8
proprium di un singolo autore non si stabilisce in maniera “isolata”, ma in dialogo
costante con i “modelli” letterari greci, o prîtoi eØreta… ( letter. “primi inventori” ),
non solo da imitare meccanicamente, ma da emulare eguagliandone il valore nella
letteratura latina: è la poetica della imitatio-aemulatio propugnata da Quintiliano
nell’Institutio oratoria.
In età classica e augustea la lingua latina scritta, sia in prosa che in versi,
prosegue sulla stessa linea intrapresa col sorgere della letteratura romana: sotto
l’influsso sempre più intenso del greco infatti , la lingua è sottoposta, sia nella teoria
che nella pratica, sempre più rigidamente a forme fisse grammaticali, stilistiche e
metriche: “Il classicismo della letteratura romana è il prodotto dell’intimo legame di
essa con la letteratura ellenica”, scrive a tal proposito Norden
2
; in tal modo la lingua
colta si allontana sempre più da quella popolare. D’altra parte però, soprattutto alla
lingua classica della prosa di Cicerone e Cesare inerisce un esplicito purismo, che si
manifesta particolarmente nella scelta delle parole: non a torto Quintiliano paragonò
gli intenti di questi scrittori a quelli degli atticisti, che si erano imposti di rinnovare la
lingua attica nella sua antica purezza
3
; e ricorda la loro “pedanteria” il famoso detto di
Cesare, citato da Gellio, che si dovrebbe evitare come uno scoglio ogni parola insolita
e nuova
4
. Una simmetria scrupolosa sia nell’ordine delle parole che nella struttura del
periodo (concinnitas) e un ritmo artisticamente articolato, specie nelle clausole, sono,
accanto alla coscienziosa scelta delle parole, le due caratteristiche più spiccate del
latino ciceroniano, che rappresenta il culmine della prosa latina d’arte.
I poeti, massimamente quelli augustei, non si possono porre in toto nello stesso solco
di Cesare e Cicerone. Infatti, la rigorosa distinzione tra modo di esprimersi prosastico
e poetico è appunto una caratteristica spiccata del periodo della latinità classica. Ma
nel loro tentativo di elevare la lingua al di sopra della trascuratezza popolare, i poeti si
pongono sullo stesso piano dei prosatori. Questo fu già l’atteggiamento di Terenzio
ed Ennio, e ancora Lucrezio nel I sec. a.C. si lamenta spesso della patrii sermonis
egestas
5
; essi spianarono però la via alla grande stagione poetica del periodo
augusteo, il cui massimo rappresentante, secondo i grammatici romani, è Virgilio:
2
E. Norden, Die antike Kunstprosa, Darmstadt 1958, vol. I, p. 181.
3
Cfr. Quint., Inst. orat. VI,3,107.
4
Cfr. Gellio, Noct. Att. I,10,4.
5
Cfr. Lucr., De rer. nat. I,832; III,260.
9
seguendo il genere impiegato da Ennio (l’epica), egli creò una lingua poetica unitaria,
che divenne determinante per tutta la poesia latina ed anche per la prosa seguente
6
.
Ovidio è senza dubbio un caso interessante, che approfondisce non di poco il
quadro delle nostre conoscenze sulla lingua poetica dell’epoca augustea. E le
differenze con Virgilio, la cui eredità risulta comunque imprescindibile, chiariscono
ulteriormente i termini del problema: Virgilio è sempre rimasto fedele all’esametro
dattilico che, grazie alla sua versatilità, si è convenientemente prestato tanto al genere
bucolico quanto al genere epico; Ovidio invece è ricorso al distico elegiaco, come alla
sua naturale espressione
7
, sia per quanto concerne le descrizioni amorose degli
Amores, sia nella poesia didascalica dei Fasti (le Metamorfosi non costituiscono altro
che una eccezione apparente: in virtù del fatto che esse formano un insieme di
quadretti ad orientamento epico
8
, esse esigevano l’impiego del verso appropriato,
l’esametro “eroico”). Relativamente ai Fasti, una ragione supplementare avrebbe
peraltro indotto Ovidio a servirsi del distico: non era forse quest’ultimo il metro
adottato da Callimaco che, attraverso i suoi AÚtia aveva fornito, in un certo senso, un
modello formale al poeta latino? In questo senso, attraverso l’analisi linguistica,
emergerà l’importanza dell’opera ovidiana per la ricostruzione del contesto storico-
culturale in cui è inserita. Infine, nel privilegiare l’aspetto fonico e retorico del testo,
si è perseguita una precisa finalità: quella di far risaltare la musicalità dei versi, e
valorizzare il lavoro di cesellatura del significante, proprio di un linguaggio poetico
voluto e costruito come tale, quale è quello dei Fasti ovidiani.
6
Cfr. W.F.J. Knight, Virgilio romano, Milano 1949, cap. V, passim.
7
Cfr. Ov., Tr. IV,10,25 s.: “Spontaneamente un carme si formava nei metri appropriati, / e ciò che
tentavo di scrivere erano versi”.
8
Si pensi ad esempio alla “piccola Eneide” ovidiana del libro XIV, concepita a margine del testo
virgiliano, di cui colma alcune ellissi narrative sviluppando episodi funzionali al contesto.
10
PARTE PRIMA
OVIDIO E I FASTI
***
CAPITOLO I
IL MOMENTO STORICO E IL PANORAMA
LETTERARIO
11
I.1. Ovidio e la sua opera
Fra il 3 e l’8 d.C., concluso con i Remedia amoris e i Medicamina faciei
femineae il ciclo della sua produzione poetica d’argomento erotico, Ovidio affronta
per la prima volta il progetto ambizioso di un poema epico in esametri in quindici
libri, le Metamorfosi (Metamorphosĕon libri), e di un calendario in distici elegiaci, i
Fasti, che nel progetto originario doveva raccogliere in dodici libri, uno per ciascun
mese dell’anno, le leggende all’origine delle festività e dei riti romani, sul modello
degli AÚtia callimachei. Entrambe sono opere della maturità e nascono forse dal
desiderio vagheggiato fin dalla giovinezza di dedicarsi a soggetti più alti ed
impegnativi rispetto alla produzione precedente
9
. Il Conte vede nel suo
sperimentalismo, “che lo porterà a tentare i generi poetici più diversi senza
identificarsi in nessuno di essi”, la volontà di fare della pratica poetica “il centro della
propria esperienza”
10
. In effetti la scelta del genere dell’elegia erotica, dominante
nella produzione giovanile di Ovidio, non esclude altre esperienze poetiche
11
, come
invece accadeva per i suoi predecessori, Tibullo e Properzio, la cui pratica poetica era
vincolata ad una scelta di vita assoluta incentrata sull’amore (ciò si riflette nell’uso,
proprio dei poeti d’amore, del motivo topico della recusatio, della protestata
incapacità di trattare soggetti poetici di elevata dignità); lo sperimentalismo letterario
di Ovidio si accorda invece perfettamente con il relativismo della sua visione della
vita, ovvero con la tendenza ad analizzare la realtà nei suoi aspetti più diversi, senza
esclusioni: ciò spiega l’adesione convinta della sua poesia giovanile alle nuove forme
di vita agiate e raffinate della Roma pacificata dell’età augustea, ma non esclude
neppure, nelle opere impegnative della maturità, l’apertura ai valori della tradizione
proposti dal regime. Con Conte tuttavia si può anche affermare che l’amore fu “di
tutta la poesia ovidiana la fonte ispiratrice”
12
. Il tenerorum lusor amorum (“cantore
giocoso di teneri amori”)
13
, come lui stesso si definisce, continua in fondo ad essere
un poeta erotico anche nelle Metamorfosi e nei Fasti: certo non è più l’amore galante
9
Cfr. S. Mariotti, La carriera poetica di Ovidio, in “Belfagor”, XII, 1957, pp. 623-631.
10
G. B. Conte e E. Pianezzola, Storia e testi della letteratura latina, vol. 2, Firenze 1999, p. 674.
11
Cfr. Ov., Am. III,15.
12
G. B. Conte e E. Pianezzola, op. cit., p. 683.
13
Ov., Tr. III,3,73.
12
o capriccioso dell' Ars Amatoria o degli Amores ambientato nella vita quotidiana,
nella Roma della società mondana, ma è un sentimento ancora più travolgente e
totale, spesso eroico e commovente, che vive nell’universo del mito, nel mondo degli
dei e dei semidei, dei grandi eroi: si pensi ad esempio alla novella dell’amore infelice
di Piramo e Tisbe, o al commovente eros coniugale di Ceice e Alcione
14
.
Le fonti più importanti sulla vita di Publio Ovidio Nasone sono rappresentate
dalle sue stesse opere, in particolare dall’elegia IV,10 dei Tristia, una vera e propria
autobiografia in versi composta dopo la relegazione a Tomi (8 d.C.). Secondogenito
di una famiglia di rango equestre, nasce il 20 Marzo del 43 a.C.
15
a Sulmona, antica
città dei Peligni, popolazione autoctona dell’Italia pre-romana stanziata nell’attuale
Abruzzo. Intorno al 25 a.C. viene mandato dal padre a Roma insieme con il fratello,
nato esattamente un anno prima di lui, per studiare presso i migliori maestri di
retorica del tempo (Aurelio Fusco e Porcio Latrone)
16
, in vista della carriera forense e
politica: a Roma Ovidio attira subito su di sé l’attenzione dei maestri per la sua
grande facilità nel parlare e nello scrivere unita all’impegno profuso nello studio;
tuttavia mentre il fratello, che morirà a soli 20 anni con grande dolore del poeta,
sembra possedere una innata inclinazione per l’eloquenza, Ovidio invece fin
dall’infanzia mostra una indiscutibile vena poetica che, scoraggiato dal padre, cercò
14
Cfr. C. Gravini e M. Santinelli, Epos ed Eros. Antologia scolastica per la terza classe del liceo
scientifico, Firenze 1970, pp. 117-8.
15
In Ov., Tr. IV,10,6 si legge che era l’anno “in cui i due consoli caddero sotto i colpi di uno stesso
destino” (cum cecĭdit fato consul uterque pari): nel corso della guerra di Modena i due consoli, C.
Vibio Pansa e A. Hirtio, trovarono la morte nel 43 a.C.; subito dopo, in Tr. IV,10,13-14 precisa che
“dei cinque giorni di festa della bellicosa Minerva, è il primo che viene insanguinato dai
combattimenti” (haec est armiferae festis de quinque Minervae, / quae fieri pugna prima cruenta
solet): Ovidio è nato dunque il 20 Marzo, secondo giorno delle Quinquatrie, feste di Minerva, che
duravano cinque giorni dal 19 al 23 Marzo, due (il 19 e il 23) di festività sacre e tre (il 20, 21 e 22)
dedicati agli spettacoli gladiatorii (cfr. Fasti III,809 sgg.).
16
Pare che Ovidio trattasse più volentieri le suasoriae che le controuersiae: cfr. Seneca il Vecchio,
Controv. II,8-12, testimonianza capitale sull’educazione letteraria di Ovidio. Nella retorica tardo-
repubblicana e augustea le suasoriae erano delle declamazioni che riprendevano le vecchie “tesi” o
quaestiones infinitae, ovvero esercizi retorici su temi di carattere filosofico e morale: in esse
l’aspirante oratore doveva calarsi in una situazione storica o mitica e “persuadere” appunto (suadēre in
latino) un determinato personaggio a compiere o meno l’atto chiave della sua esistenza, sostenendo in
due distinti discorsi tutte le possibili argomentazioni a favore o meno di una presa di posizione; le
controuersiae erano invece declamazioni che riprendevano le vecchie “ipotesi” o quaestiones finitae o
causae, ovvero esercizi retorici su particolari casi giuridici, i quali erano attinti dalla concreta
esperienza dei tribunali coevi, ma anche da casi storici e immaginari: la prassi prevedeva che si
fissasse un principio giuridico e si esponesse brevemente un ipotetico quadro di avvenimenti,
dopodiché il declamatore doveva sostenere il rulo di uno o, più di frequente, di tutti i partecipanti al
processo immaginario.
13
di sopprimere ma invano, come lui stesso racconta: “mi sforzavo di scrivere in prosa,
ma tutto quello che scrivevo prima o poi veniva fuori in rima e quindi scrivevo in
versi”
17
. La sua formazione viene poi completata, come era consuetudine fra gli
esponenti della classe dirigente, con un soggiorno ad Atene. Rientrato a Roma
comincia il cursus honorum ma ben presto abbandona la carriera pubblica per
dedicarsi completamente all’attività letteraria, entrando a far parte del circolo poetico
di Marco Valerio Messalla Corvino
18
, cui aderì anche il poeta Tibullo. La critica ha
discusso a lungo sulla funzione del circolo di Messalla Corvino nell’ambito della
cultura augustea, e dei suoi rapporti con quello di Mecenate
19
, emanazione diretta
del principe e della sua ideologia, che accoglieva i maggiori letterati del tempo
(Virgilio, Orazio, Properzio): a quanti non vedono sostanziali differenze fra i singoli
circoli augustei, Fedeli obietta che “Mecenate e Messalla ebbero origine e formazione
culturali differenti, così come diverse furono le loro vicende durante la guerra civile:
tutto ciò influì sul loro atteggiamento nei confronti del principe”
20
. L’adesione di
Messalla alla politica di Ottaviano fu infatti tardiva: tuttavia una volta schieratosi
dalla parte del futuro principe, lo servì fedelmente e ne approvò la politica, anche se
17
Ov., Tr. IV,10,24-26: scribere temptabam verba soluta modis. / Sponte sua carmen numeros
veniebat ad aptos, / et quod temptabam scribere versus erat.
18
Messalla, membro dell’antica gens Valeria, apparteneva all’oligarchia senatoria di ideali
repubblicani; dopo l’uccisione di Cesare aveva militato a Filippi nel 42 a.C. dalla parte dei cesaricidi,
ma si era poi unito ad Antonio per entrare infine nelle file di Ottaviano, prima di Azio (31 a.C.). Dopo
la vittoria Ottaviano lo inviò in Aquitania, regione della Gallia (spedizione che fruttò a Messalla il
trionfo nel 27 a.C.), e in Cilicia. Infine, con l’inizio del principato, abbandonò completamente la
politica per dedicarsi alle lettere ed alle arti incoraggiandole sull’esempio di Mecenate.
19
Mecenate, discendente da una nobile famiglia etrusca, nacque ad Arezzo intorno al 70 a.C. (era
dunque coetaneo di Virgilio, nato anch’egli in quest’anno) e morì, come Orazio, nell’8 a.C. Fu uno dei
più intimi amici e dei più validi ed influenti collaboratori di Ottaviano ma non rivestì mai alcuna carica
ufficiale, rimanendo per tutta la vita semplice cavaliere (del resto i magistrati non avevano più un
effettivo ruolo politico, essendo divenuti semplici esecutori delle direttive del principe): nell’ambito
della politica culturale del regime augusteo svolse un’essenziale funzione di intermediazione fra
l’imperatore e alcuni grandi poeti, di cui seppe riconoscere l’ingegno e che orientò, discretamente ma
fermamente, verso la celebrazione dell’ideologia del principato attraverso forme di poesia più
impegnate, lontane dal gusto neoterico di una poesia “tenue” e disimpegnata sotto il cui influsso i
letterati del tempo si erano formati ( proprio per il numero e il valore degli scrittori di cui fu protettore
e per l’incidenza della sua abile attività di promotore culturale il suo nome ha assunto
antonomasticamente il significato di “patrono di poeti”): in particolare Virgilio con l’Eneide fornì una
genealogia mitica a Roma e ad Augusto che stava preparando la propria deificazione; inoltre con le
Georgiche sostenne un’altra idea augustea propagandando la rinascita dell’agricoltura in Italia. Del
circolo letterario che si formò intorno a Mecenate fecero parte, oltre a Virgilio (i cui rapporti con
Mecenate risalgono al 39 a.C.), anche Orazio (che fu presentato a Mecenate da Virgilio nel 38 a.C.),
Properzio (che, molto più giovane, entrò nel circolo una decina di anni più tardi) e vari altri poeti di cui
non si sono conservate le opere (Valgio Rufo, Quintilio Varo, Domizio Marso, Lucio Vario Rufo e
Plozio Tucca che fu, insieme a Varo, esecutore testamentario di Virgilio ed editore dell’Eneide).
20
P. Fedeli, Il sapere letterario. Autori, testi e contesti della letteratura latina, Napoli 2003, p. 642.
14
ciò non lo indusse mai a farsi aperto propagandista dell’ideologia del principato. Ecco
perché, spiega Fedeli, “nel circolo letterario che si riunì intorno a Messalla sono
presenti spunti graditi ad Augusto, ma in misura minore e più sfumata che nelle opere
dei letterati del circolo di Mecenate”
21
. Ovidio conobbe e amò i poeti del suo tempo
22
:
Macro, morto nel 16 a.C., amico di Virgilio, gli lesse le sue poesie didattiche
(Ornithogonīa sugli uccelli, Theriăca sui serpenti velenosi, e forse un De herbis sulle
piante medicamentose, menzionato però solo da Ovidio); Properzio
23
a cui lo legò
una forte amicizia; Pontico, autore di un poema epico (Tebaide), e Basso, entrambi
amici di Properzio; Orazio
24
, che lo deliziò cantando i suoi poemi e accompagnandosi
con la lira romana; Virgilio fu appena intravisto, mentre Tibullo
25
non ebbe il tempo
di diventare suo amico; così pure Gallo
26
, amico di Virgilio e considerato l’iniziatore
21
Ibid.
22
Cfr. Ov., Tr. IV,10,41-52.
23
Nato da famiglia umbra di rango equestre colpita da lutti e confische di terre a seguito della rivolta
dei proprietari italici repressa a Perugia da Ottaviano nel 41-40 a.C., Properzio entrò a contatto con il
circolo di Mecenate nel 28 a.C., dopo la pubblicazione del primo libro delle sue elegie, e morì intorno
al 16 a.C., ancora in giovane età.
24
Orazio nacque a Venosa (al confine tra Puglia e Lucania) nel 65 a.C. e morì nell’8 a.C. (fu sepolto
sull’Esquilino accanto alla tomba di Mecenate, scomparso appena due mesi prima, essendo stati i due
intimi amici). Era di umili origini, ma di condizione economica non disagiata: il padre era infatti un
liberto, trasferitosi a Roma per fare l’esattore delle aste pubbliche, mestiere socialmente poco stimato,
ma redditizio. Orazio poté seguire perciò un regolare corso di studi prima a Roma e poi ad Atene, dove
studiò filosofia; qui, scoppiata la guerra civile che oppose i cesaricidi ad Antonio e Ottaviano, si
arruolò nell’esercito di Bruto e combatté come tribuno militare nella battaglia di Filippi (42 a.C.) a
fianco dei difensori delle istituzioni repubblicane. Tornato a Roma grazie ad un’amnistia e appresa la
notizia della confisca dei beni e del podere venosino del padre, trasse sostentamento esercitando
l’ufficio di scriba quaestorius (cioè segretario alle dipendenze dei questori) e iniziò frattanto l’attività
letteraria; ma la svolta decisiva della sua vita avvenne nell’anno 38 a.C., quando Virgilio (carissimo
amico definito in un’ode animae dimidium meae “la metà della mia anima”) lo presentò a Mecenate
che, dopo nove mesi di attesa, lo ammise ufficialmente nel suo circolo. Da allora Orazio si dedicò
interamente alla letteratura (come Virgilio, non si sposò e non ebbe figli), conducendo vita semplice e
modesta, in accordo con il suo epicureismo, in una villa in Sabina, dono graditissimo di Mecenate,
dove amava vivere lontano dagli impegni e dai disagi della vita cittadina. Maestro di eleganza stilistica
e dotato di inusuale ironia, con la sua poesia fece spesso azione di propaganda per l’ideologia augustea,
componendo carmi celebrativi e politicamente impegnati fra cui spiccano le cosiddette “odi romane”
(cfr. Odi III,1-6) e il Carmen saeculare, inno agli dei protettori di Roma scritto su incarico di Augusto
per la cerimonia conclusiva dei grandiosi ludi saeculares (dedicati agli dei inferi per il rinnovarsi del
secolo) del 17 a.C., e cantato da ventisette giovinetti e altrettante fanciulle sul Palatino e sul
Campidoglio.
25
Tibullo era nato nel Lazio rurale (anch’egli, come Properzio, da famiglia del ceto equestre di cui
lamenta rovesci economici e povertà), e la sua morte è di poco posteriore a quella di Virgilio (19 a.C.).
Centrale nella sua vita fu il rapporto di amicizia e protezione che lo legò a Messalla Corvino: Tibullo
seguì il suo patrono anche in alcune delle spedizioni militari affidategli da Augusto, come quella
vittoriosa in Aquitania che valse a Messalla il trionfo (27 a.C.).
26
Gallo, nato da umile famiglia nella Gallia Narbonese, si schierò con Ottaviano contro Antonio,
combattendo nel 30 a.C. in Egitto. Dopo la vittoria fu nominato prefetto d’Egitto, carica che avrebbe
rivestito con eccessiva indipendenza e orgoglio, spingendosi a parlare con scarso riguardo dello stesso
15
dell’elegia d’amore a Roma.
La prima fase dell’attività poetica di Ovidio si svolge per larga parte nel
campo dell’elegia erotica, genere nel quale Ovidio ottiene grandi soddisfazioni e
consensi. Sulla scia di Gallo, Tibullo e Properzio, dei quali Ovidio si dichiara
continuatore facendo una vera professione di scuola
27
, l’elegia erotica latina aveva
trovato, nei suoi distici, l’espressione più alta e raffinata. Nella sua prima opera, gli
Amores, raccolta di elegie pubblicata in prima edizione intorno al 15 a.C., Ovidio
mostra già di superare i suoi modelli, dando voce non solo agli elementi tradizionali
dell’elegia erotica (la passione amorosa vissuta in prima persona dal poeta, la dedica
alla donna amata, e poi tutte le situazioni tematiche proprie del genere: liti,
tradimenti, riconciliazioni, paraklausithura
28
, partenze e ritorni, notti d’amore,
conviti, giuramenti, ogni atto del servitium amoris
29
, nonché le sofferenze del poeta
innamorato per la venalità o i capricci dell’amata, ecc.), ma anche ad elementi nuovi,
propri dell’elegia ovidiana
30
. Nell’elegia autobiografica dei Tristia
31
si legge che una
donna, cantata sotto lo pseudonimo greco (come di consueto nel genere elegiaco) di
Corinna (poetessa di Tanagra in Beozia vissuta nel V a.C.), aveva risvegliato il suo
talento poetico e, secondo Saint Denis, così dicendo Ovidio lascerebbe intendere che,
nonostante il nome fittizio, questa donna sia realmente esistita
32
; anche negli
Amores
33
il poeta parla di Corinna come un essere reale che, resa celebre dai suoi
versi, continua ora a vivere la sua vita, con molti altri amanti, dopo averlo ispirato un
Augusto; caduto perciò in disgrazia del principe, che lo condannò all’esilio e alla confisca dei beni, si
uccise nel 26 a.C. Fu condiscepolo di Virgilio a Roma e lo avrebbe aiutato, una volta iniziata la
carriera politica, a conservare le proprietà mantovane al tempo delle distribuzioni ai veterani, dopo la
battaglia di Filippi (42 a.C.).
27
Cfr. Ov., Tr. IV,10,53-54: successor fuit hic tibi, Galle, Propertius illi; / quartus ab his serie
temporis ipse fui (“egli [Tibullo] successe a te, o Gallo, Properzio a lui; / quarto dopo questi fui io
stesso in ordine di tempo”).
28
Propriamente “serenate davanti alla porta chiusa” dell’amata (da parakla…w “piango presso” e
qÚra “porta”).
29
E’ la condizione di “schiavitù”, di totale dedizione dell’innamorato nei confronti della donna amata.
30
Cfr. G. B. Conte e E. Pianezzola, op. cit., pp. 675.
31
Cfr. Ov., Tr. IV,10,59-60: moverat ingenium totam cantata per Urbem / nomine non vero dicta
Corinna mihi ( “aveva mosso il mio genio, da me cantata per tutta la città, / Corinna, così chiamata da
me con nome non vero”).
32
Cfr. E. de Saint Denis, Le malicieux Ovide, in AA.VV., Ovidiana: recherches sur Ovide, par Niculae
I. Herescu, Parigi 1958, pag. 186.
33
Cfr. Ov., Am. III,12,16: ingenium movit sola Corinna meum (“solo Corinna suscitò il mio estro
poetico”).
16
tempo
34
. Qualcuno sospetta tuttavia che questa figura femminile non sia una donna
reale, dal momento che non si è potuto identificarla con sicurezza (come invece è
accaduto per la Licòride di Gallo, la Delia, poi divenuta Nèmesi, di Tibullo, la Cinzia
di Properzio): per alcuni la sua presenza intermittente e limitata sarebbe indicativa
della funzione puramente convenzionale assunta nell’opera ovidiana, Corinna sarebbe
cioè “un pretesto per cantare e sfruttare i temi tradizionali della poesia erotica”
35
; per
altri “Corinna è solamente una sintesi, un personaggio composito, un nome che
recupera parecchie avventure”
36
, come dimostrerebbe il fatto che lo stesso Ovidio
dichiara in Am. II,4 di subire il fascino di qualunque donna, la pudica e la provocante,
la colta e l’ignorante, la bionda e la bruna, la giovane e la vecchia: Corinna
incarnerebbe quindi l’amore del poeta per tutte le donne. In effetti, il pathos amoroso
diventa in Ovidio lusus o ludus, riflettendo in ciò l’attitudine alessandrina, e
chiaramente callimachea, verso una poesia che privilegia il paradosso, il diverso, il
cambiamento: l’esperienza dell’eros è quindi filtrata dal poeta attraverso l’ironia e il
distacco intellettuale e l’opera poetica diventa creazione autonoma, svincolata
dall’obbligo di rispecchiare fedelmente il reale. A tal proposito Lateiner vede in Am.
II,19 un modello di paradossale parodia della tradizione elegiaca dell’exclusus
amator, come emergerebbe chiaramente dal confronto con Am. III,4 in cui il poeta
utilizza gli stessi argomenti per giungere però a conclusioni opposte
37
: così se qui il
poeta-amante chiede al uir della sua puella di consentirgli di arrivare al letto di lei,
sostenendo che l’uomo che cerca di “proteggere” la castità della donna con i divieti
ottiene soltanto di sollecitarne di più il tradimento rispetto a colei che è libera di
tradire, lì invece Ovidio si pone contro tutte le convenzioni dell’elegia per chiedere
che la donna sia custodita più da vicino dal suo uomo, poiché per l’amante che ha
libero accesso alla donna la semplice soddisfazione sessuale è da rigettare e l’inganno
e il rifiuto diventano rischi necessari o addirittura benèfici per rendere ancor più
desiderabile ciò che è vietato. Ma “la parodia non necessariamente è svilimento”,
afferma Lateiner contraddicendo quanti considerano Ovidio una degradazione
34
Cfr. E. de Saint Denis, op. cit., pag. 187.
35
E. de Saint Denis, op. cit., pag. 185: tale opinione, osserva Saint Denis, si è fatta strada in un primo
tempo fra gli studiosi tedeschi come Leo, Ehwald ed altri, intorno alla fine dell’ 800.
36
Ibid.: così la pensano, tra gli altri, i francesi Ripert e Fargues nei primi decenni del ‘900.
37
Cfr. D. Lateiner, Ovid’s homage to Callimachus and Alexandrian poetic theory, in “Hermes”, CVI,
1978, p. 189.
17
parodistica, non rappresentativa della tradizione elegiaca precedente
38
.
Grande successo di pubblico riscosse anche una Medea (per noi perduta), unica prova
ovidiana sul terreno impegnativo del genere tragico. Ma continuando ancora a
lavorare nell’ambito dell’elegia erotica Ovidio scelse poi la forma del trattato
didascalico in versi (i grandi modelli romani erano soprattutto il De rerum natura di
Lucrezio e le Georgiche virgiliane), passando dal ruolo di amante, protagonista di
avventure d’amore negli Amores, a quello di maestro d’amore nell’Ars amatoria, nei
Remedia amoris e nei Medicamina faciei femineae: in queste opere lo svuotamento
ironico che l’esperienza dell’eros subisce già negli Amores giunge alle estreme
conseguenze e diventa divertimento galante soggetto a un preciso codice etico-
estetico che è poi quello ricavabile dalla stessa tradizione letteraria dell’elegia erotica
latina con il suo patrimonio di ruoli, situazioni e comportamenti già codificati
39
. Così
nell’Ars amatoria Ovidio elabora una precettistica sull’amore impartendo consigli
agli uomini sui modi di conquistare le donne (libro I) e di conservarne l’amore (libro
II); il III libro fornisce viceversa alle donne insegnamenti su come sedurre gli uomini,
essendo stato aggiunto più tardi dal poeta per risarcire le donne del danno procurato
loro coi primi due (come dice scherzosamente ai vv.1-4). A conclusione del ciclo di
opere erotico-didascaliche, nei Medicamina faciei femineae Ovidio tratta dei
cosmetici di bellezza per le donne, mentre nei Remedia amoris, contravvenendo ad
alcuni precetti dell’Ars amatoria, suggerisce come liberarsi dalla schiavitù
dell’amore: egli cioè rovescia il motivo topico della nequitia (“indolenza”) del poeta
elegiaco di fronte al male d’amore che considera inguaribile ma di cui pure sembra
compiacersi, sostenendo di contro la necessità di liberarsi dalla condanna alle
sofferenze del cuore
40
(in ciò ribadisce l’assunto della filosofia epicurea, già
condiviso da Lucrezio, che condannava l’amore in quanto turbamento dei sensi che
alimenta il desiderio e con esso il dolore dell’uomo
41
).
38
Cfr. J. P. Sullivan, Two Problems in Roman Love Elegy, in “Transactions of the American
Philological Association”, XCII, 1961, p. 535.
39
Cfr. Id., op. cit., pp. 676-7.
40
Cfr. Id., op. cit., p. 678.
41
Secondo l’epicureismo, fonte di ogni dolore è il desiderio, in quanto tensione verso ciò che manca, e
fonte del desiderio sono i sensi; il piacere (¹don») dunque non sarà associato al soddisfacimento del
desiderio (piacere in movimento), bensì al desiderio non soddisfatto (piacere stabile o
catastematico) che può essere perseguito attraverso l’atarassia, ovvero l’“assenza di turbamento,
imperturbabilità” (dal greco ¢- priv. + t£raxij “turbamento”) di fronte alle passioni: essa consiste nel
18
Con le Heroides, epistole in distici elegiaci di celebri eroine del mito abbandonate dai
loro amanti o mariti lontani (prima serie, da 1 a 15), da sempre accomunate nella
tradizione manoscritta a quelle di tre celebri innamorati seguite dalla risposta delle
rispettive donne (seconda serie, da 16 a 21), Ovidio crea un nuovo genere letterario
del quale non abbiamo testimonianza prima di lui: la raccolta di lettere poetiche di
soggetto amoroso. Le due serie di epistole testimoniano due diverse fasi di
composizione, entrambe comunque da collocarsi prima dell’esilio. Personaggi e
situazioni sono tratti soprattutto dalla tradizione mitica epico-tragica greca, ma i
ricorrenti motivi della sofferenza per la lontananza della persona amata, i lamenti, le
suppliche, i sospetti di infedeltà, le accuse di tradimento, ecc. sono mutuati ancora
una volta dalla tradizione elegiaca latica: Ovidio insomma, come scrive Conte, “nelle
Heroides fa del modello elegiaco un filtro attraverso cui passano i materiali narrativi
dell’epos, della tragedia, del mito”, ed anzi in quest’opera “il genere elegiaco sembra
tornare alle proprie origini di poesia del dolore e del lamento: si pensi alla frequenza
di termini chiave del lessico elegiaco come queri, querimonia e simili”
42
.
E arriviamo alle Metamorfosi, l’opera che, dopo l’Eneide e prima della
produzione epica postvirgiliana di Stazio, Lucano, Valerio Flacco e Silio Italico,
rappresenta, nel panorama della grande stagione letteraria augustea, un tentativo non
meno ambizioso di grande poema narrativo che sperimenta una possibilità diversa
dell’epos. Il Conte nota infatti che il poema delle Metamorfosi, pur rispettando nella
forma metrica (l’esametro) e nelle grandi dimensioni (15 libri) i canoni dell’epos, “si
presenta come un ‘poema collettivo’, che raggruppa cioè una serie di storie
indipendenti accomunate da uno stesso tema”, quello della metamorfosi appunto,
coprendo un arco cronologico illimitato (dalle origini del mondo ai giorni di
Ovidio)
43
: il modello, d’ispirazione esiodea (cfr. il catalogo delle dee nella Teogonia e
il Catalogo delle donne) aveva trovato fortuna nella letteratura ellenistica, ad esempio
negli Aitia di Callimaco (serie di saghe eziologiche, in metro elegiaco), ed anche, per
quanto riguarda l’antecedente immediato delle Metamorfosi ovidiane, in un poema in
condurre una vita appartata, tranquilla (da cui il motto epicureo laq bièsaj “vivi nascosto”), che
sappia distinguere quei desideri naturali e necessari alla vita da quelli che sono solo fonte di
turbamento per l’animo.
42
G. B. Conte – E. Pianezzola, op. cit., pp. 679 s.
43
Id., op. cit., p. 681.
19
esametri, per noi perduto, di Nicandro di Colofone (II a.C.) che raccoglieva appunto
storie di metamorfosi. La metamorfosi che i personaggi subiscono è per Ovidio una
maniera di narrare la realtà oltre le apparenze, dando ragione dei suoi aspetti anche
più strani e bizzarri: ma questo mondo ovidiano, instabile e paradossale, oggi non
viene più interpretato, come faceva Hermann Fränkel
44
, come il segnale di una cultura
minacciata da una profonda crisi di identità spirituale; si tende oggi a vedere piuttosto
nelle Metamorfosi la consapevole ed ironica rappresentazione del grande spettacolo
illusionistico offerto dalla natura e dal mito
45
. A questa visione del mondo Ovidio
conferisce dignità filosofica attraverso il lungo discorso di Pitagora del libro
conclusivo, che indica nel mutamento la legge dell’universo, cui l’uomo deve
docilmente adeguarsi (è la teoria della metempsicosi).
Inoltre, come osserva D’Elia
46
, Ovidio tenta qui di far penetrare la romanità e il mito
romano (cfr. il mito di Enea, raccontato in forma spezzettatissima essendo usato come
espediente per collegare varie leggende di metamorfosi
47
, fra cui quella delle divinità
agresti latine Vertumno e Pomona
48
, o il mito della venuta di Esculapio a Roma
49
)
ponendoli sullo stesso piano del mito greco, ormai svuotato di ogni problematica
religiosa, etica, politica, secondo la mentalità “alessandrina” che sosteneva una
visione estetica del mondo fondata sui valori dell’arte e della vita di ogni uomo: in tal
senso il poeta fa del mito, delle figure che lo popolano, un ornamento della vita
quotidiana, in modo tale che le divinità della tradizione religiosa greco-romana siano
assimilate alla dimensione terrena e agiscano sotto la spinta di sentimenti e passioni
assolutamente umane, spesso non delle più nobili (amori, gelosie, rancori, vendette);
e proprio nello scettico distacco dal mondo della veneranda tradizione mitologica sta
il trionfo di questa poesia che vuole intrattenere e stupire. Il fatto poi, aggiunge
D’Elia, che il poeta concepisca l’introduzione di queste leggende come mezzo per
giungere all’esaltazione finale di Augusto e di Roma appare una forzatura: è bene
ricordare a tal proposito che al libro XV si passa senza soluzione di continuità dal
44
Cfr. H. Fränkel, Ovid: a poet between two worlds, Los Angeles 1956.
45
Cfr. G. Rosati, Narciso e Pigmalione. Illusione e spettacolo nelle “Metamorfosi” di Ovidio, Firenze
1983, pp. 170-173.
46
Cfr. S. D’Elia, Ovidio, Napoli 1959, pp. 317-321.
47
Ov., Met. XIII,623-XIV,775.
48
Ov., Met. XIV,623-771: Vertumno, dio di origine etrusca, fu cantato anche da Properzio in una delle
“elegie Romane” del IV libro della sua raccolta.
49
Ov., Met. XV,622-745.
20
mito di Esculapio all’apoteosi di G. Cesare che prelude alle lodi dell'imperatore
Augusto e alla celebrazione di Roma capitale del mondo, che si concentrano nei versi
finali del poema
50
.
La nuova fase dell’attività poetica di Ovidio, rappresentata dalle Metamorfosi
e dai Fasti, si interruppe bruscamente nell’8 d.C. in seguito all’editto promulgato da
Augusto che lo condannava alla relegatio a Tomi, città della remota Scizia, sulla
costa occidentale del Mar Nero, alle foci del Danubio (corrispondente all’odierna
Costanza, in Romania)
51
. Riguardo alle cause della relegazione, non ancora
pienamente chiarite, Ovidio accenna in Tristia II,207 ad un carmen et error (il II libro
dei Tristia contiene un’unica lunga elegia indirizzata ad Augusto, con cui Ovidio
cerca di discolparsi dalle accuse che lo avevano condannato all’esilio): si pensa che
dietro l’accusa ufficiale di immoralità della sua poesia, soprattutto dell’Ars amatoria
(il presunto carmen incriminato) si volesse colpire un suo coinvolgimento nello
scandalo dell’adulterio di Giulia Minore, nipote di Augusto, con Decimo Giunio
Silano. La relegazione prevedeva anche il ritiro di tutte le sue opere dalle biblioteche
pubbliche; poco male per la fama delle Metamorfosi, già in circolazione nella capitale
ancor prima della revisione finale da parte del suo autore, che non ebbero mai: in
Tristia I,7 si legge che partendo per Tomi Ovidio gettò nel fuoco una copia delle
Metamorfosi (perché il poema non era stato revisionato e perché era in collera con la
sua stessa passione poetica, divenuta uno dei suoi capi d’accusa), ma ne esistevano
delle altre copie. Rimasero invece incompiuti i Fasti, di cui furono pubblicati soltanto
i primi sei libri (dedicati ai primi sei mesi dell’anno giuliano, da Gennaio a Giugno).
Su questi tuttavia Ovidio intraprese a Tomi un lavoro di revisione di cui resta traccia
soprattutto nel primo libro, dove la dedica iniziale a Germanico sostituì
verosimilmente quella ad Augusto, dopo la morte di questi nel 14 d.C.
A Tomi Ovidio attese anche alla composizione delle cosiddette “opere
dell’esilio": i Tristia, raccolta di elegie accomunate dal lamento sull’infelice
condizione del poeta esiliato, e il poemetto in distici elegiaci Ibis (esemplato
sull’omonimo componimento perduto di Callimaco, diretto contro Apollonio Rodio),
50
Ov., Met. XV,736 sgg.
51
Come è noto la relegatio, a differenza dell’exilium, lasciava al condannato i beni e i diritti di
cittadinanza.
21
lunga sequela di invettive rivolte contro un anonimo amico che lo abbandonò in
occasione dell’editto, il cui titolo allude ad un uccello egiziano che secondo gli
antichi aveva immondi costumi (si cibava di rettili e di rifiuti). La buona accoglienza
ricevuta dai Tristia presso il pubblico romano indussero Ovidio a dar seguito ad
un’altra raccolta di elegie in forma epistolare, le Epistulae ex Ponto: va notata, in
generale, nelle due maggiori opere dell’esilio, “la consapevole riscoperta dell’elegia
come poesia del pianto, del lamento, quasi un ritorno alle funzioni originarie che nella
letteratura greca si attribuivano a questo genere tanto caro a Ovidio, e ora reso
tragicamente attuale nella sua forma più autentica dall’esperienza del dolore”
52
;
costretto infatti a diventare oggetto della sua stessa arte poetica, il brillante cantore
della mondanità romana, che si era divertito a trattare con un distaccato sorriso tutto
l’universo delle finzioni letterarie, proclama ora l’assoluta autenticità della sua poesia,
divenuta ora più che mai la dimensione totale della sua esistenza, l’unica in grado di
fornirgli ancora una ragione di vita e insieme un conforto. Alcune indicazioni
contenute nel IV libro delle Epistulae ex Ponto, fanno ritenere che Ovidio morì a
Tomi verso il 17 d.C., data attestata anche dalla Cronaca di San Gerolamo; tuttavia
nel I libro dei Fasti si fa riferimento a eventi romani della fine del 17 d.C., la cui
notizia difficilmente poteva esser giunta in poco tempo fino a Tomi: per questo alcuni
ritengono prudente spostare la data di morte al 18 d.C.
52
G. B. Conte – E. Pianezzola, op. cit., p. 687.