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E in quanto sollecitatrice dello spirito è anche luogo nel quale,
meglio che altrove, si evidenziano tutte le particolarità culturali e storiche
dell’uomo, di “quell’uomo” che muore o che si prepara a morire.
E’ significativo che in un periodo storico, come quello
contemporaneo, nel quale la morte appare quasi come scandalo di
inefficienza e fallimento di fronte ai progressi innegabili delle scienze, si
propongano diversi studi sul cerimoniale riguardante la morte sia in chiave
sociale che culturale e antropologica. Esempio importante sono gli studi di
Ariès e Vovelle, ampiamente citati in questo lavoro, che hanno proposto
questo particolare angolo di osservazione come prospettiva privilegiata per
l’analisi del quotidiano storico. Ma tale prospettiva, proprio per la sua
ampiezza e il suo tentativo di esaustività, rischia di appiattire le differenze
e le peculiarità proprie di ciascuna cultura locale, ricchezza innegabile di
ogni patrimonio storico. In effetti, parafrasando la citazione precedente,
non si può fare un discorso sulla morte a prescindere dagli uomini che la
morte hanno vissuto, come evento della loro esistenza, che ad essa si sono
preparati immersi nel magmatico insieme di fede, cultura, tradizioni e
superstizioni che ogni evento decisivo ha in sé.
Il percorso tracciato da Ariès e Vovelle proponeva un itinerario
cronologico che da un angolo visuale molto ampio focalizzasse lo sguardo
dell’osservatore sul particolare della cultura locale, trovandovi coerenza
con il generale e con la norma diffusamente accettata. Quasi uno sguardo
gettato dall’alto verso un panorama uniforme le cui particolarità, messe a
fuoco di volta in volta, ribadissero la sua coerenza di fondo. Ovviamente
8
un tale criterio di osservazione parte dalla convinzione, ampiamente
giustificata dall’antropologia culturale e dalla sociologia, che una cultura
condivisa porti gli uomini, nella singolarità della propria esperienza, ad
atteggiamenti e pensieri simili di fronte alle grandi scelte della propria
esistenza. Ma poiché il particolare locale sfugge necessariamente da un
simile studio e tuttavia ne è la base ineliminabile, tutte le diverse
sfumature che esso apporta in una ricerca siffatta rischiano di diventare
ombra, scarsamente valorizzate se non cancellate. La conseguenza di tale
ragionamento sarebbe che la storiografia contemporanea, quella, almeno,
indicata da Annales, dovrebbe essere la somma di tutte le storiografie
locali nelle quali, l’indagine non si fermi al fenomeno del passato ma parta
dall’osservazione delle strutture culturali presenti che in quel passato
hanno le proprie radici e i propri motivi.
Il percorso di studio proposto in questo lavoro, proprio per il fatto di
partire da un angolo d’osservazione molto ristretto, permette di analizzare
il tema a partire dal particolare, per trovare in esso una giustificazione
generale che lo renda coerente con una filosofia condivisa sia dalla massa
della popolazione che dalle élites della società. Infatti Castelvetrano,
piccolo centro della provincia di Trapani, presenta tra il 1500 e il 1700 un
periodo di grande e promettente fervore culturale, inserito, attraverso la
famiglia signorile dominante, in un circuito che lo legava alla corona
spagnola e, quindi, alla storia e alla cultura dell’Europa dei grandi. Inoltre
la scarsa mobilità del tessuto sociale, i mutamenti lentamente assimilati
dalle strutture societarie, la stessa posizione geografica decisamente
defilata rispetto alle grandi vie di comunicazione che in quel periodo si
9
spostano verso l’Atlantico, facendo del Mediterraneo la periferia della
terra, permettono di leggere in trasparenza tutta la crisi di un mondo che
cambiava e che cercava di rimanere simile a sé stesso il più a lungo
possibile.
Forse tale prologo mi porta a voler giustificare il particolare angolo
di osservazione da me scelto in questo lavoro, seppure il semplice amore
per la storia dimenticata di un angolo di Sicilia basterebbe a giustificarlo.
In realtà, in questi ultimi anni, dopo una colpevole dimenticanza durata
secoli, pare risvegliarsi tra la cittadinanza colta di Castelvetrano l’interesse
per le proprie radici storiche, ancora vive tra le pietre dei palazzi lasciati
cadere in rovina.
La ricerca storica è, a volte, come un armadio dalle cui ante possono
venir fuori “scheletri dimenticati”. Lo sanno bene i miei concittadini che
per decenni hanno cercato di dimenticare che la cittadina ha dato i natali a
Giovanni Gentile, quando la situazione politica non permetteva di essere
orgogliosi di un simile privilegio; o anche quando un assessorato ai beni
culturali incompetente e sonnacchioso ha permesso che le spoglie di don
Carlo d’Aragona venissero poste tra i calcinacci da muratori ignoranti
durante un restauro grossolano. Si deve a poche persone sensibili il
recupero di lontane memorie di cui, adesso, sembra che tutti vadano fieri.
Questo dimostra che non esiste disciplina totalmente incolpevole o
totalmente libera, e che ogni studio è figlio del suo tempo.
Sicuramente l’esistenza, a Castelvetrano, della tomba di don Carlo d’Aragona
“Principe di Castelvetrano, Duca di Terranuova, Marchese d’Avola, Conte di
Burgeto, grande Ammiraglio e Gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e
10
Capitano Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia”
2
è stata uno dei motivi principali
che mi hanno spinto a intraprendere una ricerca di tal natura. Questo notevole
personaggio, vissuto in un periodo di grandi trasformazioni per la storia europea,
rappresentava, per me, un importante punto di raccordo tra il particolare locale e il
generale storico, collegando la storia di Castelvetrano con quella della corona di
Spagna, durante un periodo storico travagliato e denso di importanti conseguenze per
la storia dell’Europa e della civiltà Occidentale. Anche la Sicilia, seppure in una
forma mitigata dal profondo attaccamento della sua gente per le tradizioni, viveva un
importante periodo di fermenti che, purtroppo, non avrebbero dato origine ad alcuna
forma originale e permanente di mutamento sociale.
Il Concilio di Trento, il cui svolgimento storicamente si pone tra l’inizio
dell’ascesa della famiglia aristocratica castelvetranese dei Tagliavia e la fine della
residenza stabile della famiglia Aragona nel paese, dopo l’imperversare della peste
del 1624, rappresenta un riferimento importante per comprendere il mutare, seppur
lento, degli atteggiamenti sociali e religiosi nei confronti della morte. Inoltre, proprio
il 1624 è l’anno del ritrovamento, sul Monte Pellegrino di Palermo, dei resti di Santa
Rosalia e del “lancio” del suo culto, ispirato, come testimonia bene Sara Cabibbo
3
, da
nuove strategie attuate dal Cardinale Doria, Arcivescovo di Palermo, che da quel
culto parte per una rivisitazione, in chiave tridentina, del concetto di santità, prima
legato al martirologio e adesso largamente ispirato dall’appartenenza agli ordini
religiosi a cui l’ideologia conciliare ha affidato la “riconquista” cattolica. Nello stesso
anno, durante l’imperversare dell’epidemia di peste, a Castelvetrano muore un erede
di don Carlo, don Giovanni III d’Aragona, il quale chiede, con disposizione
testamentaria, di essere seppellito nella chiesa del convento dei Cappuccini, ordine
religioso importantissimo nelle strategie di “rievangelizzazione” delle masse popolari
disorientate in area tedesca e altrove dalla Riforma luterana.
2
A. Manzoni, I promessi Sposi, Sansoni Editore, Firenze, 1964, p.12.
3
Cfr. Sara Cabibbo, Santa Rosali tra terra e cielo, Sellerio Editore, Palermo,2004.
11
I fili che legano Castelvetrano alla coeva cultura europea, quindi, non sono né
sottili né inconsistenti, poiché la sua storia può, a ragione, inserirsi pienamente nella
storia della Spagna al suo apogeo di potenza e di influenza politica e culturale.
Come si può vedere, dunque, sono fondate le motivazioni che mi hanno spinto
ad intraprendere questa indagine storica a partire da una prospettiva, quella della
morte, che ogni siciliano porta come bagaglio personale e sociale, nel suo vissuto
culturale. Infatti, probabilmente perché fino a pochi decenni fa la Sicilia lamentava
ancora un’alta mortalità dovuta all’arretratezza delle sue strutture sanitarie, il senso
della precarietà della vita e la secolare rassegnazione popolare all’evento luttuoso
come evento della quotidianità, hanno scavato nell’animo di ogni siciliano un
atteggiamento quasi “islamico” nei confronti della morte. Essa è rimasta un evento
pubblico, seppure adesso, la generale tendenza alla privatizzazione del dolore e
all’emarginazione della morte e dell’agonia dall’esperienza quotidiana, stiano
lentamente cambiando certe strutture di pensiero. La Sicilia è ancora l’ultimo angolo
d’Italia in cui il 2 novembre è, per i bambini, un giorno di festa, in cui si ricevono
doni e ci si mette l’abito buono per andare al cimitero.
Ma al di là di tutte le sollecitazioni personali e sociali la ricerca si è avvalsa di
una mole importante di documenti e monumenti che in questi ultimi tempi stanno
vivendo una rivalutazione per merito di alcuni sensibili uomini di cultura di
Castelvetrano come il Dott. Aurelio Giardina e il Prof. Gianni Diecidue, che con
pazienza certosina hanno rispolverato antichi manoscritti, oppure il Sig. Vincenzo
Napoli che ha un ricchissimo archivio di foto dal quale, per sua concessione, ho
ricavato quelle che arricchiscono in appendice il presente lavoro.
Ma documenti fondamentali sono stati le testimonianze monumentali e i
documenti manoscritti. A partire dalla chiesa di San Domenico, per decenni
abbandonata all’offesa del tempo, nella quale si trova il sarcofago con le spoglie di
don Carlo, fino ad arrivare alla mole architettonica che in quell’arco di due secoli ha
arricchito le strade e le piazze del paese per espressa volontà dei signori e dei notabili
di Castelvetrano. Tra i manoscritti, i più importanti utilizzati in questo lavoro sono
12
stati: la relazione del canonico Noto, segretario del duca di Terranova, al suo signore
che gli chiedeva notizia dei possedimenti che gli erano pervenuti in eredità, nel 1732;
il “diario” tenuto dal notaio Vincenzo Graffeo durante l’epidemia di peste nel paese e
inoltre i testamenti di alcuni dei protagonisti della storia. Infine, coerentemente con il
mio personale patrimonio culturale, ho voluto terminare il lavoro con le
testimonianze orali di una cultura popolare che comincia a sparire, patrimonio delle
passate generazioni a cui le nuove guardano con indifferenza. La trasmissione orale
di usi e superstizioni legate alla morte è resa possibile dalla sopravvivenza di un
mondo “magico” che solo il potere della televisione ha strappato dalla emarginazione
in cui è vissuto fino alla Seconda Guerra Mondiale. La Sicilia, per secoli periferia
della civiltà occidentale, preda di trafficanti della politica, pozzo senza fondo di
sussidi economici volatilizzatisi misteriosamente, ha vissuto, a livello popolare, in
una nicchia oscura che ha salvaguardato un certo tipo di cultura (o subcultura). Le
nuove generazioni, prive di questo patrimonio, rischiano di perdere i contatti con le
proprie radici nell’omologazione prodotta dai vari reality show della tv spazzatura.
Lungi da me il desiderio di una reviviscenza di quell’armamentario di superstizioni
frutto di altre esperienze e di emarginazione, ma la conoscenza di quel mondo ormai
sparito potrebbe ispirare una rielaborazione degli atteggiamenti contemporanei verso
la malattia e la morte.
Come sostiene Cecilia Costa:
Il malessere della cultura contemporanea è, in parte, il prodotto della crisi di una libertà
svuotata di contenuti ideali: l’autonomia raggiunta dall’ “attore sociale” reca in sé un
disorientamento che trae origine dalla perdita della “nozione di transitorietà della vita”; il dibattito
in corso sulla “dolce morte” è una sintesi di tendenze etico-psicologiche moderne, alimentate
peraltro da un desiderio –provocato dall’incrociarsi di scienza e ragione- di ottenere a tutti i costi “il
controllo della propria vita al momento stabilito, anzichè essere soggetti ai capricci della malattia e
di una lunga agonia”.
4
4
C. Costa, L’individuo la morte e la malattia, op. cit., p.89.
13
Ma questo desiderio di controllo dei meccanismi della vita, ci priva, in
definitiva, del controllo sui meccanismi psicologici della morte, in quanto non ci
permette di essere pronti all’evento se non con un senso profondo di angoscia.
Indubbiamente i nostri antenati avevano un orizzonte di fede religiosa universalmente
condiviso che permetteva loro di avvicinarsi all’evento definitivo con parziale
serenità, inquadrandolo nell’ambito di un Progetto divino del quale ogni singolo
essere faceva parte. La tomba diveniva parte di un momento della storia
dell’individuo, e non la parte definitiva, ma il luogo dell’attesa, del riposo fiducioso,
dell’eternarsi della memoria, il legame tra il mondo dei vivi e quello delle anime
purganti che ai vivi chiedevano ancora affetto e preghiere. Prepararsi, quindi,
all’evento della propria fine terrena, rappresentava per loro una chiusura parziale dei
conti con il biblico “Dio dei viventi”, in attesa dell’evento finale, del giudizio alla
fine dei tempi, quando la solidarietà degli eredi verso gli antenati avrebbe dato i suoi
frutti. Allora, nella tomba, avrebbe brillato la luce della resurrezione, nella cui fede
tutti quegli uomini si sono addormentati.
14
CAPITOLO I
Castelvetrano e le sue terre
Per la filosofia marxista le sovrastrutture culturali sono determinate dalle
strutture sociali, prima tra tutte quella economica. Seppure non sia d’accordo con tale
posizione, è innegabile che le contingenze economiche di un’epoca, insieme ad
infiniti altri fattori, non ultimo la creatività adattiva dell’uomo, possono avere delle
influenze sul modo di percepire il mondo e sé stessi. Per questo motivo, per
comprendere una società, bisogna gettare lo sguardo sul suo sistema di
sopravvivenza, sui rapporti di potere, sulle strategie di scambio di beni e di cultura.
1.1 L’economia siciliana del Cinquecento
Già a partire dalla seconda metà del Quattrocento in tutta Europa si assiste ad
una sicura e continua crescita demografica causata da una serie di fattori, non ultimo
dei quali l’attenuarsi della violenza delle epidemie che fino a pochi decenni prima
avevano falcidiato con la loro virulenza le popolazioni europee. Era stata proprio
quella diminuzione della popolazione a garantire una maggiore quantità di terreno
sfruttabile pro capite e quindi una migliore e più sufficiente alimentazione per i
sopravvissuti, garantendo così una migliore qualità di vita e l’aumento della natalità
conseguente ad una diminuzione di rischio alla nascita.
Si afferma una tendenza che già da un paio di secoli era in netta crescita: una
crescente urbanizzazione e una maggiore densità abitativa che si mostra
15
maggiormente evidente nelle grandi città europee: Londra passa da 60.000 a 170.000
abitanti, Parigi da 100.000 a 200.000, Lisbona da 50.000 a 120.000.
5
Diversa era la situazione della Sicilia, periferia di un mondo che cominciava a
spostare il centro dei propri interessi economici verso altri mari e verso altre terre. La
mancanza dei traffici commerciali causata sia dalla scoperta di nuove vie per lo
sfruttamento delle risorse, sia dalla presenza nel Mediterraneo delle navi musulmane,
aveva impedito la ripresa economica spingendo i contadini ad abbandonare le
campagne e trasferirsi nelle città coerentemente con la tendenza europea.
“Se la Sicilia dopo la morte di Alfonso il Magnanimo, avvenuta nel 1458, durante il regno
del successore Giovanni II già duca di Penafjel, che cercò di apparire come il reintegratore
dell’ordine e dell’onestà amministrativa, quanto il fratello aveva creato disordine ed autorizzato
brogli, sperò di sollevarsi dal grave stato di prostrazione economica in cui era precipitata durante il
quarantennio nel quale la politica fiscale alfonsina aveva disintegrato lo Stato, vendendo e
rivendendo tra l’altro le Universitates e rendendo ordinaria la finanza straordinaria che soprattutto
non aveva mai tenuto conto dell’effettiva capacità contributiva dell’isola, assorbendo capitali vistosi
e ponendo le premesse dei fallimenti a catena dei banchieri privati, in realtà la necessità di disporre
di mezzi finanziari congrui per la repressione della rivolta scoppiata in Catalogna, costrinse il nuovo
re a continuare ad esercitare sull’isola una notevole pressione tributaria.
Né la situazione subì modifiche sostanziali nei decenni successivi allorché, in particolare,
Carlo V, a partire dal 1518 introdusse “tali e tante serie di richieste straordinarie da superare di gran
lunga quelle del suo antenato Alfonso. E queste richieste straordinarie- ha sottolineato il Garufi- si
facevano proprio nel momento in cui, dopo la caduta di Costantinopoli, […] da parecchi anni le
nostre navi- ha rilevato il Garufi- avevano perduto le rotte per gli antichi scali di commercio col
Levante che facevano capo ai grandi empori di Messina e di Trapani, tagliavano fuori, dopo la
scoperta del nuovo mondo, dalle vie che s’erano già aperte agli scambi con l’Europa di nuovi
prodotti e di grandi ricchezze”.[…] Tra donativi ordinari e straordinari durante il quarantennio di
regno di Carlo V (1517-1556) la Sicilia sborsò l’ingente somma di oltre undici milioni di fiorini
aragonesi con gravi ripercussioni negative sul suo sviluppo sociale ed economico.”
6
In un’economia così provata qualsiasi momento di crisi, come una carestia o
una siccità, può avere pesanti ripercussioni. Infatti a questa situazione già piuttosto
problematica si aggiunge che una importante risorsa economica che derivava dalla
produzione dello zucchero venne a ridursi drasticamente. Infatti:
5
Cfr. R. Salvalaggio, Storia, 2, Dall’età moderna alle rivoluzioni borghesi, PM, Mondadori Scuola, Milano, 1999, pp.
14-15 – Altre stime sono date da M. R. Reinhard – D. Armengeaud – J. Dupuquier, storia della popolazione mondiale,
Laterza, Bari, pp. 165-171 e da M Novelle, La morte e l’Occidente, Laterza, Bari, 1993, pp. 138-145.
6
R. Giuffrida, La Sicilia del Cinquecento, in Atti del congresso di Mazara del Vallo raccolti a cura di G.
Di Stefano, Istituto di Storia del Vallo di Mazara, Trapani, 1989, pag. 91-93.
16
nella seconda metà del quattrocento l’industria dello zucchero siciliano subì una recessione a
causa di una siccità che colpì i luoghi di produzione tradizionali situati alla periferia di Palermo.
[…] La siccità cui si era accennato non ebbe carattere transitorio. Si protrasse infatti per oltre un
ventennio tra il 1491 e il 1515. […] Il travaglio che afflisse in quegli anni l’economia agricola
siciliana emerge in maniera incontrovertibile dalle numerosissime richieste di moratorie e dilazioni
giustificate con la “sterilitati di lu tempo” e per la “pexima staxioni” che causò il fallimento di vari
mercanti.
7
Approfittando di tanta fame di denaro, necessario per investimenti come per le
piccole spese, dilaga sull’isola la piaga della moneta falsa: “in Sicilia infatti venivano
introdotti aquile e piccoli falsificati in Calabria in tale quantità che su ogni 10 monete
9 erano false. Una situazione del genere determinò la necessità di ben tre riforme
monetarie, quella del 1490, quella del 1513 e quella del 1531.”
8
Un’economia, dunque in grave recessione che determina il fallimento di
numerosi banchieri dell’Isola, e quindi causa la sparizione di una promettente
borghesia capitalistica di origine non nobiliare che avrebbe potuto riservare alla
Sicilia, forse, ben diversi capitoli di storia. Inoltre
parecchi mercanti amalfitani, pisani, lucchesi, veneti, abbandonarono l’isola: Vi rimarranno
soprattutto mercanti-bancari genovesi che dall’epoca di Filippo II a quella di Filippo IV metteranno
in moto un meccanismo di drenaggio finanziario che contribuirà a scardinare le strutture dello Stato
siciliano ponendo le premesse di un nuovo processo di rifeudalizzazione dell’isola.[…] Va però
detto che nonostante la crisi cui si è accennato le fonti fanno fede di un incremento demografico
generale. […] Tale incremento demografico, accertato anche da una sistematica serie di indagini
documentarie effettuate da Maurice Aymard, sembra tuttavia arrestarsi intorno agli anni 1570-83
epoca in cui avrà inizio la grande ondata di fondazioni feudali di nuovi centri rurali, concentrata
soprattutto nella Sicilia Occidentale.
9
Ia situazione di profonda crisi che travaglia la Sicilia tra il XV e il XVI secolo
è resa evidente dalla recrudescenza del brigantaggio, ultima spiaggia delle
popolazioni maschili contadine che, costrette alla fame dalla rifeudalizzazione di cui
7
Ibidem, pag. 93-94.
8
Ibidem, pag. 95.
9
Ibidem, p. 96-97.
17
sopra si è parlato, e impoverite ulteriormente dal disboscamento selvaggio che
privava le famiglie di tutta una serie di piccoli prodotti di raccolta per l’uso
domestico o la piccola vendita, impossibilitate a far fronte ai debiti contratti, si
davano alla macchia vivendo di rapine e furti di bestiame.
10
“Il 19 luglio 1497 Juan
del la Nuza avendo avuto notizia “che continuamente si commettevano varii e diversi
furti e latrocinii di bestiame” commina gravi pene a carico delle persone che lo
acquistano senza la prescritta certificazione.”
11
Come sempre si cercò di risolvere il
problema ricorrendo alla repressione senza tentare non solo di risolvere le cause di
tale manifestazione di malessere generalizzato ma neppure di comprenderne le
motivazioni. L’istituzione di forze armate deputate al controllo non risorse il
problema che rimase sempre presente e strisciante nell’isola per secoli, educando
all’illegalità generazioni di diseredati.
Altro sintomo della crisi è il venire alla ribalta di una serie di nuove nobiltà
sostenute dal potere del denaro, in sostituzione delle antiche casate nobiliari in
difficoltà economica.
E’ l’epoca in cui “la vecchia aristocrazia orgogliosa delle sue origini (vere o supposte) o più
spesso aragonesi, viene rinnovata dall’ascesa” dei parvenus i quali, per lo più di estrazione
mercantile, attraverso la concentrazione delle successioni s’inseriscono tra il 1550 sino al 1600 nei
primi ranghi nobiliari, e, pur tra pressanti dificoltà, riescono ad acquistare una sempre magiore forza
politico-economica. Come i Giardina, i Di Napoli, i Branciforti, i Tagliavia-Aragona il cui porcesso
di ascensione signorile, ricostruito in maniera puntuale da Maurice Aymard, è caratterizzato tra il
1500 e il 1530 dalla tendenza ad opporsi al processo di polverizzazione cui aveva dato l’abbrivo,
soprattutto sotto Alfonso il Magnanimo, la trasformazione del feudo in allodio che ora viene
trasmesso all’erede universale sub vinculo consentendo alla nobiltà “de resister – dice l’Aymard – à
l’èrosion”.
12
10
Ibidem, pp.95-97.
11
Ibidem, p.96.
12
Ibidem, p. 97.