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CAPITOLO 1 – Ligabue e l’italiano del rock
1.1 Italiano della canzone e italiano del rock
«Amo la radio perché arriva tra la gente, entra nelle case, ci parla direttamente», cantava
nel 1976 Eugenio Finardi nella canzone La radio inneggiando ai testi duri e diretti: era
il mito della lingua rock «volutamente rozza, aggressiva e trasgressiva», che «evitava
qualunque virtuosismo in nome di una presunta spontaneità, istintiva e viscerale»
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: «il
grezzo è preferito al raffinato, l’immediatezza all’artificiosità»
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e la lingua si presenta il
più semplice e naturale possibile.
La parola rock, nata in America per indicare il genere musicale che nasce dal country e
dal rhythm and blues, comincia a circolare in Italia dalla metà degli anni Cinquanta -
tanto da venire usata anche nei titoli di alcune canzoni (Il tuo bacio è come un rock,
Adriano Celentano, 1959) -. Ma solo quindici anni più tardi il rock smette di ammiccare
a una moda («c’è tanta gioventù / con i blu jeans / che balla il rock’n’roll» Adriano
Celentano) e adotta suoni e comportamenti più aggressivi. Si definisce rock
“progressivo” per la sua ricerca musicale ma continua ad essere “regressivo” nei testi a
causa di alcune scelte linguistiche come le similitudini, il lessico e «il bagaglio di zeppe,
di apocopi e di tronche imposte dalla musica a una lingua piana»
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. È solo nella seconda
metà degli anni Settanta che inizia a prendere forma una vera e propria lingua rock, la
quale si contrappone alla tradizionale canzonetta sanremese e allo stile cantautorale, che
costituivano la tradizione della musica leggera italiana, esprimendo aggressività e
naturalezza al tempo stesso.
Negli anni Ottanta e Novanta la tradizione del rock italiano è rappresentata da quattro
importanti personalità: i cantanti Ligabue, Vasco Rossi e Gianna Nannini e il gruppo
Litfiba che usano una certa violenza verbale («ieri ho sgozzato mio figlio / è stato uno
sbaglio» Vasco Rossi, Ieri ho sg. mio figlio, 1981), fanno riferimento alle forze della
1
Giuseppe Antonelli, L’italiano nella società della comunicazione, Bologna, il Mulino, 2007, p. 125.
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Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone (Mezzo secolo di italiano cantato), Bologna, il Mulino,
2010, p. 63.
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Umberto Fiori, Scrivere con la voce. Canzone, rock e poesia, Milano, Unicopli, 2003, p. 65.
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natura («io sono aria e sole» Litfiba, Desaparecido, 1985), ricorrono alla metafora
animale («e fra un po’ si torna in calore e lo sai / che per qualcuno è comodo» Ligabue,
Figlio d’un cane, 1990) e rifiutano in parte l’amore canzonettistico e sentimentale per
ritornare al corpo e all’erotismo («dammi tutto il tuo sapore / no ti prego no, non ti
asciugare» Gianna Nannini, Profumo, 1986).
Quella che potremmo chiamare “coinè rock” presenta almeno quattro diverse
componenti: il rock politico, il rock demenziale, il rock di ricerca e il rock sentimentale.
Il primo recupera il linguaggio della politica; il secondo usa espressioni comiche,
ironiche e dissacranti; il terzo tende ad esplorare e a conoscere nuovi orizzonti
espressivi; il quarto continua sostanzialmente la tradizione canzonettistica italiana. È
importante notare che fino agli anni Ottanta questo genere musicale rimane legato alla
lingua e al lessico del rock’n’roll, mentre dagli anni Novanta in poi inizia ad avvicinarsi
a una coinè più ruvida, caratterizzata da atmosfere astratte o allucinate, da una lingua
più ricercata e dall’abbandono di espressioni inglesi a vantaggio persino del latino
(«Annus horribilis in decade malefica» CSI, Finistère, 1993). Nell’ultimo decennio, poi,
l’uso di frasi spigolose e impraticabili, la rinuncia alla rima e la rarità ai versi tronchi
hanno allontanato ulteriormente l’italiano del rock dalla coinè anni 80/90, per
avvicinarla al genere cantautorale: basta pensare a Carmen Consoli («le dita curate e un
sarcasmo congenito / labbra sottili armonioso contorno», Fiori d’arancio, 2002).
La tradizione musicale italiana è caratterizzata negli ultimi decenni anche da altri generi
come il blues e l’hip hop. Il genere blues, riconducibile alla musica nera, si sviluppò in
tre fasi: la fase di importazione di alcuni ritmi, la fase di imitazione (ben rappresentata
dal brano La pelle nera, di Nino Ferrer, 1967: «Ehi ehi ehi dimmi Wilson Pickett / ehi
ehi ehi dimmi tu James Brown / signor King signora Charles 7 signor Brown») e la fase
di emulazione. Questa inizia in Italia dalla metà degli anni Settanta, con alcuni musicisti
napoletani (Pino Daniele, Tullio De Piscopo ecc.) e prosegue negli anni Ottanta e
Novanta con gli emiliani Zucchero Fornaciari e Paolo Belli. Il blues italiano (di rhythm
and blues si comincia a parlare solo nel ’75) mantiene un forte legame con la lingua
d’origine («a me me piace 'o blues e tutt’e juorne agge cantà» Pino Daniele, A me me
piace 'o blues, 1980), anche se continua a comparire con una certa frequenza l’inglese,
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«creando effetti di mescolanza o di alternanza tra codici»
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(«sali anima in depression /
come in come sei messo?» Zucchero, A wonderful world, 1989). Al contatto tra inglese
e italiano si affianca anche quello tra inglese e dialetto, usato soprattutto da artisti
napoletani («I say i’ sto ccà / me ‘mbriaco e c’aggia fa» Pino Daniele, I say i’ sto ‘ccà,
1980) che riescono a liberare il loro dialetto dalla «stereotipata immagine tutta melodia
e sentimento»
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.
Con gli anni Ottanta il mercato discografico si amplia sempre di più e rafforza il legame
tra genere musicale (inteso come stile di vita e look) e categorie merceologiche, fino a
importare generi musicali che si oppongono alla plastificazione della musica di
consumo: è il caso della musica hip hop (o rap) nata nei sobborghi neri delle grandi città
statunitensi che poi - a poco a poco - incontrò i gusti del grande pubblico: «basti dire
che da noi il nome ragamuffin “stile musicale che associa rap e reggae” risulta attestato
per la prima volta nel titolo di una canzone di Jovanotti»
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, che dopo aver scritto un
album interamente in inglese (Jovanotti for president, 1988) passò ai testi in italiano.
Grazie a lui, quindi, il rap entrò a far parte del nostro mainstream musicale, vedendo
emergere artisti come Frankie Hi-Nrg, Articolo 31 e Caparezza. Oggi i nomi nuovi
dell’hip hop di massa (Fabri Fibra, Mondo Marcio) hanno abbandonato i temi leggeri
dei loro predecessori, preferendo il «racconto estremo del disagio»
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(«quando penso che
esisto già mi nausea essere vivo» Fabri Fibra, Rap in guerra, 2006). Più che l’italiano
(identificato dai rapper come “lingua del potere”) è stato a lungo il dialetto
metropolitano a caratterizzare i testi hip hop: ad esempio nei testi dei bolognesi Sangue
Misto si trovano termini del cosiddetto droghese come porra “spinello”, dopa “sostanza
stupefacente” o fattanza “sballo”. Il rap inoltre rappresenta un genere di protesta contro
la politica del paese («Sta’ a sentire verme schifoso / c’ho un rigurgito antifascista»
Bisca 99 Posse, Rigurgito, 1994). Ma la novità più rilevante sul piano espressivo è
l’assenza della mascherina che permette al cantante rapper di usare liberamente la rima
senza seguire uno schema testuale fisso. Infatti come afferma Tiziano Scarpa, il rap «è
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Antonelli, Ma cosa vuoi che sia una canzone, cit., p. 66.
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Ibidem, p. 66.
6
Ibidem, p. 67.
7
Gino Castaldo, I cattivi hip hop contro i buoni della musica italiana, in «la Repubblica», 16 luglio 2006,
p. 53.
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una nutella di sillabe che si può stendere qui a strati sottili e lì a grumi densi»
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. Non tutti
però apprezzano questo andamento cantinelato e a tratti parlato: ad esempio per Alberto
Tronti «il rap è sempre la stessa canzone a cui, di volta in volta, cambiano le parole»
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.
Escluso il rap, tutti gli altri generi hanno in comune numerosi aspetti linguistici con la
canzone sanremese: le rime tronche e le zeppe, per esempio, si trovano sia nei testi
cantautorali («ricordi la volta che ti cantai / fu subito un brivido sì» Ramazzotti, Più
bella cosa, 1996) sia nel rock («è per te che lo sai / di chi sto parlando dai» Ligabue,
Viva, 1995) sia nel blues («le strade delle signore / sono infinite lo sai» Zucchero,
Diavolo in me, 1989). Rispetto alla tradizione sanremese, ci sono anche delle differenze
che riguardano soprattutto il lessico. Tutti i generi, infatti, tendono a sbilanciarsi verso il
parlato usando colloquialismi, gergalismi e turpiloqui - e in misura minore - la sintassi:
è il caso, ad esempio, delle dislocazioni («le sento più vicine le sacre sinfonie del
tempo» Battiato, Le sacre sinfonie del tempo, 1991).
1.2 Ligabue: vita e opere
Luciano Ligabue, come detto in precedenza, rappresenta uno dei “classici” della
tradizione rock italiana. Nipote di Marcello Ligabue, eroe della Resistenza, nasce a
Correggio in provincia di Reggio Emilia il 13 marzo 1960. Dopo aver conseguito il
diploma di ragioneria, svolge i lavori più diversi per poi diventare ragioniere,
conduttore radiofonico, calciatore e consigliere comunale del PDS. Nel 1986 fonda -
insieme ad alcuni amici - il gruppo musicale Orazero, con il quale un anno dopo
partecipa a diversi concorsi provinciali e nazionali. Nel 1988, insieme agli Orazero,
incide “ufficialmente” il suo primo 45 giri (Anime in plexiglass/Bar Mario) in seguito
alla vittoria nel concorso musicale provinciale Terremoto rock. Viene scoperto da
Pierangelo Bertoli, che include il brano Sogni di rock’n’roll nel suo album Tra me e me
del 1988). Questi lo propone al suo produttore Angelo Carrara per incidere il disco
Ligabue nel 1990. Per incidere questo album, Ligabue si avvale della collaborazione di
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Tiziano Scarpa, Cos’è questo fracasso, Torino, Einaudi, 2000, pp. 63-64.
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Alberto Tronti, Ci mancava il rap, in «Hi folks!», 1993, p. 78.