1
INTRODUZIONE
La possibilità di identificare la menzogna ha da sempre suscitato grande
interesse nell’uomo. Differentemente dalla favola di Pinocchio, in cui il buraino
vede il suo naso allungarsi inesorabilmente ogni volta che pronuncia una bugia,
non esistono indicatori così evidenti e incontrovertibili che consentono di
individuare se un soggeo stia effeivamente mentendo. Diversi studi
1
, infai,
hanno dimostrato l’incapacità degli uomini – compresi psicologi o ufficiali di
polizia –, di affermare con certezza, sulla base della loro semplice intuizione, se
una dichiarazione sia vera oppure falsa. Anche il ricorso a indicatori non verbali
di genuinità, come la tensione vocale o la pressione delle labbra, non sono
risultati affidabili.
Gli studiosi si sono concentrati, così, sull’individuazione delle basi fisiologiche
della menzogna, sviluppando una serie di strumenti sempre più sofisticati di lie
detection, comunemente chiamati “macchine della verità”. Recentemente, gli
studi sulle neuroscienze, ovvero un insieme di discipline – tra cui la biologia, la
psicologia, la medicina e la fisica – che indagano sulle basi biologiche della mente
e del comportamento umani, hanno portato all’elaborazione di tecniche che, in
alcuni casi, professano di poter determinare la veridicità di una dichiarazione con
una certezza prossima al cento per cento.
Individuare senza ombra di dubbio se un soggeo sta mentendo è certamente
argomento di interesse anche in ambito giuridico. Si può immaginare, però, la
1
Sul tema, C. F. BOND, B. M DEPAULO, “Accuracy of Deception Judgments”, in “Personality and
Social Psychology Review”, vol. 10 (3), 2006, pp. 214-234.
2
diffidenza suscitata da questo nuovo sapere scientifico. Vi sono, infai, alcuni
elementi da considerare: da un lato sembra azzardato affidare a tecniche
sperimentali le sorti del processo e, quindi, della vita di un individuo e della
sicurezza della società – si pensi al caso eclatante del Green River Killer, il quale
dopo aver passato il test del poligrafo, venne rimesso in libertà –; dall’altro lato
sembrerebbe contrario ai dirii fondamentali dell’uomo negargli la possibilità di
utilizzare tali strumenti per provare la sua innocenza. A queste considerazioni si
aggiungono le questioni etiche sul rispeo dell’individuo e sul suo dirio alla
riservatezza.
Il proposito dell’elaborato è quello, dunque, di offrire una visione
d’insieme sulle neuroscienze applicate alla prova dichiarativa e di valutare la
possibilità di un loro concreto e proficuo utilizzo in un ambito delicato come il
processo penale. A tal fine, vengono forniti spunti di riflessione sulle tecniche di
lie e memory detection, grazie al vaglio dei diversi approcci della giurisprudenza e
della dorina a livello internazionale.
La traazione si apre con un excursus storico sulla ricerca della verità nel
rito penale – l’ideale a cui tendere per aspirare a un risultato processuale giusto –
raggiungibile grazie agli elementi di prova raccolti. La prova penale è intesa come
“uno specchio fedele del cammino del sapere”, il cui contenuto si evolve di pari
passo con i cambiamenti della società nelle varie epoche. In particolare, a partire
dal XIX secolo, hanno trovato spazio nelle aule di tribunale le prove scientifiche,
recando tuavia diversi dubbi e problematiche circa la loro ammissibilità.
Per quanto concerne la prova neuroscientifica nello specifico, si è cercato di
fornire una panoramica degli studi effeuati sul cervello, accennando al dibaito
sul libero arbitrio in contrapposizione al determinismo biologico, oltre a una
disamina delle sue possibilità di utilizzo nel processo penale. Tra queste,
3
appunto, rientra la verifica sulla veridicità delle dichiarazioni rese dall’imputato
o da un testimone.
Il poligrafo, strumento che si propone di identificare le tracce dell’inganno
tramite la misurazione dei rilevatori fisiologici dell’individuo, ha fornito le basi
per i successivi progressi neuroscientifici nell’ambito della lie e memory detection.
L’evoluzione tecnologica ha consentito l’elaborazione di tecniche di neuroimaging,
in grado di mappare direamente o indireamente la struura e l’aività del
cervello. L’argomento ha suscitato perplessità, non solo relativamente alle
opinioni contrastanti sull’aendibilità di tali metodologie, ma anche rispeo alla
tutela della libertà morale del dichiarante. Il Codice di procedura penale italiano,
infai, prevede espressamente il divieto di utilizzare metodi o tecniche che
possano influire sulla libertà di autodeterminazione degli individui.
A livello internazionale si ha una maggiore apertura nell’utilizzo delle tecniche
di lie e memory detection, ma non senza difficoltà. Negli Stati Uniti, per esempio,
sono sorti dubbi circa il ruolo riconosciuto tradizionalmente alla giuria di
valutare la prova dichiarativa, oltre che problematiche in merito alla tutela del
dirio alla privacy. Nel Regno Unito, invece, le “macchine della verità” non hanno
trovato accoglimento nel sistema processuale, ma sono utilizzate in altri ambiti:
ci si riferisce, in particolare, al programma di traamento per i sex offenders
previsto dal National Probation Service (NPS). Le finalità degli studi
neuroscientifici, però, non si limitano all’identificazione della veridicità delle
dichiarazioni. Sono riportate, infai, alcune riflessioni critiche sul traamento dei
minori e sulla possibilità di impiegare le relative scoperte per rivedere il sistema
di responsabilità penale di Inghilterra e Galles: se le funzioni cerebrali si
sviluppano di pari passo con la crescita, allora si deve pensare a una revisione
4
dei suddei sistemi, i quali fissano a dieci anni l’età minima per essere considerati
penalmente responsabili.
In conclusione, il sapere neuroscientifico, ancora oggi, fatica ad affermarsi
nel processo e, nel migliore dei casi, è considerato semplicemente in funzione
corroborativa di altri elementi di prova.
La storia, però, insegna che l’incontro tra la scienza e il processo penale è
un’opportunità per migliorare l’accuratezza e l’affidabilità del sistema
giudiziario. Per questa ragione, la presente traazione , nonostante le
problematiche evidenziate, mee in luce i vantaggi di un approccio propositivo
nei confronti del progresso scientifico, senza dimenticare il rispeo della moralità
e dell’integrità dell’uomo, come ribadito anche dalla riflessione di Madame de
Staël: “Scientific progress makes moral progress a necessity”.
5
CAPITOLO I
LA RICERCA DELLA VERITÀ NEL PROCESSO PENALE
SOMMARIO: 1. Premessa. La ricerca della verità come fine ultimo del rito penale. - 1.1 La
prova di verità nel processo penale. Cenni storici. - 2. La prova scientifica. - 3. L’ammissione
della prova scientifica nel processo. - 3.1 Il contributo statunitense. Dal Frye Test alla trilogia
Daubert-Joiner-Kumho. - 3.2 La valutazione della prova scientifica nell’ordinamento italiano.
La sentenza “Cozzini”. - 3.3 La Corte Europea dei dirii dell’uomo sul punto.
1. Premessa. La ricerca della verità come fine ultimo del rito penale.
Il processo penale è stato definito come una «macchina retrospeiva »
finalizzata a ricostruire i fai passati senza ricorrere «a fantasie divinatorie, estasi
intuitive, cabale occultistiche
2
», ma aenendosi alla ricostruzione degli
avvenimenti tramite l’applicazione del dirio. L’obieivo primario nella ricerca,
nella elaborazione delle prove e nella dinamica di ogni processo è, di
conseguenza, la verità
3
.
Il conceo di verità ha una rilevanza centrale nella tradizione filosofica ed
è soggeo a una grande oscillazione e indeterminatezza di significato
4
. L’aività
processuale, mediante il metodo probatorio, mira all’accertamento della
veridicità di una ipotesi, la quale non solo dipende dal contesto storico, essendo
essa un riflesso della cultura e della società a cui si riferisce
5
, ma è anche
condizionata dagli elementi in possesso dell’organo giudicante. Qualunque
2
F. CORDERO, “Procedura penale”, Milano, 2012, Giuffrè, p. 569.
3
A. GAITO, “Il procedimento probatorio (tra vischiosità della tradizione e prospeive europee)” , in “La
prova penale, vol. I”, Torino, Utet, 2008, pp. 95 ss.
4
L. B. PUNTEL trad. it. “Verità”, in PENZO G., KRINGS H., BAUMGARTNER H. M., WILD C. (a
cura di), “Concei fondamentali di filosofia” , vol. III, Brescia, Queriniana, 1982, p. 2316.
5
M. TARUFFO, “La prova dei fai giuridici” , Giuffrè, Milano, 1992 p. 54.
6
risultato di una indagine fauale dipende, infai, dal contesto in cui quest’ultima
si svolge, dalla metodologia seguita e dalle finalità prefissate
6
.
I fai di reato vengono ricostruiti s eguendo un ordine che evidenzia il rapporto
tra la procedura e il ruolo socialmente aribuito alla verità
7
. È possibile, dunque,
affermare che la storia del rito penale è segnata dai differenti approcci al
materiale probatorio e che la stessa prova penale, tendente a raggiungere il più
elevato grado di verità possibile, rappresenta uno «specchio fedele del cammino
del sapere»
8
. La razionalità esercitata nel processo e nel giudizio per giungere
alla verità dei fai, secondo la psicologia cognitiva, è un grande patrimonio di
conoscenza e di esperienza, ma non è immune da emozioni, procedure intuitive,
errori di ragionamento o trappole mentali che possono riguardare l’intero
percorso del processo, dalla formazione della prova fino alla decisione finale
9
. Lo
stesso Kant, superando l’idea copernicana secondo cui ogni nostra conoscenza
deve regolarsi sugli oggei, ha dimostrato che gli oggei devono regolarsi,
invece, sulla nostra conoscenza
10
e, per questo, l’oggeo del procedimento penale
reca le tracce della relazione tra un determinato ordinamento giuridico, sociale e
culturale e la verità.
La verità si configura, di conseguenza, come un ideale a cui tendere per
aspirare alla giustizia del risultato processuale: si traa di una verità relativa,
6
G. UBERTIS, “La ricerca della verità giudiziale”, in “La conoscenza del fao nel processo pe nale”,
Milano, Giuffrè, 1992, p. 1.
7
M. FOUCAULT, “La verità e le forme giuridiche”, Napoli, La Cià del Sole, 2007, p. 32.
8
C. CONTI, “Scienza e processo penale: nuove frontiere e vecchi pregiudizi”, Torino, Giuffrè, 2011, p.
87.
9
A. FORZA, G. Menegon, R. Rumiati, “Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozione”,
Bologna, il Mulino, 2017.
10
V. prefazione alla seconda edizione in I. KANT, “Critica della ragion pura”, a cura di P. CHIODI,
Torino, Utet, 2004, p. 44.
7
sogge a alle limitazioni fissate dalla disciplina positiva del dirio probatorio a
tutela di interessi diversi
11
, dal rispeo dei dirii fondamentali e della dignità
dell’uomo a preminenti interessi pubblici. Tramite la decisione finale del
processo penale si realizza un equilibrio tra la tutela dell’imputato e le ragioni
della colleività e delle viime, in un contesto non esente dalle influenze del
dubbio e dell’incertezza.
Il rapporto tra verità e dubbio sembra complesso e rappresenta un
problema filosofico che ha radici lontane. I pensatori dell’epoca moderna hanno
inizialmente tentato di eliminare il “dubbio”
12
. La scienza moderna, si limita a
capire quali sono le leggi che possono spiegare il fao della realtà indagato. Con
l’inizio del processo di secolarizzazione, il pensiero scientifico assume sempre
più consapevolezza, tanto da aspirare all’assolutezza della ragione dell’uomo e
all’estensione dei metodi fisici e matematici ai differenti aspei della realtà. Si
delinea in questo modo una scienza in grado di risolvere la complessità del
mondo reale, dando vita a una visione unitaria del mondo.
L’età contemporanea, diversamente, sembra rifiutare ogni posizione che si
pretenda essere assoluta, nella consapevolezza che ogni conquista è provvisoria
e incompiuta. Si è imposta una visione del mondo multifocale, diversa da quella
moderna, in cui i risultati raggiunti sono validi fino a prova contraria e in cui la
11
G. DI CHIARA, “Le regole del giusto processo e la garanzia del contraddiorio: l’asse prospeico dell’art
111 Cost.”, in “Una introduzione al sistema penale. Per una leura costituzionalmente orientata”, Napoli,
2003, Jovene, p. 340.
12
Si pensi, in particolare, al filosofo Cartesio, secondo il quale, dopo aver esteso il dubbio ad ogni
cosa – dubbio iperbolico -, si può trovare il modo di superarlo e sconfiggerlo, giungendo a un
conceo di verità forte: possiamo dubitare di tuo, ma non dell’esistenza del pensiero che dubita
(cogito ergo sum), a garanzia del quale esiste un Dio buono che ha dato agli umani un sistema
conoscitivo non ingannevole. Sul punto, v. R. Descartes, “Discorso sul metodo”, 1637.
8
realtà è tanto complessa da essere di fronte a tante diverse verità
13
. Al di là delle
apparenze, di conseguenza, è possibile affermare che il dubbio non è contrario
alla verità ma ne è una riaffermazione
14
.
Sembra opportuno, a questo punto, chiarire le differenze intercorrenti fra la
scienza empirica e la scienza giuridico-penalistica, per poi concentrarsi sul ruolo
del dubbio nei due ambiti del sapere. La scienza empirica si pone la finalità di
ricostruire le leggi scientifiche che stanno alla base della realtà fauale,
verificando i fenomeni preesistenti in natura; il dirio penale, diversamente , ha
lo scopo di elaborare criteri di rilevanza per la valutazione dei fai e dei
comportamenti umani, per l’aribuzione della responsabilità degli stessi e, infine,
per l’applicazione delle relative conseguenze sanzionatorie. Una ulteriore e
fondamentale differenza riguarda il metodo: le scienze empiriche si avvalgono
dell’esperimento, cioè la formulazione dell’ipotesi seguita dalla sua verifica o
dalla sua smentita, a seguito del quale si oiene una conoscenza scientifica; nel
sapere penalistico e valutativo si cerca una certezza persuasiva «fondata sulla
credibilità razionale e argomentativamente giustificata»
15
. Il dubbio svolge due
funzioni diverse nei due ambiti: nella scienza empirica esso è certamente il
motore per implementare la certezza e perseguire il progresso conoscitivo,
meendo continuamente in discussione le conoscenze acquisite; in ambito
13
M. MIGLIORI, “Quaderno di storia del penale e della giustizia: il dubbio”, n. 2, 2020, pp. 23-40.
14
Ibidem. A tal riguardo, v. G. ZAGREBELSKY, “Contro l'etica della verità”, Roma-Bari, Laterza,
2008.
15
R. BARTOLI, “Dubbio e certezza del dirio penale” , cit., p. 230.
9
giuridico-penalistico, il dubbio rende problematica la ricerca della certezza, tanto
da essere un elemento incompatibile con l’aribuzione di una resp onsabilità
16
.
Dopo aver analizzato le differenze con la scienza empirica, appare
naturale accostare il mestiere del giurista a quello dello storico: in entrambi,
infai, è richiesta la capacità argomentativa, cioè la capacità di persuadere
araverso lo sviluppo di un ragionamento. Il giurista e lo storico hanno l’arduo
compito di accertare la verità indagando su fai del passato sulla base di dati
preesistenti; entrambi devono aspirare all’imparzialità e all’oggeività dei fai
con l’ausilio di documenti e testimonianze che devono essere coordinati e
interpretati minuziosamente. Non solo, quando il giudice è chiamato alla
risoluzione della quaestio iuris – la scelta del dirio da applicare al fao storico
accertato –, compie una ricostruzione storiografica, indagando sulle ragioni
“societarie” alla base della scelta legislativa
17
. Il giudice, a differenza dello storico,
ha il compito di ricostruire eventi riconducibili alle azioni di una persona
individuando una responsabilità personale giuridicamente rilevante e subisce le
limitazioni derivanti dalle norme sull’ammissibilità e sull’utilizzabilità dei mezzi
di prova; lo storico, al contrario, deve collocare le azioni degli uomini in un
contesto più ampio e ricostruire fenomeni sociali e culturali, oltre ad individuare
eventuali responsabilità morali e politiche legate a un certo evento
18
. «Uno
storico», dunque, «ha il dirio di scorgere un problema là dove un giudice
deciderebbe un non luogo a procedere»
19
.
16
Ibidem. Si pensi, inoltre, al principio in dubio pro reo, il quale garantisce l’innocenza dell’imputato
fino a prova contraria, oppure alla formula B.A.R.D. di colpevolezza “beyond any reasonable doubt”,
la cui verifica è necessaria per condannare l’imputato.
17
CALAMANDREI, “Il giudice e lo storico”, in Rivista di dirio processuale civile, 1939, p. 105.
18
P. BORGNA, “Verità storica e verità processuale” in “Questione e giustizia”, 9 oobre 2019.
19
C. GINZBURG, “Il giudice e lo storico,” Quodlibet, Macerata, 2020, p. 20.
10
Nel corso di questa traazione si avrà modo di approfondire il rapporto
tra la scienza empirica e la scienza giuridica e, in particolar modo, il vincolo
imprescindibile che lega questi due ambiti del sapere, in quanto le conclusioni di
valore proprie della decisione penale non possono prescindere da premesse di
mero fao, altrimenti si giungerebbe a conclusioni arbitrarie e irrazionali. La
scienza assume una grande importanza nel sistema probatorio del processo
penale, configurandosi come un ausilio il più possibile affidabile per raggiungere
un livello maggiore di giustizia e di tutela dei dirii fondamentali dell’uomo.
1.1. La prova di verità nel processo penale. Cenni storici.
Tra le più antiche testimonianze della ricerca della verità nel processo
penale, ne si annovera una nella tragedia greca “Edipo Re” di Sofocle. In essa si
racconta come, a seguito dell’assassinio di Laio, precedente re di Tebe, nemmeno
l’oracolo di Delfi, nonostante sostenesse che tale morte fosse la causa della
pestilenza in ci à e che vi fosse la necessità di punire il responsabile per debellare
la maledizione, riuscì ad individuare il colpevole. Sorse, così, l’esigenza di una
prova testimoniale del fao passato, senza ricorrere a profezie: Sofocle aribuisce
al ricordo di due schiavi, solitamente esclusi dalla vita pubblica greca, un ruolo
chiave nella ricostruzione degli avvenimenti, consentendo così di cacciare Edipo
e di rivendicare il dirio di dire la verità e di giudicare coloro che governano
20
.
La ricerca e la testimonianza iniziano ad assumere un ruolo determinante nel
20
M. FOUCAULT, “La verità̀ e le forme giuridiche”, cit., p. 78.
11
processo e la scoperta giudiziaria della verità avviene tramite un’aività di
indagine
21
.
Il processo romano, a sua volta, esalta la dialeica e ha l’obieivo di fare
emergere il cd. ”lumen veritatatis”
22
con l’ausilio di un’istruoria volta a far
rivivere come presente l’azione passata esaurita
23
, il tuo indipendentemente da
ogni elemento di sacralità.
Nel periodo medievale i regimi barbarici primitivi fanno un passo
indietro, dando una connotazione religiosa al vero e affidando la soluzione dei
conflii sociali alle credenze magiche e alla superstizione, ignorando qualsivoglia
aività di indagine. L’ordalia – dal germanico antico ordal, cioè “giudizio di Dio”
– una pratica giuridica utilizzata per individuare il responsabile di un ao
criminoso – si basa sulla credenza che Dio aiuti gli innocenti e condanni i
colpevoli: il soggeo veniva sooposto a una prova dolorosa o a un duello e, se
avesse perso, si sarebbe ritenuto responsabile del delio
24
. Ne è un esempio
l’ordalia del fuoco – da cui deriva l’odierna espressione “ci meerei la mano sul
fuoco” –, una prova fisica con cui il soggeo accusato doveva afferrare un ferro
rovente e fare alcuni passi senza lasciarlo cadere; l’aspe o della ferita doveva
provare la reità o l’innocenza dell’imputato
25
. L’ordalia è definita un mezzo di
21
M. HEIDEGGER, “Dottrina platonica della verità̀,” in “Segnavia”, Milano, Adelphi, 1987, pp. 159
ss. La verità è descritta dai greci in negativo come a-letheia, cioè “che non si nasconde” o “che esce
dall’oblio”, frutto della ricerca e dell’attività di indagine.
22
F. PERGAMI, “Nuovi studi di dirio romano tardo antico ”, Torino, Giappichelli, 2014, p. 27.
23
G. CAPOGRASSI, “Giudizio processo scienza verità̀”, in “Opere”, V, Milano, 1959, p. 59.
24
L. DE CATALDO NEUBURGER, “Aspei psicologici nella formazione della prova: dall’ordalia alle
neuroscienze”, in “Dirio penal e e processo”, 5/2010, p. 604.
25
P. TONINI, “Manuale di procedura penale”, Milano, Giuffrè, 2018, p. 15.
12
prova irrazionale e primitivo
26
, ma sicuramente coerente con la società e le
convinzioni dell’epoca.
Anticamente, dunque, vi era un legame tra il sacro e il dirio e la legge
dell’uomo, per essere acceata, doveva avere un’origine divina. Si trova una
testimonianza di questa connessione nella Stele di Hammurabi, dove il re viene
raffigurato mentre riceve dalla divinità solare della giustizia Shamash un bastone
in segno di riconoscimento e di approvazione del famoso “Codice di
Hammurabi”
27
. L’origine del Judicium Dei si perde nella storia ed è stato utilizzato
in Europa per diversi secoli, fino a quando i duelli e le prove ordaliche furono
superate grazie a una seconda nascita dell’indagine
28
, caraerizzata dal ritorno
della testimonianza e della leura dei documenti nel processo
29
.
Con l’affermazione delle nuove entità statali europee del XVII secolo, «si
assiste a una trasformazione del processo come luogo di affermazione del
potere», culminante nella speacolarizzazione delle esecuzioni capitali nelle
piazze
30
. In questo periodo si afferma una concezione monista di verità, oggeiva
e assoluta, non soggea a interpretazione
31
, ma semplice specchio del potere
26
F. PATETTA, “Le ordalie. Studio di storia del dirio e scienza del dirio comparato” , Torino, Fratelli
Bocca, 1890, p. 164
27
L. DE CATALDO NEUBURGER, “Aspei psicologici nella formazione della prova: dall’ordalia alle
neuroscienze”, in “Dirio penale e processo” 5/2010, cit., p. 604.
28
M. FOUCAULT, “La verità̀ e le forme giuridiche”, cit., p. 79.
29
M. TARUFFO, “La semplice verità̀. Il giudice e la costruzione dei fai” , Bari, Laterza, 2009, p. 13.
L’autore fa riferimento al Regno Italico di Liutprando in cui vi è un ritorno all’euristica
processuale. In F. PATETTA, “Le ordalie. Studio di storia del dirio e scienza del dirio comparato”, cit.,
pp. 312 e 341, viene menzionato anche il Concilio Laterano IV del 1215 che impose il divieto per
i sacerdoti di partecipare alle ordalie per mancanza della benedizione degli strumenti per il loro
svolgimento.
30
C. COSTANZI, “La morfologia del processo penale. Un approccio storico-filosofico all’epistemologia
giudiziaria”, in “Dirio penale e contemporaneo” , fascicolo 4/2019.
31
A. BARGI, “Cultura del processo e concezione della prova”, in “La prova penale”, A. GAITO (a cura
di), Vol. I, capi. II, Torino, Utet, 2008, p. 27.
13
statale. Il giudice, in tale contesto, sembra avere solamente il compito di
conservare l’ordine costituito, anche a costo di costruire e plasmare una nuova
verità, diversa da quella fauale
32
: egli è libero di ricercare la verità con ogni
mezzo.
La prova dichiarativa dominante nel processo penale diventa la confessione,
unica e sufficiente prova di verità
33
, tanto che il processo penale inquisitorio
diventa un luogo di estorsione della verità tramite strumenti di tortura
34
.
L’Illuminismo, a partire dalla fine del XVII secolo, si oppone
all’assolutismo e inizia a considerare l’uomo come soggeo di prova nel processo
penale e non più come oggeo o come “bestia da confessione”
35
. Si prospea la
demolizione della tortura giudiziaria, indicata come una “barbara iniquità” e
come “un giudiziale esperimento assai azzardoso, pericoloso, mendace, vano,
infedele”
36
. Secondo Pietro Verri, non solo i tormenti non sono un mezzo per
scoprire la verità, ma anche se potessero disvelare il vero, sarebbero
intrinsecamente ingiusti
37
. Si auspica il superamento dell’esperienza processuale
32
F. CORDERO, “Guida alla procedura penale”, Torino, Utet, 1986, p. 47. L’autore si riferisce
all’Ordonnance Criminelle di Luigi XV, emanata nel 1670, indicandola come un momento
culminante dell’esperienza del processo del periodo e definendola come un “monumento
dell’ingegno inquisitoriale”.
33
M. FOUCAULT, “Sorvegliare e punire: nascita della prigione”, Torino, Einaudi, 1976, p. 46.
34
P. FIORELLI, “La tortura giudiziaria nel dirio comune” , I, Milano, Giuffré, 1953. L’autore afferma
che la tortura giudiziaria è un “qualsiasi procedimento giudiziario con cui si cerchi di estorcere
all’imputato o ad altro soggeo processuale, piegandone con forza o con artificio la contraria
volontà, una confessione o altra dichiarazione utile all’accertamento di fai non altrimenti
accertati, al fine ultimo di definire il giudizio fondando la sentenza sulla verità così oenuta”.
35
F. CORDERO, “Procedura Penale”, cit., p. 25.
36
T. BRIGANTI, “Pratica criminale delle corti regie e baronali del regno di Napoli raccolta dal do.
Tommaso Briganti ad uso de’ suoi figliuoli”, Napoli, Vincenzo Mazzola, 1755, pp. 13 e 27.
37
P. VERRI, “Osservazioni sulla tortura”, Milano, 1843, p. 41.