4
Ed è proprio in questo contesto storico-culturale di proscrizione
subita, che un manipolo di nostalgici raccoglie le proprie fila e si
riorganizza per lanciare una velleitaria sfida «agli invasori mascherati da
liberatori sulla pelle dell’Italia sconfitta, ed a quanti ne applaudono
prodezze, promesse, sigarette e cioccolato».
E’ giocoforza che nella sua fase costitutiva, fase caratterizzata dalla
necessità di “ritrovarsi”, di ricompattare questa collettività dispersa dalla
diaspora bellica e postbellica, il partito sia spinto ad una linea che lo renda
facilmente visibile e distinguibile dalle altre aggregazioni presenti nel
panorama politico. Tale linea si caratterizzerà essenzialmente per una
vocazione testimoniale e sarà volta all’affermazione ostinata della
persistente bontà di quei valori e principi che, così si sosteneva, sarebbero
presto riemersi dalle sabbie mobili in cui “l’esarchia ciellenista” li aveva
costretti. Questo nucleo umano che la comunità missina rappresenta, si
acconcia quindi, in attesa di tempi più propizi, a recitare un ruolo di
retroguardia, quale custode geloso e traghettatore impavido della fiaccola di
una certa testimonianza dalle generazioni passate a quelle future.
Ed in questa fase storica, che Piero Ignazi identifica con l’appellativo
di « fase fluida» del M.S.I.
2
, vari e concomitanti sono i fattori, di carattere
politico interno ed internazionale, di carattere organizzativo e culturale, che
concorrono a determinare, all’interno del partito, una mistica di fascismo
«duro e puro».
2
PIERO IGNAZI, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano, Il Mulino, Bologna 1989, pag.
306.
5
Tale mistica rifiuta di fare i conti con l’evoluzione storica e si
costruisce un “ridotto” incontaminato nelle coscienze in cui continuare a
coltivare miti vuoti e sorpassati certamente, ma anche tremendamente
aggreganti per chi non si era rassegnato a quello “sciopero morale” degli
italiani, seguito all’abbattimento dei grandi busti di gesso del Duce, da
parte della furia popolare. S’innesta un meccanismo reattivo per cui, tanto
più acuta è la ghettizzazione-marginalizzazione del M.S.I. (fondata sul
teorema antifascista come discriminante unica nella determinazione della
cosiddetta «area della legittimità» del nostro sistema politico), tanto
maggiore è la sua radicalizzazione ideologica come scudo protettivo che
ricompatta e rivitalizza l’organizzazione.
Ma si badi bene che questi traghettatori della fiaccola di una certa
testimonianza, questi stanchi ripetitori di vecchi miti, questi «neofascisti»,
secondo la felice definizione coniata da un giornalista svizzero, furono ben
presto riproduttori fedeli anche delle mille contraddizioni che avevano
costituito la caratteristica e l’irripetibilità del loro più “illustre” antenato
politico
3
.
In una brillante serie di articoli, pubblicata sulle pagine de «Il
Mondo» nell’aprile 1954, Enzo Forcella rintracciava, all’interno del
panorama neofascista, tendenze e finalità contraddittorie fin dalla sua fase
incipiente e cioè quella dei Fasci d’azione rivoluzionaria (F.A.R.). Forcella
individuava in particolare :
«il gruppo dei “politici”, che si autodefiniva “rivoluzionario” e che accentuava
artatamente le affermazioni di intransigenza, ma che concepiva in realtà i F.A.R. come
un organismo di passaggio, tra la fase clandestina del neofascismo e quella pubblica; e
il gruppo degli “integralisti” che i suoi avversari definivano “utopisti”».
4
3
Afferma Roberti nel suo L’opposizione di destra in Italia 1946-79, «Nel Fascismo c’era tutto.. c’era la
destra e la sinistra, il passato e l’avvenire,la storia e l’antistoria, il Vecchio e il Nuovo Testamento, la
superstizione religiosa e l’ateismo...Era un’opposizione di uomini, di clan, di generazioni, d’idee,
d’ideologie persino..».
4
ENZO FORCELLA, in «Il Mondo» del 13 aprile 1954.
6
Aggiungeva ancora che :
« il fascismo come movimento di rottura e di disperazione, ultima trincea dello
squadrismo diciannovista tenuto in disparte nel corso del ventennio e dei suoi figli che
avevano tentato di risollevarne la bandiera sul Garda, aveva esaurito le sue possibilità a
Salò. Aveva però lasciato un gruppo di irriducibili, giovanissimi per la più parte, che
aveva partecipato ad un gioco del quale non conoscevano né la posta né le regole e che
ora si esaltavano nella figura di diseredati, sconfitti ma non convertiti, stranieri in
Patria».
Erano quei “giovani di Mussolini” di cui parla nel suo libro dal
titolo significativo, «A cercar la bella morte»
5
, Carlo Mazzantini : giovani
che avevano intrapreso quel lungo viaggio attraverso il fascismo senza mai
porsi il problema del ritorno ed in cui il trauma dell’inatteso abbandono, da
parte della collettività umana, di quel credo ufficiale dell’Italia del
Ventennio nel quale avevano compiuto l’intero ciclo della formazione
personale, generò un’impulsiva voglia di riscatto. Quest’ultima trovò una
valvola di sfogo nei 500 giorni di Salò e alla fine fu frustrata dalla difficoltà
dei rapporti con i tedeschi alleati, dall’orrore quotidiano dello scontro
fratricida e dal catastrofico esito dell’aprile 1945.
Ma accanto a questi giovanissimi, Forcella nota anche la presenza
«di gente desiderosa di ritrovare il posto, costruirsi una qualche posizione
politica facendo leva proprio sul patrimonio nostalgico di quei reduci. Per questo fine
serviva assai meglio la lotta alla luce del sole; tanto più che presto le condizioni
politiche del paese l’avrebbero resa possibile».
5
CARLO MAZZANTINI, A cercar la bella morte, Mondadori, Milano 1986. Per una ricostruzione più
ampia ed articolata delle ansie, delle aspirazioni ed anche delle velleità revansciste del panorama
giovanile nostalgico, si veda la documentata opera di ADALBERTO BALDONI, Noi rivoluzionari,
Settimo Sigillo, Roma 1986, in cui l’autore (nonché protagonista partecipe delle vicende narrate)
ripercorre, con sufficiente distacco critico, quel periodo di storia repubblicana per molti ancora
“intellettualmente infrequentabile”.
7
Nella ricostruzione delle vicende politico-organizzative che
caratterizzarono e segnarono la parabola storica del M.S.I. nella sua fase
incipiente, ritengo necessario dover richiamare un’altra osservazione del
Forcella:
«ognuno [..dei neofascisti..] naturalmente, agiva per suo conto: a volte
cercando disperatamente di stabilire qualche aggancio con gli altri gruppi affini dei
quali intuiva l’esistenza, altre volte chiudendosi in uno sprezzante isolamento.
L’atmosfera rassomigliava un poco, ( con molto meno “demoniaco” ) a quella dei
quintetti del dostojeschiano Verchovenschij : un gruppo si muoveva presupponendo
l’esistenza di migliaia di altri gruppi comandati da un’unica centrale, senza peraltro aver
la certezza che esistevano davvero gli altri gruppi e la centrale. . Di qui il senso di attesa
messianica o di accorata solitudine che prendeva alternativamente questi giovani
sbandati».
6
E direi che la storia del M.S.I. dei primi anni è tutta qui, al di là delle
strumentalizzazioni di chi aveva interesse ad ingigantire l’importanza di un
settore politico il cui peso ormai, anche se non proprio esattamente
quantificabile per l’obiettiva nebulosità della contingenza politica, era poco
più che irrilevante, e al di là dei proclami e delle autoesaltazioni di questi
“stranieri in patria”, suddivisi più o meno equamente in giovani disorientati
e ideologicamente radicalizzati
7
e vecchi esponenti della politica e della
società civile che, colpiti dall’epurazione, erano pronti a usare i primi come
massa di manovra e arma di ricatto necessaria per rientrare in gioco.
6
ENZO FORCELLA, art. cit.
7
E’ importante, a mio avviso, notare come questi giovani salotini, poi raccoltisi intorno al M.S.I. o ad
altri gruppi di estrema destra, costituissero un fenomeno del tutto nuovo nella tradizione politica italiana:
essi infatti hanno rappresentato, nel panorama nazionale, un’ansia rivoluzionaria sui generis, potremmo
dire quasi “autarchica”. Staccandosi dalle illusioni e dalle speranze, tradizionalmente nutrite dalle più
irrequiete tra le giovani generazioni nostrane, nell’avvento di qualche rivoluzione straniera beneficamente
rinnovatrice, essi hanno cercato in se stesse e nella tradizione politica, economica, sociale e talvolta anche
religiosa del Paese, le possibilità effettive e reali di rinnovamento.
8
La conferma più o meno esplicita di ciò l’ho avuta in una
conservazione svoltasi di recente con Oddone Talpo, uno dei pochi
esponenti ancora in vita del M.S.I. dei primissimi anni. Questi pochi
superstiti, lucidissimi pur se ultraottuagenari, costituiscono l’unica ancora
di salvezza per il ricercatore che voglia andare un po' oltre la
documentazione ufficiale (peraltro scarsa e schematica); costituiscono, in
altre parole, l’unica possibilità di rompere quel muro di reticenza e
noncuranza che caratterizza l’ambiente politico missino e post-missino.
8
Sia detto per inciso, questa noncuranza per la parte storico-culturale è un
difetto di antica data del partito
9
, tanto che lo stesso Talpo raccontava con
scanzonato compiacimento l’autentico furore con cui la studiosa tedesca
Petra Rosenbaum, ( e si badi che stiamo parlando degli anni ‘70, anni in cui
il M.S.I. pretendeva di impostare su più salde basi una linea di rinnovato
impegno culturale), lamentava le difficoltà insormontabili che incontrava
nella sua ricerca delle prime mozioni congressuali del M.S.I., data la
8
A parziale giustificazione di questo inveterato atteggiamento di riserva mentale nei confronti di tutto ciò
che concerne la documentazione storiografica del partito, potrebbe essere addotta la motivazione portata
da Giano Accame in un’intervista personalmente rilasciatami, in data 19 Gennaio ‘99, a Roma: «la nostra
storia si era arrestata il 25 Aprile ‘45, e non pensavamo o meglio non volevamo assolutamente pensare di
poter tornare a far parte di essa in quelle condizioni, ossia da sconfitti. Questo è stato, bene o male, un
dato che ci ha accompagnato fino a Fiuggi. Si pensi ad esempio a tutti quei consiglieri comunali
(soprattutto al sud), reduci di Salò, sempre all’opposizione e guardati un po' come gli “scemi del
villaggio”. In quelle condizioni non potevano certo pensare di costituire la storia. Ora che, magari,
qualcuno di essi grazie soprattutto a Tangentopoli é diventato anche sindaco, la prospettiva é sicuramente
cambiata».
9
Nella prefazione al libro Noi rivoluzionari di ADALBERTO BALDONI, Niccolai si chiede «perchè, nei
primi tre lustri del dopoguerra, all’epoca in cui il centrismo combatteva e discriminava gli “opposti
estremismi”, la nostra posizione di missini era relativamente migliore di quella dei comunisti. E perchè
quella posizione si è rovesciata...[Quando si vanno a snodare] i fatti viene fuori l’accorto, metodico
lavoro politico dei comunisti nella loro strategia a lungo termine del dialogo (che è cosa diversa
dall’intrallazzo), della conquista di nuovi strati sociali e dell’intelligenza, dell’attenzione portata al
mondo della cultura, delle arti, dello spettacolo. In casa nostra questo confronto di metodo non si è mai
posto». Chiari indizi di quello che sarebbe stato l’atteggiamento del mondo neofascista dinanzi
all’elaborazione culturale li troviamo nella lucida analisi che Mario Tedeschi, in Fascisti dopo Mussolini,
fa di questo mondo: «[ci sentivamo] relativamente preoccupati dei problemi dottrinari. Meglio:.. non
credeva[mo] che la nostra forza politica, e la forza dell’organizzazione, sarebbe stata di molto accresciuta
da un’integrale disamina di questi problemi... [ci] rendeva[mo] conto che l’aver combattuto con il
fascismo fino all’ultimo respiro, magari il solo fatto di non aver rinnegato le ragioni della guerra durante
la prigionia, [ci] classificava già in maniera precisa, e riteneva[mo] che questo bastasse. Era inutile andare
a cercare altro, urgente invece rientrare nella battaglia che si stava combattendo». Tale forma mentis
accompagnò il partito missino per gran parte della sua esistenza.
9
mancanza di qualsiasi raccolta archivistica
10
. Nei proclami ufficiali del
M.S.I. si faceva un gran parlare della necessità di pacificazione, c’era
un’inflazione di anatemi contro l’“avvelenamento” marxista della cultura e
contro le ricostruzioni storiche unilaterali, si sentenziava “urbi et orbi” (ma
evidentemente solo ad uso interno ) che « chi non ha passato non ha futuro,
chi non ha memoria non ha identità» : ma è più che fondato quanto Marco
Tarchi osserva a proposito della scarsezza di studi scientifici sul M.S.I., e
cioè che
« la separatezza dalla cultura ufficiale è stata vista e vissuta fino ad oggi da
quest’area come una garanzia, come il contrassegno assicurativo di una socializzazione
politica che si è svolta tutta all’interno del gruppo di appartenenza, senza rischi di
inquinamento o di aperture al confronto e al dubbio».
11
Tornando alle parole di Oddone Talpo, che fu tra i primi ad occuparsi
della definizione di una linea di politica estera del partito ( tenne uno dei
primi interventi ufficiali sull’argomento al Congresso di Napoli , nel 1948),
« la linea politica interna ed internazionale del M.S.I. in quei primi anni era
fatta molto di proclami, rivendicazioni ed autoesaltazioni da parte del manipolo di
giovani che all’inizio componeva quasi per intero il partito e molto poco di azioni,
prospettive e realizzazioni concrete».
12
Ed incentrando l’attenzione sull’oggetto principale di questa
trattazione, ossia la politica estera del partito, continuava:
« Fu Gianluigi Gatti, con un lavorio instancabile durato qualche anno, a dare
una certa consistenza a questo settore; Gatti poté inoltre contare sull’apporto di persone
che avevano una certa dimestichezza con questioni di respiro internazionale, come il
marchese Giorgio Gozzi che era stato consigliere di legazione a Belgrado e come,
soprattutto, Filippo Anfuso, ambasciatore a Berlino: mi riferisco naturalmente al
periodo della Repubblica di Salò. Ma per quanto concerne i primissimi anni, quelli in
cui il M.S.I. era più identificabile come un movimento che come un partito, cioè quelli
10
PETRA ROSEMBAUM, Il nuovo fascismo da Salò ad Almirante. Storia del M.S.I., Feltrinelli, Milano
1975.
11
MARCO TARCHI, Esuli in Patria, Guanda, Parma 1995, pag. 8.
12
Testimonianza personalmente resami da ODDONE TALPO, Roma 1 ottobre 1998.
10
in cui potevamo dirci più che altro un’associazione tra il reducistico ed il culturale che
non pensava affatto di immettersi nell’agone politico nazionale, ma che era assorbita
quasi esclusivamente da questioni, direi, di piccolo cabotaggio; ebbene in quei primi
anni la linea di politica estera era un po' lasciata ad interventi ed iniziative a braccio
dei singoli componenti. Non ricordo che ci venissero mai impartite direttive né da
Almirante, allora segretario, né da nessuno, non c’era una linea ufficiale ed in fondo
non ce n’era bisogno perché avevamo tutti una medesima provenienza ed un medesimo
sentire [...] il trattato di pace colpiva il nostro immaginario e diventava argomento di
battaglia. La bandiera italiana, il tricolore, era prerogativa del M.S.I.: gli altri non
portavano la bandiera nazionale, ma la bandiera rossa, o la bianca, ecc.. Insomma sulla
falsariga di certi presupposti, per il resto poi si improvvisava, naturalmente sull’onda
anche delle ripercussioni dei vari avvenimenti nazionali ed internazionali».
Per dare una dimensione più chiara di quanto affermava, Talpo
prendeva ad esempio il I congresso, quello di Napoli:
13
« Il congresso fu dovuto all’opera instancabile di Gianni Roberti che era a capo
della sezione del M.S.I. forse più forte in assoluto, quella appunto di Napoli. Roberti
era uomo di grande sagacia e capì che l’intelaiatura di un congresso doveva basarsi su
alcuni punti fermi; ed allora, visto che io ero un profugo di Zara, per cinque anni
prigioniero degli alleati e direttore a Milano del foglio “Campo 25” che raccoglieva un
po' le varie voci dei reduci dai campi dei “non-cooperatori”, pensò di attribuirmi, con
criterio quindi improntato alla sola improvvisazione, la cura della relazione sulla
politica estera».
Il velleitarismo di certe posizioni, che più si sapevano lontane dalla
realtà più aumentavano, quasi in un circolo vizioso, tanto l’acredine dei
proclami sulla prostrazione della situazione contingente quanto l’attesa
messianica di un capovolgimento politico improvviso; la
strumentalizzazione da parte di chi aveva tutto l’interesse ad alimentare il
mito di questo Schreckbild ( per usare un termine Noltiano), nel tentativo
disperato di prolungare la vita alla ormai moribonda formula ciellenista
14
;
13
Il Congresso di Napoli si tenne alla «Sala Tarsia», nei giorni 27-29 giugno 1948.
14
Cfr. ad esempio le analisi di RENZO DE FELICE su Rosso e Nero, a cura di P. Chessa, Milano
Baldini & Castoldi, 1995, pagg. 101-106.
11
la lungimiranza di chi, invece, aveva già calcolato tempi e modi per il
reinserimento, navigando nelle agitate acque neofasciste ma avendo di mira
l’approdo sicuro, seppur strumentale, nel porto democratico: questi sono i
dati essenziali che, chiunque si voglia accostare alle prime battaglie (in
verità più verbali che concrete) del partito, deve tener presente.
Strumentalità e velleitarismo tanto più acuti se ci si occupa di un
campo, la politica internazionale, in cui i neofascisti avevano sicuramente
meno carte da giocare rispetto al settore della politica interna, ma allo
stesso tempo un settore che, forse più degli altri, offriva tante opportunità
di agitazione propagandistica e nostalgica. Osserva acutamente Roberto
Chiarini che,
« la polemica sulla politica estera, diventa il terreno privilegiato per smontare il
paradigma dell’antifascismo posto alla base della nascente repubblica e della
conseguente stabile discriminazione del M.S.I.».
15
La politica estera è non solo un terreno polemico privilegiato, ma
sarà anche il punto focale dei contrasti e dei rapporti di forza all’interno del
movimento da cui, alfine, emergerà, come nota Finotti, «quella parte dotata
di notevoli capacità di adattamento alla nuova situazione che si saprà
togliere rapidamente il lutto per indossare l’abito più adatto al presente»
16
(parte che, peraltro, continuerà a piangere il morto ed a “struggersi” nel
ricordo del passato, finendo così per distinguersi dai tanto aborriti
“badogliani”, solo per questo profilo, formale più che sostanziale).
Nella caustica prosa di Ugo Cesarini, uno degli esponenti di spicco,
nel corso degli anni ‘60, del Raggruppamento giovanile studenti e
lavoratori del partito (R.G.S.L.),
15
Cfr. ROBERTO CHIARINI, “Sacro egoismo” e “missione civilizzatrice”, in «Storia contemporanea»,
maggio-giugno 1990 (3), pagg. 541-560.
16
Cfr. STEFANO FINOTTI, Difesa occidentale e Patto Atlantico: la scelta internazionale del M.S.I.
(1948/1952), in «Storia delle relazioni internazionali», gennaio-febbraio 1988, pagg. 85-124.
12
«in quei primi anni di vita il M.S.I., ed in particolare la spregiudicata “fascia”
almirantiana, continuava a ballare il lezioso minuetto delle mozioni “intransigenti”
quale indispensabile cortina fumogena di transigentissime manovre». Ed aggiunge
ancora che, «il M.S.I. era il fascismo ad uso e consumo del C.L.N.: in camicia nera sì ,
ma con sotto l’impermeabile».
17
Tuttavia il quadro “genealogico” del partito non potrebbe dirsi
esaustivo se trascurassimo di comprendervi anche quello sparuto gruppo di
combattenti che aveva preferito incorrere nei rigori della prigionia nei
campi allestiti per i “non cooperatori” (rigori che spesso la storiografia
nostrana ha colpevolmente ricoperto di un velo di compiacente riguardo nei
confronti dei vincitori
18
), piuttosto che entrare a far parte di quella nutrita
schiera di italiani che, ad un certo punto, trovò più “consono” adottare una
linea di condotta improntata al primum vivere. Per capire le ragioni della
loro scelta di sposare la causa missina, peraltro non unanime e non sempre
priva di tensioni e contrasti, bisogna ricostruire ed inquadrare un po' più
approfonditamente le vicende che costituirono premessa decisiva per le
loro scelte successive.
L’eroismo misurato sui campi di battaglia, la fermezza messa a dura
ma orgogliosa prova in prigionia, la fede politico-ideale che oltrepassava i
motivi propri del Fascismo (componente importante ma non fondamentale
di questa “oltranza” che trovava le proprie radici più profonde in un senso
di lealtà, dignità ed onore al servizio della Patria più che di una “Idea”)
finendo con l’abbracciare l’ardore ideale del Risorgimento e della Prima
guerra mondiale: tali erano le note distintive di questo nocciolo duro del
17
UGO CESARINI, Dai Fasci d’azione rivoluzionaria al “doppio petto”, Isc, Roma 1992, pag.26.
18
E’ significativo a questo proposito far rilevare che soltanto di recente, ad oltre cinquant’anni di
distanza, la Magistratura italiana ha deciso di aprire un fascicolo relativo alle vicende accadute nei due
campi di concentramento alleati stanziati in territorio italiano: cioè quelli di San Rossore e Coltano. Il
Pubblico Ministero del Tribunale militare di La Spezia, dott. Bolla, ha infatti aperto un fascicolo a carico
del comandante la Divisione americana “Buffalo”, maggior generale Eduard Almond, e dei suoi diretti
dipendenti, per gli omicidi e le torture perpetrate ai danni dei prigionieri di guerra reclusi nei due campi
suddetti.
13
combattentismo cui mal si addiceva la catalogazione nel novero degli
“sconfitti dalla Storia”. Ad essi soltanto infatti (essendo scappati per tempo
gli altri “commensali”), la Storia aveva potuto presentare il conto: ma tra di
loro erano stati pochissimi quelli che avevano covato realmente
l’ambizione di cambiare il corso dell’umanità, essendo per la maggiorparte
figli di una realtà contadina, povera anche se dignitosa, che aveva offerto al
Fascismo la propria complicità ma che, al di là di ogni retorica, aveva
continuato a coltivare i propri immutabili gesti, riti ed insegnamenti. Nel
diario di prigionia di uno di essi, l’allora tenente Vittorio Campobassi
19
,
troviamo una significativa testimonianza di come l’opera di “pulizia
ideologica”, che i vincitori conducevano con messianico furore nel
tentativo di “convertire” i prigionieri alla propria causa, non poteva
riscuotere un reale successo, essendo impostata su un malinteso concettuale
di fondo. La loro lotta, la loro ostinazione, era leale servizio della Patria e
non soltanto e meramente di un’Idea. Certamente il loro concetto di Patria
era inquadrato secondo canoni ben precisi, ma bisogna sempre tener
presente che il Fascismo, com’è stato ampiamente dimostrato, non costituì
mai una realtà talmente assorbente e totalizzante da far legittimamente
inferire che, se al ritorno nel suolo natio avessero trovato una realtà diversa
da quella affannosamente ed interessatamente protesa a cancellare ogni
traccia del loro sacrificio, questi valorosi avrebbero comunque rifiutato
qualsiasi rivisitazione e finanche edulcorazione di certe esasperazioni
nazionalistiche. Secondo le parole di Campobassi, in un’intervista
concessami di recente
20
,
19
Vittorio Campobassi fece ritorno in patria con l’ultimo contingente di italiani rimpatriato da Hereford
(primavera del 1946), e dopo neanche un anno fondò a Pescara una delle prime sezioni provinciali del
Movimento Sociale Italiano: il verbale di costituzione reca la data del 1° Febbraio 1947 e risulta
sottoscritto, oltre che dal suddetto Campobassi, anche da Giuseppe Muscente (segretario provvisorio),
Giuseppe De Sanctis Ricciardone, Giuseppe Gaiano ed Alessandro Muscente.
20
Intervista rilasciatami il 10/5/1998 a Pescara.
14
«nessuno può onestamente affermare che se Badoglio, una volta destituito
Mussolini, avesse proseguito la guerra affrontando con virile fermezza l’ineluttabilità
del destino bellico italiano
21
, piuttosto che esporre la Nazione allo scherno ed al
vilipendio di vinti e vincitori, i “non cooperatori” avrebbero mostrato una minore lealtà
e tenacia
22
».
Il diario di prigionia del tenente Campobassi si apre con una frase
significativa, che a noi italiani d’oggi non dice niente ma che,
probabilmente, in quel triste periodo doveva essere entrata nelle teste di
molti “Non” come un’ossessione: ..«sign your John Hancork».. Gli “M.P.”
americani passavano tra i prigionieri con un ciclostilato in cui, in un
italiano stentato, il prigioniero veniva invitato a dichiarare la propria
adesione alla causa Alleata: per chi firmava zuccherini e pagnotte, per i
recalcitranti un ulteriore riduzione della già scarsa razione alimentare.
John Hancork, per il prigioniero Campobassi, rappresentava un
esempio di dedizione alla Patria fino alle estreme conseguenze, estensibile
a qualsiasi leale servitore della causa nazionale. Egli infatti annotava:
«frase popolare americana per dire di firmare chiaramente.. Prese origine da
John Hancork che per primo firmò la Dichiarazione d’Indipendenza, mentre gli altri
delegati temevano e discutevano sulle gravi conseguenze che sarebbero loro derivate, in
caso di fallimento della rivoluzione nazionale. Egli appose la propria firma chiaramente,
rompendo ogni esitazione.. Hancork, firmando, pronunciò queste parole: “There is my
name, gentlemen; the king of England can read that without putting his glass on
either!”».
Poi con un’icastica associazione mentale aggiunge: «La Costituzione americana,
alla sez. 3, art.3, definisce il reato di tradimento così: “treason against the U.S. shall
consist only in levying war against them, or adhering to their enemies, giving them aid
and comfort”...Nessuno, né il Presidente, né i congressisti, né i senatori possono
21
Curzio Malaparte, nell’opera La pelle, così racconta l’8 Settembre: «Un magnifico giorno...tutti noi
ufficiali e soldati facevamo a gara a chi buttava più “eroicamente” le armi e le bandiere nel fango...Finita
la festa, ci ordinammo in colonna e così senz’armi, senza bandiere, ci avviammo verso i nuovi campi di
battaglia, per andare a vincere con gli Alleati questa guerra che avevamo già persa con i tedeschi...E’
certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra sono tutti buoni, non tutti
sono capaci di perderla».
22
A conferma di questa quasi ascetica esigenza di coerenza, frutto non tanto di un fanatico
indottrinamento ideologico, quanto piuttosto di un innato spirito di difesa e riaffermazione dei valori
della tradizione italiana, si può citare una frase di Mario Gandini, contenuta nel suo romanzo
autobiografico La caduta di Varsavia: tale frase nella sua voluta paradossalità trova il modo forse più
efficace per spiegare il perchè di certe scelte. Gandini afferma che «se invece di Mussolini a Salò ci fosse
stata Greta Garbo, la nostra scelta non sarebbe cambiata perchè era mossa soltanto da senso dell’onore e
della fedeltà al ricordo dei soldati italiani caduti accanto a noi».
15
cambiare tale definizione senza un emendamento della Costituzione ratificato da due
terzi degli Stati....La definizione di tradimento contenuta nella Costituzione dovrebbe
garantire il popolo dal pericolo che la definizione possa essere cambiata ed usata da
quelli che sono al potere per distruggere i loro avversari».
Il tenente Campobassi sta apparentemente esaminando l’impalcatura
costituzionale statunitense, ma è chiaro che il suo pensiero è in realtà
rivolto alla situazione italiana, la quale gli appare assolutamente
incomprensibile anche se analizzata secondo parametri di valutazione
morale e giuridica (quelli anglosassoni appunto) distanti da quelli che gli
erano più familiari.
Campobassi, come centinaia d’altri compagni di sventura
23
sperimenta sulla sua pelle un’autentica nemesi storica: da alfiere della
causa nazionale si vede degradato alla condizione di traditore al servizio
dello straniero. Ed analizzando la fattispecie prevista dalla Costituzione
americana per la configurazione di un tale reato sembra volersi difendere da
un’ accusa così infamante, rivendicando una superiorità morale che i
vincitori sembravano voler negare anche di fronte all’evidenza delle loro
leggi.
A questo punto sembra opportuno richiamare un’illuminante
squarcio sulla situazione italiana in quel tormentato dopoguerra, disegnato
dalla penna di Sergio Romano: in un articolo pubblicato su «Limes»
24
il
celebre politologo osserva come il collocarsi al di là della Nazione, al di
fuori di essa, fu in quegli anni l’atteggiamento tipico di quanti, singoli e
gruppi, volevano dimostrare la loro totale estraneità (sull’onda delle teorie
parentetiche crociane), al complesso fascista della « Nazione soprattutto».
L’impossibilità di parlare della seconda guerra mondiale se non in termini
23
Gianni Roberti nel suo L’opposizione di destra in Italia ( Pag.27) cita alcuni di questi reduci, ed in
particolare quelli di Hereford: oltre al Campobassi ed ai più famosi Roberti, De Totto, Mieville e Boscolo
(collaboratore del periodico «Volontà»), troviamo Deserti, Martinuzzi e Massari a Bologna, Paolo
Foscari a Venezia, Saponara a Brindisi ed a Milano Martucci e Girardini.
24
SERGIO ROMANO, Perché gli italiani si disprezzano, «Limes», novembre-dicembre 1994.
16
ambigui e vittimistici, per cui gli uomini politici antifascisti potevano
proclamare di essere stati ingiustamente e violentemente espropriati del
potere, mentre l’italiano medio poteva sostenere d’essere stato oppresso da
una dittatura aliena (riuscendo con questa menzogna a finire la guerra nel
campo dei vincitori) si ripercosse all’indietro su tutto il passato nazionale,
colpendone a morte le memorie.
Se Mussolini aveva portato al re l’Italia di Vittorio Veneto, era
impossibile ormai parlare di Vittorio Veneto con accenti patriottici.
L’orgoglio nazionale fu, di conseguenza, totale appannaggio della destra
radicale d’ispirazione fascista, divenendo così quasi come in un
meccanismo di reazione a catena, ancor più anomalo, illegittimo ed
eterodosso.
Si creò in tal modo un vuoto di coscienza storica; intellettuali
marxisti e cattolici riscrissero la storia patria secondo una diversa
prospettiva, con la nuova sequenza cronologica che comprendeva soltanto
sconfitte, ribellioni, moti popolari, repressioni militari e poliziesche.
Cosicchè, quando nella primavera del ‘46 suonò anche per i “non
cooperatori” l’ora del ritorno in Patria, tutti questi “irriducibili” provenienti
da Yodl (India), da Hereford (Texas) o da Burguret (Africa), si trovarono
nella condizione di dover giustificare l’atteggiamento tenuto in prigionia,
considerato con ostilità e disprezzo.