4
ABSTRACT ITALIANO
La flessibilità lavorativa è un fenomeno tanto antico quanto attuale; tale concetto
nonostante sia oggetto di studi e ricerche fin dagli anni ’60 continua ancora oggi ad evol-
versi ed a mutare a seconda del contesto socio-economico di riferimento. Il presente la-
voro si pone quindi quale obiettivo preminente quello di affrontare lo studio della flessi-
bilità in modo schematico, lineare e coerente; gli argomenti sono così esposti seguendo
una metodica top-down, dal globale allo specifico, nel tentativo di fornire una trattazione
quanto più esaustiva possibile, senza però uscire al di fuori della tematica principale.
La schematizzazione espositiva è evidenziata in primis dalla suddivisione in capi-
toli; il primo capitolo ha il compito di fornire taluni indispensabili spunti teorici in merito
alla gestione delle risorse umane; a tal fine, in primis, si evidenziano il percorso evolutivo
e le attività tipicamente svolte da tale funzione all’interno dell’organizzazione aziendale;
in secundis si procede ad analizzare alcuni istituti fondamentali, quali: il contratto psico-
logico, il commitment, il benessere organizzativo e l’identificazione organizzativa.
Individuata la materia oggetto di studio e definiti i concetti chiave che saranno poi
approfonditi, si procede quindi, nel capitolo secondo, alla definizione e all’analisi me-
diante un approccio multidimensionale del concetto di flessibilità; in tale sede vengono
quindi passati in rassegna i principali strumenti giuridico-economici attraverso cui la fles-
sibilità si concretizza all’interno delle organizzazioni, approfondendo le criticità applica-
tive e gli effetti organizzativi di ciascuno di essi.
Nel terzo capitolo, in primo luogo, si analizza il mercato del lavoro lato sensu al
fine di contestualizzare gli strumenti dapprima analizzati esaminandone le applicazioni
pratiche che questi hanno avuto a livello regionale. Si procede pertanto alla disamina di
alcune realtà aventi un mercato del lavoro virtuoso o con specifiche peculiarità. Nel
quarto capitolo si propongono una serie di studi elaborati in tempi recenti allo scopo di
esaminare gli effetti che la flessibilità lavorativa produce rispetto alle risorse umane e
l’organizzazione nel suo complesso.
Infine, il quinto e ultimo capitolo, consta di una ricerca empirica condotta dall’au-
tore dell’elaborato, il cui obiettivo precipuo è quello di confermare, od eventualmente
rigettare, talune delle teorie precedentemente analizzate. Per fare ciò si analizzano e si
elaborano le risposte ottenute da un campione di duecento partecipanti mediante l’im-
piego di strumenti statistici.
6
CAPITOLO I
Analisi critica della relazione organizzativa tra
lavoratore e datore di lavoro
I.1. Il concetto di risorse umane e l’importanza dell’HRM dal punto
di vista strategico
Una trattazione sulla flessibilità lavorativa non può, evidentemente, prescindere
dall’identificazione puntuale dell’oggetto della flessibilità, ovvero i lavoratori.
In termini economico-aziendali attraverso la locuzione “risorse umane” (in in-
glese Human Resources), si suole indicare l’insieme dei lavoratori che operano all’interno
di un’organizzazione
1
. La nozione di human resources coniata da Raymond Miles
2
si
propone di aggregare conoscenze derivanti da ambiti disciplinari differenti e di eviden-
ziare il superamento delle teorie organizzative di matrice tayloristica, basate sulla c.d.
organizzazione scientifica del lavoro
3
, secondo le quali i lavoratori venivano considerati
alla stessa stregua di qualsiasi bene strumentale atto alla produzione
4
.
Invero con l’avvento della c.d. Scuola delle “relazioni umane”
5
, di cui Elton Mayo
fu il maggiore esponente, le risorse umane assunsero una nuova valenza organizzativa;
iniziò a diffondersi l’idea che l’attività di ciascuna azienda non dovesse esaurirsi nella
sola produzione di beni e servizi, ma dovesse altresì estendersi a diffondere il benessere
fra i membri facenti parte dell’organizzazione medesima. Secondo il movimento delle
relazioni umane, pertanto, se i lavoratori sono impegnati in attività stimolanti e di natura
sociale, questi tendono ad essere più produttivi (c.d. Effetto Hawthorne
6
); da tale legge
discendono quindi le seguenti considerazioni
7
:
• la produttività non dipende in via esclusiva dall’organizzazione aziendale ma
anche dalla cooperazione spontanea dei lavoratori;
1
William R. Tracey, The human resources glossary, CRC Press, Boca Raton, 2004.
2
Raymond Miles è un ricercatore statunitense. Dal 1963 al 1992 è stato professore di economia aziendale
presso la Haas School Of Bussines della University of California, Berkeley.
3
L’Organizzazione scientifica del lavoro fu ideata dall'ingegnere americano F.W. Taylor (1856-1915); è
basata sulla razionalizzazione del ciclo produttivo secondo criteri di ottimalità economica, raggiunta attra-
verso la scomposizione e parcellizzazione dei processi di lavorazione nei singoli movimenti costitutivi, cui
sono assegnati tempi standard di esecuzione. Dall’Enciclopedia Treccani, Enciclopedia online, consultabile
al seguente indirizzo: https://bit.ly/2RQvMmP
4
Antonio Cocozza, Direzione risorse umane. Politiche e strumenti per l’organizzazione e la gestione delle
relazioni di lavoro, FrancoAngeli, Milano, 2006
5
Lo Human Relations Movement è una corrente di ricerca e intervento della psicologia del lavoro, che si
propone di coinvolgere maggiormente i lavoratori dipendenti nelle sorti di un'azienda, focalizzando mag-
giormente gli aspetti motivazionali e relazionali legati ai "fattori umani" sul posto di lavoro.
6
L'effetto Hawthorne (noto anche come effetto dell'osservatore) è un tipo di reattività in cui gli individui
modificano un aspetto del loro comportamento in risposta alla consapevolezza di essere osservati. "Haw-
thorne Effect | What is Hawthorne Effect? - MBA Learner". MBA Learner. 2018-02-22. Retrieved 2018-
02-25.
7
Maurizio Agnesa, Psicologia mangeriale. La gestione strategica delle risorse umane, libreriauniversita-
ria.it edizioni, Padova, 2012
7
• gli incentivi non economici (altresì detti sociali), talvolta risultano essere più
importanti di quelli monetari.
Miles, pertanto, non fece altro che rielaborare ed ampliare lo schema teorico delle
human relations di Mayo elaborato negli anni Venti; secondo lo studioso «le risorse
umane includono non solo abilità fisiche ed energia ma anche attitudini creative e la
capacità di comportamento responsabile, auto-diretto ed auto-controllato, accolti questi
assunti sulle persone, il compito del manager non deve essere visto meramente come
quello di dare direttive e ottenere collaborazione. Il suo ruolo primario diviene quello di
creare un ambiente in cui le risorse globali della sua organizzazione possano essere uti-
lizzate»
8
.
Orbene, occorre, inoltre, distinguere il concetto di risorse umane dal concetto di
capitale umano; nonostante le due espressioni siano spesso utilizzate impropriamente
come sinonimi, per capitale umano deve intendersi «il complesso delle conoscenze, capa-
cità, competenze ed attributi di cui dispone l’individuo, che facilitano il benessere perso-
nale, sociale ed economico»
9
. Il capitale umano pertanto è parte integrante delle risorse
umane, esso assumendo delle connotazioni differenti fa sì che ciascun individuo abbia
delle caratteristiche distintive uniche.
Il capitale umano, lato sensu, si forma attraverso una serie di processi educativi
che non si realizzano esclusivamente in ambito aziendale, ma che invece interessano l’in-
dividuo in tutti gli aspetti della sua vita; in tal senso è possibile distinguere l’ambiente
familiare da quello sociale, o ancora l’istruzione scolastica dalle esperienze di lavoro. Per
formare il capitale umano è necessario sostenere dei costi (c.d. costi di allevamento) rap-
presentati ad esempio del tempo che i genitori dedicano ai propri figli, o gli investimenti
in formazione sostenuti in ambito aziendale
10
.
I.2. L’evoluzione della gestione delle risorse umane
Con l’espressione gestione delle risorse umane (GRU) si suole fare riferimento
«all’insieme delle politiche, delle prassi e dei sistemi che influenzano i comportamenti,
gli atteggiamenti e le prestazioni dei dipendenti»
11
.
La gestione delle risorse umane (GRU) stenta ancora oggi, soprattutto nelle PMI,
ad essere riconosciuta fra le funzioni chiave dell’organizzazione aziendale, ed è spesso
confinata ad un ruolo periferico rispetto alle altre funzioni di management
12
. Il percorso
evolutivo che ha trasformato la GRU da mera funzione amministrativa a partner strategico
del vertice aziendale, ha richiesto una serie di passaggi intermedi.
Ab origine al responsabile del personale non era attribuito un ruolo significativo,
tale ruolo veniva considerato necessario ed equiparato ad una qualsiasi altra funzione di
8
R. E. Miles, “Human Relations or Human Resources?”, Harvard Business Review, 1965.
9
Risoluzione del Consiglio Europeo del 15 luglio 2003, sul capitale sociale e umano 2003/C 175/02
10
Luca Refrigeri, Oltre il capitale umano, Rubbettino, 2005
11
D. Boldizzoni e F. Paoletti (a cura di), Gestione delle risorse umane, Apogeo, Milano, 2007
12
Rodolfo Buat, Le persone nell’impresa. Strumenti e consigli per gestire le risorse umane nell’economia
della conoscenza, FrancoAngeli, Milano, 2007, p. 12
8
servizio amministrativo, molto lontana dai vertici aziendali
13
; tradizionalmente il respon-
sabile del personale si occupava dell’amministrazione delle retribuzioni, delle assunzioni
e delle esigenze formative del personale. Soltanto agli inizi degli anni Ottanta alla GRU
è stato riconosciuto un ruolo anche dal punto di vista strategico. La mancanza di una base
culturale della gestione delle risorse umane (GRU) è anche legata alle modalità attraverso
cui si è formata questa funzione.
Le fasi di questa evoluzione sono così riassumibili
14
:
• la fase amministrativa, contraddistinta da task prevalentemente legate alla
gestione dei salari e degli stipendi;
• la fase sociale, caratterizzata da compiti prevalentemente riguardanti l’at-
tività di mediazione fra l’organizzazione ed il lavoratore;
• la fase politica, contraddistinta da attività inerenti la gestione dei conflitti
sindacali internamente all’organizzazione
• la fase educativa, in seguito alla quale la GRU ha assunto il compito di
preservare e rafforzare l’identità dell’organizzazione.
A tal proposito la GRU può essere implementata, all’interno dell’organizzazione
aziendale, attraverso differenti configurazioni funzionali: amministrazione del personale,
gestione delle risorse umane e, infine, direzione e sviluppo delle risorse umane. Tali al-
ternative pur scandendo l’evoluzione della GRU, non si escludono a vicenda; la scelta
circa quale sia la migliore è relativa e riguarda principalmente le caratteristiche intrinse-
che dell’organizzazione aziendale di riferimento.
La GRU sotto forma di “amministrazione del personale” è caratterizzata da com-
piti prevalentemente di tipo contabile-amministrativo, volti ad amministrare il rapporto
di lavoro. L’amministrazione del personale ha in genere scarsi rapporti con il vertice stra-
tegico e con la linea operativa; tale funzione si limita principalmente ad acquisire gli input
derivanti dalle altre funzioni aziendali al fine di tradurli in attività relative alla gestione
del personale, con particolare riguardo verso le norme legislative e contrattuali. Le “scelte
politiche” relative al reclutamento del personale vengono in tale circostanza usualmente
assunte dal vertice strategico; è il caso delle PMI, nelle quali i rapporti con le risorse
umane vengono intrattenuti da un’unica persona, in genere l’imprenditore (fondatore)
15
.
Tale configurazione è efficace nelle imprese di piccole dimensioni operanti in scenari
statici e poco complessi; risulta altresì implementabile nelle amministrazioni pubbliche,
dove la strategia non determina significativi risvolti circa la gestione del personale
16
. Le
performance di tale funzione sono misurabili in termini di correttezza amministrativa e
legittimità dal punto di vista normativo-contrattuale. L’amministrazione del personale
però è inadatta a gestire scenari complessi od ancora a sopperire ad esigenze di ricambio
generazionale.
13
Carlo Actis Grosso, Professione personale, Isper, 1992, p.15.
14
Rodolfo Buat, Le persone nell’impresa. Strumenti e consigli per gestire le risorse umane nell’economia
della conoscenza, FrancoAngeli, Milano, 2007, p. 15
15
M. Puricelli, La gestione del personale nelle piccole imprese, Etas, Milano, 2004
16
G. Costa, M. Gianecchini, Risorse umane. Persone, relazioni e valore, McGraw-Hill Education, 2013.
9
L’evoluzione, anche e soprattutto in termini di complessità, dell’amministrazione
del personale, è rappresentata dalla funzione di “gestione del personale”; i compiti di tale
configurazione non si esauriscono nella sola funzione amministrativa ma si estendono
all’elaborazione di politiche specifiche di gestione delle risorse umane atte a fornire sup-
porto al vertice strategico ed alla linea operativa; gli aspetti giuridico-amministrativi ven-
gono pertanto inglobati in una prospettiva più ampia e completa. La gestione del perso-
nale gode di autonomia specialistica che si realizza attraverso l’impiego di strumenti pro-
fessionali specifici (tecniche di reclutamento, analisi motivazionali, etc) per fornire sup-
porto a funzioni di linea non aventi competenze in materia di risorse umane. Tale confi-
gurazione gode inoltre di autonomia politica, ciò consente ai responsabili del personale
di elaborare in maniere indipendente politiche inerenti le risorse umane e di risponderne
direttamente ai vertici aziendali.
La terza e ultima configurazione della GRU è denominata “direzione e sviluppo
delle risorse umane”; in questo caso vi è una forte interrelazione tra la strategia d’impresa
e le politiche di gestione delle risorse umane: la business idea ha in sé la human resource
idea
17
. La direzione delle risorse umane è parte attiva nella programmazione dell’attività
aziendale attraverso l’acquisizione e l’emissione di input da e per gli organi di line ed il
vertice aziendale.
I.3. Le risorse umane quale fonte di vantaggio competitivo
A partire dagli anni Ottanta si è andata via via diffondendo la consapevolezza che
le risorse umane nell’organizzazione rappresentano una variabile rilevante dal punto di
vista strategico, esse non devono essere considerate un costo per l’impresa ma, al contra-
rio, una risorsa in cui investire alla stessa stregua del capitale finanziario e delle tecnolo-
gie.
Orbene, occorre innanzitutto inquadrare il concetto di strategia
18
al fine di com-
prendere quali siano gli strumenti e le attività impiegabili per il suo conseguimento e
realizzazione; in tal senso innumerevoli sono le definizioni fornite da eminenti studiosi
di management per definire la nozione di strategia in maniera puntuale. Secondo Porter
la strategia competitiva consiste nell’essere differenti dagli altri, aggiungendo che «la
strategia definisce la posizione competitiva, la differenziazione dell’azienda agli occhi
del cliente, il valore aggiunto fornito mediante un insieme di attività diverse da quelle
utilizzate dai concorrenti. La strategia competitiva è, sostanzialmente, una commistione
di fini (c.d. goals) e di mezzi attraverso i quali l’azienda tenta di raggiungerli»
19
. Secondo
Zimmerman e Tregoe, invece, «la strategia è rappresentata dalla struttura che guida le
scelte che determinano la natura e gli obiettivi dell’organizzazione»
20
. La pianificazione
strategica definisce quindi gli obiettivi che un’organizzazione intende raggiungere in un
arco temporale medio-lungo preventivamente definito; esistono varie metodologie per
17
R.Normann, Service management: strategy and leadership in service business, Wiley, Chichester, 2001.
18
Il termine strategia ab origine veniva impiegato esclusivamente in ambito bellico. In particolare, nell’arte
militare, la strategia indica la tecnica impiegata per individuare gli obiettivi di guerra e le modalità per
colpirli attraverso la predisposizione di mezzi e uomini. Da Enciclopedia Treccani, Vocabolario Online.
19
M. Porter, “What is strategy?”, Harvard Business Review, 1996.
20
B.B. Troegoe, J.W. Zimmerman, Top Management Strategy¸ Simon e Schuster, 1980.
10
sviluppare un piano strategico, di certo però in tal senso svolgono un ruolo fondamentale
la leadership, la cultura, l’ambiente di riferimento, la complessità e le dimensioni dell’im-
presa.
Oggi le imprese operano in ambienti altamente instabili e competitivi, le pressioni
derivanti dalla c.d. ipercompetizione costringono le organizzazioni aziendali a ricercare
nuove opportunità su cui costruire la propria superiorità competitiva
21
; la sopravvivenza
ed il perseguimento degli obiettivi organizzativi dipende pertanto dalla capacità dell’or-
ganizzazione imprenditoriale di far leva su diverse risorse
22
. L’obiettivo strategico preci-
puo è pertanto quello di ottenere un vantaggio competitivo sostenibile inteso come «la
capacità distintiva (o competenza distintiva) di superare gli avversari nel raggiungimento
del suo obiettivo primario: la redditività
23
».
La comprensione e la gestione delle fonti del vantaggio competitivo è senza dub-
bio una delle principali aree di ricerca del c.d. management strategico di cui Porter, come
precedentemente accennato, fu uno dei massimi esponenti. Questa tipologia di approccio
gestionale si realizza attraverso la SWOT analysis, in base alla quale si effettuano in via
complementare e contemporanea due studi riguardanti l’ambiente interno, in termini di
punti di forza e punti di debolezza, riconosciuti quali elementi caratterizzanti dell’orga-
nizzazione da analizzare; e l’ambiente esterno in termini di opportunità e minacce. Porter,
pertanto, suggerisce che le imprese dovrebbero analizzare il proprio ambiente competi-
tivo (secondo i due punti di vista dapprima indicati), individuare e selezionare la strategia
più adeguata a perseguire gli obiettivi strategici e, infine, reperire le risorse necessarie.
Porter, pertanto, parte dall’assunto che tutte le organizzazioni siano in possesso delle me-
desime risorse o quantomeno siano in grado di acquisirle.
Al contrario dell’approccio tradizionale dello strategic management di Porter,
nella c.d. resources based view
24
di Barney
25
le risorse inglobano tutti «gli asset, le capa-
cità, i processi organizzativi, le caratteristiche dell’impresa, le informazioni e le cono-
scenze che le consentono di implementare strategie che ne aumentano l’efficacia e l’effi-
cienza» e producono un effetto discriminante tra le varie imprese. Questo approccio stra-
tegico considera l’impresa come un coacervo di risorse e capacità uniche ed identificanti,
e riconosce al management il compito precipuo di massimizzare l’efficacia e l’efficienza
dell’azione aziendale attraverso uno spiegamento ottimale di tali risorse, talvolta presenti
21
R. A. D’Aveni, Coping with hypercompetition: Utilizing the new 7S's framework, Academy of Manage-
ment Executive, Vol. 9, No. 3, 1995, p.45.
22
A. Fischietti, La gestione delle risorse umane. Processi e strumenti, Alpha Test, Milano, 2007.
23
R.M. Grant, L'analisi strategica per le decisioni aziendali, Il Mulino, Bologna, 1999, p. 218.
24
La Resourced Based View (o, in italiano, visione basata sulle risorse) è un approccio manageriale secondo
cui ciascuna organizzazione aziendale è caratterizzata da una dotazione di risorse eterogenee, difficilmente
imitabili e riproducibili, in grado di consentirle di ottenere un vantaggio competitivo sostenibile rispetto
agli altri competitor. La RBW parte dall’assunto che non tutte le risorse hanno parti importanza, ma alcune
possiedono delle caratteristiche une in grado di fornire all’impresa un vantaggio dal punto di vista strate-
gico. Uno dei maggiori esponenti della RBW Fay Barney che attraverso il suo articolo “Firm Resources
and Sustained Competitive Advantage” (1991) introdusse per la prima volta tale prospettiva nel mondo
accademico.
25
Jay B. Barney è un docente americano di gestione strategica, noto soprattutto per i suoi contributi alla
teoria del vantaggio competitivo basata sulle risorse.
11
all’interno della struttura organizzativa anche in forma tacita, ovvero non palese. In par-
ticolare Barney individua tre differenti tipologie di capitale:
• il capitale fisico, che include risorse tangibili quali: la tecnologia, le attrez-
zature, gli stabilimenti, i terreni; ecc;
• il capitale organizzativo, che comprende tutte le risorse inerenti la struttura
organizzativa e decisionale;
• il capitale umano, concernente le caratteristiche che contraddistinguono i
membri dell’organizzazione, ovvero l’esperienza, l’intelligenza, le rela-
zioni, le competenze, l’apprendimento, la capacità di problem solving.
Le risorse umane pertanto, in termini di capitale umano, rientrano a pieno titolo
tra le fonti in grado di produrre un vantaggio competitivo; tale potenzialità deriva princi-
palmente dalle caratteristiche uniche e non riproducibili che caratterizzano i membri di
ogni organizzazione. Non tutte le risorse però possiedono il potenziale per generare un
vantaggio competitivo; affinché ciò sia possibile una risorsa deve possedere le seguenti
caratteristiche:
• validità, la risorsa deve ciò essere realmente utile per la strategia aziendale;
compito del management in tal senso è quello di riuscire ad identificare le
risorse organizzative con del potenziale;
• rarità, se una risorsa valida fosse comune, cioè a disposizione di numerose
altre organizzazioni, questa non sarebbe più in grado di fornire un vantag-
gio competitivo in quanto potrebbero servirsene anche altri competitor,
non fungerebbe più da elemento discriminante;
• incerta imitabilità, tale caratteristica è strettamente collegata all’elemento
della rarità; una risorsa valida e rara per poter generare vantaggio compe-
titivo non deve essere replicabile od imitabile da altre organizzazioni
26
;
• non sostituibilità strategica, il fatto che la medesima strategia possa essere
attuata con risorse differenti ma efficaci allo stesso modo vanificherebbe
la produzione del vantaggio competitivo da parte dell’organizzazione.
L’obiettivo perseguito dalla gestione strategica delle risorse umane è pertanto
quello di allocare e impiegare tali risorse in modo che queste riescano ad assicurare all’or-
ganizzazione un vantaggio competitivo. La relazione tra strategia e gestione delle risorse
umane può essere analizzata attraverso tre modelli:
Modello lineare (o classico), la strategia precede l’organizzazione; tale modello è
usualmente impiegato in ambienti operativi stabili e prevedibili, soprattutto nell’ambito
di piccole imprese dove il potere decisionale è molto concentrato al vertice dell’organiz-
zazione. In sostanza, il management stabilisce la strategia che l’organizzazione dovrà per-
seguire e solo dopo costruisce una struttura organizzativa adatta a perseguirla all’interno
della quale saranno collocate le risorse umane necessarie. Attraverso la strategia si stabi-
lisce “cosa produrre” e mediante la struttura organizzativa si stabilisce “come produrre”,
si realizza una ripartizione di competenze che dà vita al c.d. paradigma strategia-strut-
tura
27
.
26
S.A. Lippman, R.P. Rumelt, Uncertain imitability: an analysis of interfirm differences in efficiency under
competition, The Bell Journal of Economics, Vol. 13, n.2, 1982, pp. 418-438.
27
Paradigma strategia-struttura o paradigma chandelriano; approccio del modello lineare secondo cui il