INTRODUZIONE
Il presente lavoro di ricerca mira a fornire un quadro della situazione carceraria
attuale, in riferimento alla popolazione femminile, e in particolar modo al vissuto
della maternità e agli effetti che la co-detenzione con la madre può produrre sullo
sviluppo del bambino all’interno di tale contesto; questi nasce da un interesse
personale nei confronti della realtà carceraria e si propone di offrire, partendo dalla
maternità e dallo sviluppo del bambino in carcere, un’ampia panoramica della
condizione carcereria “al femminile”.
L’universo-carcere è costellato da una serie di aree problematiche che vengono
riversate dalla società libera, - ma raramente all’interno di essa -, in una realtà
confusa e disordinata, dove diviene indistinto ogni limite e la stessa identità
personale rischia di perdersi, così che guardando il carcere dall’esterno, diviene
difficile immaginare le dinamiche che possono mettersi in atto al suo interno.
Allo stesso modo, la “detenzione al femminile” racchiude in sé tutto un
microcosmo, di cui la maternità è solo la punta di un iceberg, visibile al di fuori
delle mura ma che rappresenta il più grande paradosso, in quanto
l’esperienza più sublime nella vita di una donna, vissuta nella condizione
meno eccelsa a cui l’essere umano possa auspicare.
La co-detenzione è quindi, quanto per la madre, tanto per il bambino, un’esperienza
totalizzante, un evento che sottrae una moglie, una madre, un figlio dal proprio
ambiente, per collocarli in una società alternativa, slegata dalla vita della società
libera, racchiudendoli all’interno di un perimetro fisico, psicologico, umano; un
perimetro che viene varcato, con modalità e tempi istituzionalizzati, solo da poche
persone.
Il periodo di tempo che va dai primi giorni di vita ai tre anni comprende fasi di
sviluppo tutte molto significative per il bambino, perché in grado di determinare
la formazione della sua personalità , ma nonostante ciò, sulla base dell’attuale
impianto normativo, la centralità dell’innocenza del bambino viene sacrificata a
favore dell’espiazione della pena del genitore.
Il quesito che ci si pone è che, se considerevoli sono le conseguenze che
un’istituzione totale, e quindi la carcerazione, può produrre sui detenuti adulti,
quanto possano essere ben più gravi gli effetti che colpiscono coloro che, in quanto
“detenuti innocenti” non hanno pene da espiare, ma sono ugualmente costretti a
vivere un periodo delicato come quello dell’infanzia in una condizione dove tale
aspetto, per forza di cose, non può essere rispettato.
A livello metodologico, attraverso uno studio analitico della problematiche più
significative, si sono evidenziati gli aspetti più rilevanti della condizione detentiva
della diade madre-bambino, suddividendoli in quattro capitoli.
In primo luogo è stato necessario analizzare se e come nel corso degli anni, si è
sviluppata la criminalità femminile: ciò è stato possibile esponendo, nel primo
capitolo, le principali teorie criminologiche rela tive a questo tema.
Nel secondo capitolo, partendo dal presupposto che scontare una pena carceraria
causa inevitabilmente una rottura all’interno dei rapporti familiari e affettivi, è stata
analizzata la dimensione affettiva in alcune delle sue peculiari sfaccettature:
l’assenza dell’affettività sia nei contatti con l’esterno, sia all’interno con le altre
detenute e le conseguenze psicologiche a cui tale mancanza può condurre, il ruolo
della comunicazione non verbale e l’assenza di contatto fisico, il ruolo della
sessualità, e infine, il volontariato, in quanto risorsa umana a cui le detenute, e i loro
bambini, possono attingere.
Nel terzo capitolo è stata analizzata sia la condizione delle madri detenute: da un
punto di vista legislativo, da un punto di vista psicologico e affrontando il ruolo
della figura paterna, cioè come egli si collochi in tale contesto; sia la condizione dei
loro figli: le principali caratteristiche di sviluppo, i rischi che la co-detenzione
comporta e la relazione che viene ad instaurarsi con i figli che “stanno fuori”.
Infine, nel quarto capitolo è stata esposta un’indagine esplorativa relativa al
comportamento attentivo dei bambini che vivono in carcere, condotta in
collaborazione all’Associazione “A Roma, Insieme” e a un asilo nido romano.
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CAPITOLO 1
IL CONTRIBUTO FEMMINILE ALLA CRIMINALITA’:
PREMESSE TEORICHE
1.1 Le ragioni di una minore incidenza: il numero oscuro
Le conoscenze di cui oggi disponiamo sulla natura femminile sono tutt’ora a uno
stadio poco evoluto, rispetto alla massiccia documentazione esistente su tutti gli
aspetti della delinquenza e della criminalità maschili.
Il sottosviluppo di questa particolare area di studio sembra doversi attribuire, almeno
in parte, alla diffusa convinzione che la criminalità femminile risulti meno
significativa, sia in termini di superiorità numerica ed epidemiologica, sia in termini
di gravità e rilevanza fenomenologica.
Come afferma Smart (1981), nel passato, la criminalità femminile non ha mai
costituito una significativa minaccia per l’ordine sociale, e tutt’oggi malgrado
l’incremento dei tassi dei reati commessi dalle donne, e la loro conseguente risonanza
morale, la loro gestione non si è evoluta in senso positivo.
Tradizionalmente, infatti, le donne costituiscono una categoria ristretta del
più ampio gruppo della popolazione criminale e detenuta, e a livello fenomenologico,
le tipologie di reati commessi dalle donne sembrano essere principalmente reati
comuni, considerati lievi, relativi a piccoli valori monetari o di ordine sessuale, quali
l’esercizio della prostituzione.
Riguardo alla disparità quantitativa tra delinquenza femminile e maschile sono state
fornite, nel corso degli anni, molteplici chiavi interpretative:
è stata sottolineata la diversa posizione della donna nella società, nel senso di
una sua minor partecipazione alle attività relazionali, di una situazione più
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dipendente e, conseguentemente della minor esposizione alle sollecitazioni
ambientali;
il persistente divario tra criminalità maschile e femminile sarebbe dovuto a un
atteggiamento indulgenziale da parte delle forze dell’ordine, dei procuratori e
dei giudici nei confronti delle donne che compiono reati, che denuncerebbero
meno o a cui irrogherebbero minori condanne (soprattutto se si tratta di
giovani donne), in funzione del ruolo subordinato e pertanto più
deresponsabilizzato delle donne;
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il ruolo delle donne è comunque oggi notevolmente mutato, così nel campo
della criminalità assistiamo da una parte all’apertura di attività un tempo
precluse, quali il terrorismo e la criminalità organizzata, e dall’altra a settori
quali la delinquenza economica e le collusioni politico-imprenditoriali, tuttora
terreno esclusivamente maschile in conseguenza del fatto che i ruoli più
prestigiosi nella politica e nelle imprese sono ancora prevalente occupati da
uomini.
Marotta (1989) afferma come in base alle più recenti indagini statistiche,
l’emancipazione della donna non abbia provocato un aumento della criminalità:
l’andamento della delittuosità femminile non sarebbe parallelo all’aumento del tasso
di attività lavorativa, dato che la percentuale delle donne lavoratrici condannate è in
costante diminuzione.
Il più largo accesso al mondo del lavoro non ha comportato una completa e paritaria
promozione sociale, quanto piuttosto un ulteriore gravo sulla donna che, oltre alle
tradizionali incombenze, deve gestire anche quelle lavorative all’interno di una
posizione immutata di marginalità e dipendenza.
Data la lieve natura dei danni, le donne e le ragazze che delinquono,
costituiscono, contrariamente ai corrispettivi maschi, un’entità ben più semplice
e minore per la polizia, i tribunali e per il sistema penale: fenomeno, che si traduce
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Con il termine “chivarly” si vuole indicare l’atteggiamento discriminatorio tenuto talvolta nei
confronti della donna dall’autorità giudiziaria Ad esempio la “common low” inglese presumeva, fino al
1925, che una donna, che avesse commesso un reato grave (escluso l’omicidio e il tradimento) in
presenza del coniuge, fosse stata spinta da quest’ultimo e quindi avesse diritto all’assoluzione.
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a sua volta nel cosiddetto numero oscuro, cioè una scarsa quantità di supporti
ufficiali.
Gatti e al. (1994) hanno riscontrato come ad eccezione delle prostitute, sembra che la
maggior parte delle donne incriminate che compaiono in tribunale, siano “first
offenders”, cioè incensurate, e a livello prognostico più dissuadibili dal compiere
ulteriori reati.
Sono state fornite diverse spiegazioni rispetto a questo fenomeno:
i reati più frequentemente commessi dalle donne (furti nei supermercati e
quelli delle collaboratrici domestiche vengono di rado denunciati, mentre il
taccheggio (altro reato frequentemente commesso dalle donne) è sempre
denunciato ma gli autori non vengono identificati;
in caso di concorso, cooperazione o istigazione al delitto, la partecipazione
della donna sarebbe mascherata dal ruolo più nascosto, oltre che
dall’atteggiamento di omertà e protezione dell’uomo che agisce
delittuosamente.
Nel passato, la scarsa presenza di donne delinquenti era un dato di fatto che non
suscitava particolare interesse, così come le ricerche empiriche su soggetti che
avevano commesso reati, erano orientate alla spiegazione e all’analisi della sola
criminalità maschile.
La posizione subordinata in cui viveva la donna, la presunzione di una sua inferiorità
biologica e intellettuale, portava infatti a ritenere il sesso femminile come
naturalmente incapace di condotte autonome e responsabili.
E’ ragionevole supporre che l’inferiorità statistica della criminalità femminile
venisse interpretata come la conseguenza logica di alcune caratteristiche
bio-psichiche quali debolezza, scarsa coscienza e incapacità di scelta, o in rari casi
attribuita alla presenza di una qualche patologia, ad un’alterazione della personalità
o a una tendenza mascolina.
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Un esempio è dato dall’ adulterio,pratica concepita tendenzialmente a”misura d’uomo”, ma
considerata reato, in Italia, solo se commesso dalla moglie.
Fu abolito dal Codice penale nel 1970.
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Una conseguenza importante di tale povertà di sviluppo è data dall’assenza di
un’analisi critica e di una sostanziale evoluzione concettuale, rispetto ai concetti
fondanti acquisiti dagli studi classici.
1.2 La criminalità femminile come esito delle differenze
tra sessi: le teorie classiche
L’aumento della criminalità femminile (i reati più frequenti erano il furto
domestico e l’infanticidio), verificatasi dagli inizi del XIX secolo condusse la
corrente positivista ad analizzare con urgenza questo fenomeno: il termine
“criminologia femminile” è comparso infatti per la prima volta, con la scuola
positiva, ad opera di Lombroso.
Bonifazi e Giambra (2003) spiegano come la criminalità femminile veniva attribuita
al troppo sacrificio della donna appartenente alla classe lavoratrice, oppure al suo
sviluppo fisico incompleto (il corpo della donna sarebbe a metà fra quello dell’uomo
e del bambino).
Inoltre sono state fornite diverse spiegazioni teoriche sulla differenza qualitativa e
quantitativa della criminalità femminile rispetto a quella maschile:
da un punto di vista biologico un elevato livello di testosterone potrebbe essere
correlato ad un aumento dell’aggressività, per cui gli uomini commetterebbero
reati più violenti ed efferati rispetto a quelli femminili, mentre nelle donne un
aumento di aggressività potrebbe essere dovuto a cambiamenti di livello ormonale
in alcuni cicli o subito dopo il parto
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;
secondo la corrente evoluzionista particolari tipologie di crimini commessi dalle
donne, quali figlicidio e maltrattamento infantile, sarebbero conseguenze di una
sorta di selezione, operata dalla genitrice che elimina i figli malati, con handicap
etc, preservando dalla morte gli altri;
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Psicosi puerperale: particolare condizione ormonale che provoca uno stato di dissociazione, tale da
rendere il passaggio all’atto criminoso statisticamente più probabile.
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le teorie sociologiche riscontrano nella diversità tra i due sessi la posizione di
“privilegio” che le donne hanno, non per loro volere, nell’ambito della
criminalità ufficiale ed evidenziano non tanto una reale minore tendenza del
sesso femminile a trasgredire, ma i modi e i perché non si registri un esiguo
numero di comportamenti devianti connessi alle donne.
1.2.1 Lombroso e Ferrero
I primi e più significativi studi sulla criminalità femminile sono quelli di Lombroso e
Ferrero (1895), i quali possono essere definiti classici poiché costituirono
sostanzialmente la genesi degli studi nel campo dei rapporti tra donna e crimine.
Lombroso, considerato il padre fondatore della scuola biologico-positivista in
criminologia, basò le sue teorie su due premesse principali: in primo luogo, la fiducia
nella superiorità e la neutralità del lavoro scientifico; in secondo luogo sulla
convinzione che il carattere della natura umana sia predeterminato.
Lombroso e Ferrero pubblicarono nel 1985, un saggio intitolato “La donna
criminale”, nel quale affrontavano il tema della criminalità femminile, in riferimento
a due concetti fondanti:
Atavismo: concetto basato sull’attribuzione di responsabilità, nella
commissione di eventi devianti o criminali, ad una ipotetica regressione
biologica del soggetto reo, ad uno stadio evolutivo precedente dello sviluppo
umano.
Darwinismo sociale: in base al quale soggetti e gruppi sociali potessero
sviluppare caratteristiche psichiche e fisiche tali da permettere loro sia
l’assunzione, sia il miglioramento dei ruoli sociali predeterminati. Nel caso
delle prostitute, ad esempio, la causa era attribuita all’esistenza di una
specifica evoluzione che forniva loro bellezza e attrazione sessuale.
I due autori tracciarono inizialmente le caratteristiche della criminalità femminile
basandosi sulle conoscenze teorico-pratiche riferite agli studi sulla popolazione
maschile, in cui si utilizzavano variabili fisiche, quali ad esempio protuberanze
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ossee o dimensioni del cranio, come indicatori di predisposizione alla devianza
e alla criminalità.
Essi concepirono quindi la donna congenitamente meno incline dell’uomo a compiere
reati, cosicché tanto il vero tipo criminale, quanto le criminali occasionali furono
considerati rari tra le donne.
Lombroso afferma che le donne criminali compensano la loro relativa inferiorità
numerica con “l’eccezionale abiezione e crudeltà dei loro crimini”; delineando un
quadro in cui le caratteristiche predominanti erano:
Tutte le caratteristiche del maschio criminale;
Astuzia, rancore e falsità ingannatrice;
Innaturale combinazione fra i due sessi;
Totale mancanza di istinto materno;
Costituzione genetica più simile a quella maschile.
All’interno di questo paradigma, gli individui devianti non vengono mai
configurati come una criticità propria della società, o rappresentanti di una
sottocultura, bensì trattati in quanto biologicamente anomali, come soggetti da
curare o da estromettere dalla società; ne consegue che vi sia una manifesta
distanza attribuita agli individui criminali o devianti, da parte dei “normali” membri
della società stessa.
1.2.2 W.I Thomas e la tradizione liberale
Gli studi di Thomas (Sesso e Società, 1907) segnano lo sviluppo di una tradizione
liberale in criminologia, fondata sull’ “individualizzazione dei problemi sociali” e su
metodi di cura e trattamento individuali.
Gli individui colpevoli di reato sono considerati all’interno di questo
filone come dei disadattati ai valori della società che rappresenta i loro
stessi interessi, piuttosto che come persone congenitamente cattive o coscientemente
nemiche dei valori dominanti nella società, così come affermato dalle
teorie classiche.
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Per ciò che concerne la criminalità femminile, Thomas nel suo testo “La ragazza
disadattata” (1967), in un ottica biologico-determinista, affiancava i concetti di
mascolinità e femminilità rispettivamente con i quelli di catabolismo e anabolismo,
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per spiegare i differenti comportamenti sociali dei due sessi.
Successivamente Thomas abbandonò le tesi classiche per dare luogo ad una
notevole riflessione sul ruolo dei fattori ambientali nella modificazione delle
variabili innate, assumendo che la fonte della criminalità femminile, di ordine
prevalentemente sessuale, sarebbe il risultato del declino delle tradizionali restrizioni
usate nei confronti delle donne.
Ponendo la sua attenzione sui desideri umani di base, quali il desiderio
di compiere nuove esperienze, di sicurezza, di riconoscimento, che corrispondevano
a livello biologico del sistema nervoso, a sensazioni quali l’ira, la paura, l’amore
etc., giunse alla conclusione che gli istinti biologici sarebbero differenti, sia
quantitativamente sia qualitativamente, a seconda del sesso.
La donna, ad esempio, poteva provare più tipologie di amore, e in particolare,
era capace di possedere l’istinto materno non solo nei confronti dei propri
figli, ma anche nei riguardi di altre persone significative.
Proprio questa caratteristica costituiva per l’autore la base della criminalità
femminile, soprattutto in quei casi di reati sessuali in cui si manifestava
concretamente il bisogno “femminile” di dare e sentire amore, in alcuni casi
frustrato, molto più intenso di quello maschile.
Tale teoria rappresenta, in conclusione, un tentativo di accostamento tra diverse
variabili, biologiche-innate e sociali-apprese, il cui frutto è un’interazione dinamica
fra elementi socialmente condivisi.
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Il termine catabolismo indica il processo attraverso cui una determinata quantità di energia viene
distrutta, al contrario il termine anabolismo indica il processo attraverso cui una determinata quantità
di energia viene accumulata.
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1.2.3 Otto Polak e l’indirizzo socio-psicologico e psicoanalitico
Otto Polak evidenzia nell’esposizione della sua teoria (La criminalità della donna,
1961) la crescente influenza e interdisciplinarietà fra sociologia, psicologia,
psicoanalisi e criminologia.
Egli non si riferisce esclusivamente alla spiegazione biologica come nell’analisi
di Lombroso e Ferrero, ma piuttosto come Thomas riconosce ai fattori sociali
una grossa fetta dell’intero fenomeno.
L’interesse maggiore del suo studio verte sul carattere “mascherato” del
comportamento criminoso femminile: secondo l’autore le donne avrebbero una
natura “biologicamente ingannevole” che permetterebbe loro di presiedere
all’interno delle grandi organizzazioni criminali fungendo da istigatrici, veri e propri
cervelli, capaci di indirizzare l’operatività degli esecutori materiali di sesso
maschile, nel compiere i crimini.
Un ulteriore fattore proposto da Pollak a carico della qualità occulta della criminalità
femminile è riscontrabile nel ruolo assunto dalle donne nel rapporto sessuale,
dove esse possono scoprire e acquisire fiducia nella possibilità di ingannare gli
uomini sotto ogni aspetto, principalmente grazie alla loro abilità nel nascondere la
mancanza di eccitazione.
L’importanza di tali differenze fisiologiche si tradurrebbe nel “senso di cavalleria”
maschile nei confronti delle donne che li porterebbe a essere ingannati
volontariamente, per espiare il fatto di averle trattate nello scorrere dei tempi come
esseri docili e bisognosi di protezione, e per averle relegate a una condizione ingiusta
nell’ambito della società, poiché ne temevano la ribellione.
L’autore assume quindi l’esistenza di una funzione passiva nell’attività sessuale
come base assertiva dell’atteggiamento ambiguo femminile, ma trascura l’importanza
dello squilibrio di potere esistente tra uomo e donna, così come le diverse aspettative
culturali circa l’accettabilità del comportamento in campo sessuale.