plurivoco e non può riferirsi
ad un’unica causa. Lo psicologo propone, in alternativa all’interpretazione semiotica
della pulsione, una concezione simbolica di essa, che trasforma la libido in “Energia
psichica in generale” (Durand G., 1999, p. 67) e l’immagine nevrotica in archetipo.
L’inconscio, nella teoria junghiana, deriva dalla combinazione di un inconscio
collettivo, che contiene informazioni innate ereditate dalla cultura di appartenenza, e di
un inconscio personale derivante dalla biografia dell’individuo. Gli archetipi sono
quegli elementi strutturali che contengono le informazioni innate e universali di cui è
costituito l’inconscio collettivo, inoltre sono sistemi attraverso i quali l’individuo
interpreta ciò che percepisce ed esperisce (ad esempio “l’anima” è l’archetipo della
personalità femminile rappresentata nell’inconscio dell’uomo). Il ruolo mediatore
dell’archetipo consiste nel riunire il Sinn, senso cosciente che definisce gli oggetti
percepiti, al Bild, materia prima che giace nell’inconscio, e non è un caso che
etimologicamente il simbolo (Sinnbild in tedesco) significhi unificatore di coppie di
opposti. La malattia mentale, in tale prospettiva, nascerebbe dallo squilibrio creato dalla
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deficienza di questa funzione simbolica: se lo squilibrio è a vantaggio del Sinn si
produce iperrealismo, mentre se è a vantaggio del Bild si riscontra un rapporto autistico
col reale. Jung, all’opposto di Freud, ha una concezione fin troppo ampia del simbolo: il
secondo tenta di attribuire al simbolo il carattere di universalità con l’espediente del
complesso edipico, smentito peraltro dall’etnologia e in particolare da Malinovski
(Durand G., 1999, p. 52), e riduce il simbolismo ad una sintomatologia nevrotica; Jung
assimila la simbolica creatrice dell’arte e della religione a quella creatrice di patologie
mentali.
In campo filosofico il merito di aver riportato l’attenzione sul simbolo è da
attribuirsi a Ernst Cassirer (1961). Il suo pensiero prende spunto dalla rivoluzione
kantiana circa il ruolo della conoscenza: per Kant la scienza, la morale e l’arte non sono
impegnate in una semplice visione analitica del mondo, ma in una vera e propria attività
costitutiva che, con un giudizio sintetico a priori, crea un universo valoriale. La
conoscenza non si limita a leggere il mondo, anzi lo costituisce attraverso uno
schematismo trascendentale, cioè con l’immaginazione. Per Cassirer l’oggetto della
simbolica non è una cosa analizzabile ma una fisionomia, una modellatura globale che
fornisce al reale un’organizzazione immediata e lo oggettivizza (Durand G., 1999). Il
pensiero, infatti, non è in grado di intuire direttamente e oggettivamente il mondo,
perché ha bisogno di includerlo in un senso: nulla è mai presentato, tutto è
rappresentato, solo il pensiero indiretto è possibile. Questo ultimo punto è il fuoco della
critica sollevata da Durand: nell’impostazione di Cassirer, essenzialmente pan-
simbolista, l’immaginazione simbolica rientra nel principio della logica di identità e non
ha una funzione autonoma.
1.3 LA NECESSITÀ DI REINSERIRE IL SIMBOLO NELLA SOCIETÀ DI OGGI
A partire dalle critiche rivolte alle concezioni simboliche finora presentate,
Gilbert Durand (1999) propone una teoria generale dell’immaginario. Secondo l’Autore
il pensiero è interamente inserito nella funzione simbolica e la totalità dei processi
psichici, esclusi quelli inerenti la percezione e la sensazione, può essere riconducibile
all’immaginario. Quest’ultimo, infatti, non viene dualisticamente opposto al
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razionalismo, il quale è considerato come una struttura particolare del sistema delle
immagini, così come non vengono nettamente distinti il conscio razionale e il
subconscio: il simbolo non sarebbe, dunque, un raro episodio sintetico di convergenza
tra Sinn e Bild, ma l’elemento centrale di un sistema dinamico immaginativo che
organizza gli istanti psichici nel tempo, in una storia che è sociale e individuale assieme.
Una delle funzioni del simbolo è quella di ristabilire pedagogicamente
l’equilibrio psicosociale. L’immaginazione serviva, in Freud, a sublimare la repressione
della pulsione e, in Jung, a ricongiungere senso cosciente e inconscio, da un lato, e
psiche individuale e inconscio collettivo dall’altro; per il filosofo francese, invece, il
simbolo è un mezzo terapeutico pedagogico che mira non tanto a guarire dalla perdita
della funzione simbolica (caso patologico grave), ma a ristabilire, nel soggetto
disadattato, l’equilibrio compromesso dalla struttura simbolica ipertrofica che inibisce
le altre. Le macro-strutture simboliche antagonistiche sono essenzialmente due: una fa
capo al regime diurno dell’immagine, l’altra a quello notturno. Il primo regime riguarda
lo spirito apollineo, in quanto si lega alla parte razionale, a livello psicologico, e alla
coercizione sociale, a livello collettivo. Nel caso in cui sia questa la struttura ipertrofica,
il soggetto tenderà all’iperrealismo. Il regime notturno è, al contrario, lo spirito
dionisiaco, che privilegia l’istinto e le passioni; in caso di patologia si manifesta con una
perdita di contatto con la realtà, ossia con un atteggiamento autistico. Non è unicamente
l’individuo che può propendere per un sistema simbolico o per l’altro dato che, come si
è detto, la funzione dell’immaginazione è di riequilibratura psico-sociale. Si possono,
infatti, individuare due grandi modelli di civiltà, quello apollineo-orientale e quello
dionisiaco-occidentale, intendendo questa suddivisione non in senso riduzionistico,
bensì come una tensione verso uno dei due simbolismi. In effetti nessuna società è mai
totalmente integrata in un singolo sistema, poiché possiede al suo interno casi di
tensioni antagonistiche che tenta di gestire e controllare
1
. Nel momento in cui
l’equilibrio vacilla, a causa di una crescente contraddizione degli schemi simbolici, la
società incontra un periodo di trasformazione. Questo, secondo Durand, è proprio il
caso della nostra società tecnocratica, nella quale vi è un alto grado di disintegrazione
tra simboli e miti religiosi, familiari, statali, socialisti, individualistici. Ecco perché
diviene necessaria una “pedagogia tattica dell’immaginario” (Durand G., 1999, p. 109),
1
Per approfondimenti:
Mucchielli R., 1960; Cazenave M., 1957; Lévi-Strauss C., 1958.
13
in una società dal grande potenziale immaginativo-comunicativo, caratterizzata, però, da
un’accelerazione tecnica che catalizza la disgregazione dei sistemi simbolici di
riferimento.
Questo mio lavoro diviene, allora, occasione per riflettere sulla possibilità di
costruire un territorio etico di condivisione e instaurazione di valori, di creazione di
significati simbolici individuali e sociali, attraverso l’impiego, sistematico e non
casuale, progettuale e non improvvisato, dello strumento metaforico nello spazio
privilegiato per il cambiamento: il contesto formativo.