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Introduzione
“Se tutta l’umanità, meno una persona, fosse della stessa opinione e se questa
persona fosse di opinione contraria, l’umanità sarebbe ingiusta se gli
impedisse di parlare così come egli stesso lo sarebbe se, avendo abbastanza
potere, lo impedisse all’umanità”.
Così Mill si è espresso a proposito della libertà di manifestazione del
pensiero, aggiungendo ancora che impedire l’espressione di un’opinione è
particolarmente condannabile perché significa commettere un furto ai danni
della razza umana, tanto verso la posterità quanto verso la generazione
attuale.
In accordo con tale autorevole parere, la mia ricerca ha l’intento di
approfondire, attraverso un’esegesi dell’intera disciplina, quella che sembra
essere l’espressione più profonda di un ordinamento democratico ossia la
libertà di manifestazione del pensiero, con particolare riferimento al mondo
del lavoro ove tale diritto ha trovato tutela, infrangendo il dogma
dell’intangibilità delle prerogative manageriali proprio del contesto aziendale.
Cercherò di illustrare, pertanto, come la normativa giuslavoristica più recente,
si sia orientata verso una “cultura della dignità” della persona, che si sostanzia
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nel riconoscimento della personalità del lavoratore come valore trascendente
l’idea del suo essere “parte debole” nella dinamica del rapporto di lavoro e
come quindi lo “status di lavoratore” sia venuto a coincidere totalmente con
quello di cittadino.
Oggetto del primo Capitolo è mostrare come con l’approvazione dello Statuto
dei lavoratori, la Costituzione varca i cancelli della fabbrica, la quale cessa
così di essere un organismo totalmente a sé stante ovvero un ordinamento
auto concluso dotato di proprie indiscutibili leggi.
Si continua, quindi, nell’analisi del quadro legale predisposto dall’art. 1 dello
Statuto, definendo i limiti che la libertà in esame incontra nei luoghi di lavoro
attraverso il richiamo agli artt. 21 Cost. e 26 dello Statuto, atti a proteggere
rispettivamente beni di rilievo costituzionale e il “normale svolgimento
dell’attività aziendale”.
Si arriva ad analizzare poi, fino a che punto la libertà di opinione del
lavoratore possa protrarsi e fino a quando questa diventa critica nei confronti
del datore di lavoro, con uno speciale approfondimento al cosiddetto
“whisteleblowing”.
A conclusione del capitolo, sembra doveroso un breve accenno alla libertà
sindacale per meglio comprendere come il lavoratore possa servirsi di tale
veicolo per esprimere il proprio pensiero, ma soprattutto per difendersi dal
potere decisionale del datore di lavoro.
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Nel Capitolo secondo ho inteso delineare il diritto alla riservatezza del
lavoratore, quale diritto a conservare il possesso di sé e della propria identità e
di tenere segreti aspetti, comportamenti e atti relativi alla propria sfera intima.
Si analizzano, pertanto, gli artt. 4 e 8 dello Statuto, laddove è possibile
intravedere come il legislatore si sia mosso, al solito, nella logica di un
ragionevole compromesso tra discordanti valori ed interessi.
Ci renderemo conto, proseguendo, che non si può omettere di riflettere sul
mutamento concettuale, nonché sull’evoluzione che il diritto alla riservatezza
ha subito nell’attuale società dell’informazione e come quindi tale diritto sia
divenuto “diritto alla protezione dei dati personali”.
Un’ultima riflessione riguarda il pensiero oggetto di discriminazione e quindi
si procederà al commento dell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori relativo al
divieto di atti discriminatori, il cui esame si colloca, al pari degli artt. 1 e 8,
nella più ampia prospettiva di riconoscimento dei diritti costituzionali
nell’azienda contenuta nello Statuto.
La ricerca nel Capitolo terzo sembra andare in un verso decisamente contrario
a quanto precedentemente esposto, incentrandosi sull’analisi delle
organizzazioni ideologicamente orientate.
Nell’ambito di tali organizzazioni, infatti, sembrerebbe imprescindibile una
riconsiderazione del rapporto di lavoro e precisamente si assiste ad una
significativa dilatazione della posizione debitoria del lavoratore che
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obbligatoriamente si fa “portatore di tendenza”, aderendo quindi al sistema di
principi e valori cui risulta ispirata l’attività del datore di lavoro.
E’necessario spiegare allora, perché si parla di eccezione relativamente alle
imprese di tendenza e perché risulti più importante tutelare la tendenza
piuttosto che quei diritti costituzionalmente garantiti oggetto, poc’anzi, delle
nostre riflessioni.
Si pensi ad esempio al giornalista dipendente di un giornale, all’insegnante di
una scuola confessionale, al dipendente di un sindacato e quindi a tutti quei
soggetti legati all’indirizzo ideologico del loro datore di lavoro.
Il presente studio si conclude nel quarto Capitolo, attraverso la trattazione del
cosiddetto “caso Lombardi Vallauri”, professore incaricato del corso di
Filosofia del Diritto nell’Università Cattolica del S. Cuore di Milano, sospeso
dall’attività didattica per aver espresso convinzioni filosofiche ritenute
incompatibili e quindi eterodosse rispetto alla dottrina cattolica.
Si procederà, pertanto, all’analisi della sentenza 26 ottobre 2001 n. 7027 della
Sez. II del T.A.R. Lombardia, che ha rigettato il ricorso avanzato dal docente,
nonché della sentenza 18 aprile 2005 n. 1762 del Consiglio di Stato, che ha
confermato sostanzialmente il provvedimento gravato.
Imprescindibile, in ultimo, il riferimento alla sentenza 20 ottobre 2009 della
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, che costituisce l’epilogo
rivoluzionario della complessa vicenda processuale in quanto, ribaltando le
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precedenti pronunce, ha accolto il ricorso del prof. Lombardi Vallauri,
condannando così l’Italia per aver violato la libertà di espressione del
professore e il suo diritto a un giusto processo, nonché definendo “priva di
motivazione e presa in assenza di un reale contraddittorio” la decisione
dell’Università di Milano.
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Capitolo I
La libertà di manifestazione del pensiero
1.1 Cenni storici
Le linee evolutive della libertà di manifestazione del pensiero appaiono
strettamente collegate alle vicende che hanno segnato la nascita e l’evoluzione
degli Stati Liberali.
Costituisce anzi affermazione comune quella della stretta interdipendenza tra
la forma di Stato liberale e il riconoscimento di tale libertà, quale specchio dei
mutamenti che si sono avuti allora determinando nella struttura dei rapporti
tra i poteri pubblici e tra Stato e cittadini
1
.
La libertà di espressione ha trovato la sua prima affermazione nell’Inghilterra
della fine del XVII sec., dapprima come freedom of speach all’interno del
Parlamento, successivamente come situazione giuridica riconosciuta anche
nei confronti dei cittadini, seppure ancora con significative limitazioni.
Attraverso processi più radicali quella libertà ha trovato ingresso nelle
Costituzioni della fine del ‘700, a seguito delle due grandi rivoluzioni di quel
periodo, quella americana e quella francese.
E’in particolare all’art. 11 della Dichiarazione francese che si sono ispirate le
1
P. BARILE, Libertà di manifestazione del pensiero, in Enc. Dir., XXIV, 1974, 424 SS.; P. CARETTI, Diritto
dell’informazione e della comunicazione, Bologna, Il Mulino, 2005
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Costituzioni liberali successive, peraltro attraverso previsioni
complessivamente caute: così la Costituzione di Weimar, che all’art. 118
proclamava la libertà di pensiero affidando al legislatore l’individuazione dei
limiti; e lo Statuto Albertino, che non contemplava espressamente tale libertà,
ma solo quella di stampa.
Quello della stampa, quindi, fu l’unico settore che poté beneficiare, almeno
per un certo periodo, dello spirito liberale della disposizione statutaria e del
modello di tutela che essa aveva voluto esprimere.
L’esplicita garanzia statutaria della sola libertà di stampa, potrebbe spiegarsi
col fatto che, all’ epoca, vi era diffusa consapevolezza dell’importanza
“politica” della stampa come fattore di mutamento sociale,
incommensurabilmente superiore alla semplice parola.
Di qui la conclusione che, tutelando quella, se ne garantiva anche “la sorella
minore”
2
.
Con l’approssimarsi delle ostilità belliche e con le acute tensioni politiche e
sociali susseguenti, tra la primavera del 1915 e il 1919, la disciplina della
stampa subì una svolta illiberale, che divenne ancora più radicale, come
sappiamo, nel regime fascista.
La natura schiettamente liberaldemocratica della Costituzione del 1948
2
A. PACE- M. MANETTI, Rapporti civili: art. 21 la libertà di manifestazione del pensiero, Bologna, Zanichelli,
2006
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cambia il senso e la prospettiva delle garanzie dei diritti individuali e sociali e
riconosce esplicitamente il diritto di libera manifestazione del pensiero,
rappresentando, pertanto, un indiscusso progresso rispetto alle legislazioni
precedenti particolarmente restrittive in materia di reati di opinione
3
.
3
R. BIFULCO- A. CELOTTO- M. OLIVETTI, Commentario alla Costituzione, Milano, UTET, 2006
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1.2 La libertà di manifestazione del pensiero nella vigente Costituzione
Art. 21 comma 1 Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di
diffusione“ .
La formula costituzionale, contenuta nell’art. 21 Cost., indica insieme “il
diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero e il diritto di utilizzare
ogni mezzo allo scopo di portare l’espressione del pensiero a conoscenza del
massimo numero di persone”
4
.
La ratio di questa proclamazione sta proprio nella libera circolazione delle
idee e quindi ciò che la Costituzione intende soprattutto garantire è la
manifestazione in sé e per sé, per l’importanza che il soggetto riconnette al
pensiero manifestato.
Le ragioni ideali del riconoscimento di questa libertà, dovrebbero essere
rinvenute non tanto nel “valore” della persona umana, poiché tale concetto
assume un significato diverso a seconda che ne parli un cattolico, un
musulmano, un marxista, un liberale, un radical-libertario etc., quanto nel
valore che possiede la più ampia e più libera circolazione delle idee, per i
vantaggi che alla collettività derivano da tale ampia circolazione, in termini di
4
P. BARILE, Libertà di manifestazione del pensiero, Milano, Giuffrè, 1975