2
§ 1: qualificazione giuridica dei calciatori: lavoratori subordinati
o lavoratori autonomi?
In primo luogo, la nostra analisi avrà come oggetto la figura dei calciatori
professionisti.
La distinzione sul piano della qualificazione giuridica dei calciatori assume
rilevanza in rapporto alle norme del Trattato CE: se i calciatori professionisti
vengono considerati come lavoratori subordinati, verrà in rilievo l’art. 39 del
Trattato CE; d’altra parte, se li si considera lavoratori autonomi, ad assumere
rilevanza saranno gli artt. 43 e 49 del Trattato CE, relativi, rispettivamente, al
diritto di stabilimento e alla libera prestazione di servizi
(1)
.
Già nel 1964, a proposito della definizione di lavoratore, la Corte di giustizia
aveva stabilito che tale nozione dovesse essere individuata sulla base delle norme
comunitarie, escludendo, in tal modo, qualsiasi azione discrezionale da parte degli
Stati membri, per evitare che ciascuno Stato potesse escludere, a suo piacimento,
determinate categorie di soggetti dalle garanzie offerte dal Trattato
(2)
.
Ai fini dell’applicabilità dell’art. 39 del Trattato CE, dunque, la Corte di
giustizia ha affermato che si considera lavoratore subordinato «una persona (che)
compie, durante un certo tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di
questa, prestazioni in corrispettivo delle quali le spetta la retribuzione»
(3)
.
Nella definizione comunitaria di lavoratore subordinato non influisce il tempo
da costui dedicato alla prestazione lavorativa: il lavoro part-time, infatti,
costituisce un’ipotesi di lavoro subordinato a tutti gli effetti, a meno che si tratti di
1
M. CASTELLANETA, Libera circolazione dei calciatori e disposizioni della FIGC, in Diritto
comunitario e degli scambi internazionali, 1994, p. 646 ss; sull’applicabilità delle disposizioni del
Trattato CE ai calciatori professionisti, si vedano anche R. FOGLIA, Tesseramento dei calciatori e
libertà di circolazione nella Comunità Europea, in Diritto del lavoro, 1988, p. 300; A. GIARDINI,
Diritto comunitario e libera circolazione dei calciatori, in Diritto comunitario e degli scambi
internazionali, 1989, p. 437; S. WEATHERILL, Discrimination on grounds of nationality in sport, in
Yearbook of European law, Oxford, 1998, p. 55; VIDIRI, La libera circolazione dei calciatori nei
Paesi della CEE e il blocco «calcistico» alle frontiere, in Giurisprudenza italiana, 1988, p. 66.
2
Sentenza 19 marzo 1964, causa 75/63, Unger, in Raccolta, 1964, p. 354 ss.
3
Sentenza 31 maggio 1989, causa 344/87, Bettray, in Raccolta, 1989, p. 364 ss. e sentenza 26
febbraio 1992, causa C-357/89, Raulin, in Raccolta, 1992-I, p. 1027 ss. Per un commento a tali
sentenze si vedano, rispettivamente, A. ADINOLFI, L’eliminazione dei controlli alle frontiere
interne e la politica dell’immigrazione, in Diritto dell’Unione Europea (a cura di STROZZI), parte
speciale, Torino, 2000, p. 101; L. DANIELE, Il diritto materiale della Comunità Europea, Milano,
2000, p. 80.
La libera circolazione degli sportivi 3
«di attività talmente ridotte da potersi definire puramente marginali ed
accessorie»
(4)
.
Ciò che in realtà conta, e che differenzia tale libertà da quella di prestare
servizi, è che vi sia un vincolo di subordinazione tra lavoratore e datore di lavoro
e che si tratti di un’attività professionale di carattere continuativo.
Sulla base di tali premesse, il calciatore è stato ritenuto, a livello comunitario
e al pari degli altri atleti che praticano uno sport di squadra, un lavoratore
subordinato, mentre agli sportivi individuali saranno applicate le norme in materia
di libera prestazione di servizi
(5)
.
Nell’ordinamento italiano, la l. 91/81 sul professionismo sportivo ha stabilito
che «la prestazione a titolo oneroso dell’atleta costituisce oggetto di un contratto
di lavoro subordinato»
(6)
.
Tale legge si applica a tutti gli appartenenti alle Federazioni ed alle
associazioni sportive che vi abbiano aderito.
Contemporaneamente, la stessa legge ammette, in deroga a quanto stabilito
precedentemente, la qualificazione degli sportivi come lavoratori autonomi, nel
caso in cui «l’attività sia svolta nell’ambito di una singola manifestazione
sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate per un breve periodo di tempo;
quando l’atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la
frequenza a sedute di preparazione o allenamento; quando la prestazione che è
oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi 8 ore
settimanali oppure 5 giorni ogni mese ovvero 30 giorni ogni anno»
(7)
.
Bisogna, tuttavia, precisare che nel mondo dello sport non sussistono
solamente prestazioni di lavoro retribuite, bensì anche rapporti svolti a titolo
gratuito.
La differenza tra queste due categorie di rapporti lavorativi è incentrata sulla
distinzione tra lo sport professionistico e quello dilettantistico.
La distinzione tra atleti professionisti e dilettanti è contenuta nell’art. 2 della l.
91/81, secondo il quale «sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i
4
Sentenza 23 marzo 1982, causa 53/81, Levin, in Raccolta, 1982, p. 1035 ss.
5
Sentenza 14 luglio 1976, causa 13/76, Donà, in Raccolta, 1976, p. 1333 ss.
6
Art. 3 comma 1, l. 23 marzo 1981 n° 91. Per un commento a tale legge si veda GIUGNI, La
qualificazione di atleta professionista, in Rivista del diritto sportivo, 1986, p. 166 ss.; DURANTI,
L’attività sportiva come prestazione di lavoro, in Diritto del Lavoro, 1988, p. 699 ss.; ROTUNDI,
La legge 23 marzo 1981 n° 21 ed il professionismo sportivo: genesi, effettività e prospettive future,
in Rivista di diritto sportivo, 1990, p. 312 ss.
7
Art. 3, comma 2, l. 23 marzo 1981 n° 91.
4
direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva
a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline
regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle Federazioni
sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle Federazioni stesse, con
l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività
dilettantistica da quella professionistica».
Dal punto di vista giuridico, la qualificazione del CONI, o di una qualsiasi
Federazione sportiva, come datore di lavoro dello sportivo professionista ha
interessato anche la Corte di Cassazione, la quale, in più occasioni, si è
pronunciata, sostenendo che «il rapporto di lavoro del dipendente che, ancorché
assunto direttamente da una Federazione sportiva con contratto di diritto privato,
esibisca la congiunta evenienza dello svolgimento di mansioni di carattere (non
tecnico, ma) amministrativo e del disimpegno delle stesse presso la struttura
centrale dell’organizzazione, ha natura pubblicistica, essendo i caratteri di detta
attività esattamente identici a quelli propri dei lavoratori legati al CONI da
rapporto di pubblico impiego e comandati o distaccati presso le Federazioni
sportive (che del CONI costituiscono organi) ai sensi dell’art. 14, terzo comma,
della legge 23 marzo 1981, n. 91»
(8)
.
Dal contenuto di questa sentenza emerge la figura del datore di lavoro nel
mondo dello sport: al di là delle disposizioni del CONI o delle Federazioni ad esso
affiliate non può esistere un’attività sportiva professionistica.
In realtà, tale pronuncia non sembra riguardare gli atleti, bensì coloro che,
nell’ambito del CONI o delle Federazioni sportive esercitano attività di carattere
amministrativo.
Per questi motivi, non ritengo del tutto corretta la equiparazione del CONI
alla figura del datore di lavoro poiché, come emerge anche dalla stessa l. 91/81,
gli sportivi professionisti che prestano un’attività lavorativa subordinata, sono in
realtà dipendenti delle proprie società di appartenenza.
La stessa Corte di Cassazione
(9)
, inoltre, si era già espressa in tal senso in una
sua precedente pronuncia, nella quale affermava, sempre a proposito dei calciatori
professionisti, che «[…] i giocatori (e i tecnici) chiamati dalla FIGC a far parte
di squadre nazionali pur potendo essere considerati “lavoratori subordinati”,
sono dipendenti delle rispettive società di appartenenza e, in favore della FIGC
8
Sentenza della Corte di Cassazione n° 9690 del 4 luglio 2002.
9
Sentenza della Corte di Cassazione n° 3303 del 20 aprile 1990.
La libera circolazione degli sportivi 5
prestano un’attività salariata che non può essere qualificata “lavorativa” o che,
al più, va inquadrata nella categoria del lavoro autonomo»
(10)
.
La subordinazione alla FIGC può, tuttavia, emergere dal requisito del
necessario tesseramento del giocatore: in mancanza di esso, infatti, il calciatore
non può presentarsi ad alcuna competizione ufficiale.
Il tesseramento, tuttavia, costituisce il titolo che dimostra l’affiliazione di uno
sportivo (anche a livello dilettantistico), ad una determinata Federazione nazionale
od internazionale
(11)
; inoltre, il tesseramento interessa anche gli atleti che praticano
sport individuali, i quali, come si vedrà nell’ultimo capitolo, sono considerati
lavoratori autonomi.
L’attività sportiva, inoltre, non può essere considerata una semplice attività
ludica, in quanto è sempre più condizionata dalle esigenze degli sponsor:
l’inapplicabilità dell’art. 39 del Trattato CE sarebbe possibile solo se non si
tenesse conto anche degli aspetti economici legati al mondo dello sport.
Già nella sentenza Donà, la Corte di giustizia aveva affermato che l’attività
sportiva poteva essere esercitata a scopo di lucro ed avere, quindi, un carattere
economico. Soltanto l’attività dilettantistica, svolta senza remunerazione, risulta
essere esclusa dal campo di applicazione degli artt. 2 e 39 del Trattato CE.
§ 2: la libera circolazione delle persone e la cittadinanza dell’UE
Per quanto riguarda la libera circolazione dei lavoratori, l’art. 39 del Trattato
CE garantisce, nel suo comma 1, che «tale libertà è assicurata».
La stessa norma afferma anche che «essa implica l’abolizione di qualsiasi
discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per
quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro»
(12)
.
10
Su questa sentenza cfr. BIANCHI D’URSO – VIDIRI, Sul rapporto tra FIGC e calciatori delle
squadre nazionali, in Foro Italiano, 1990, I, c. 3171 ss.
11
Per quanto riguarda i calciatori, il loro tesseramento avviene, a livello nazionale, in base all’art.
39, Norme Organizzative Interne della Federazione disposte dalla FIGC; a livello internazionale,
invece, il tesseramento avviene in base al Regolamento FIFA in materia di status e trasferimento
dei calciatori, modificato il 5 luglio 2001.
12
In tema di libera circolazione dei lavoratori, si vedano anche A. ADINOLFI, L’eliminazione, cit.,
parte speciale, Torino, 2000, p. 68 ss.; MOAVERO MILANESI, La libertà di circolazione delle
persone, dei servizi e dei capitali, in Lezioni di diritto comunitario (a cura di FERRARI BRAVO),
vol. 2, Napoli, 1997, p. 269 ss.; M. CORDINANZI, B. NASCIMBENE, Lavoro (libera circolazione
delle persone: profili generali), in Trattato di diritto amministrativo (a cura di M. P. CHITI e G.
GRECO), parte speciale, Milano, 1998, p. 807 ss.; G. ARRIGO, Il diritto del lavoro dell’Unione
europea, vol. 1, Milano, 1998, p. 227 ss.
6
Il termine “discriminazione” contenuto nell’art. 39 del Trattato CE è stato
interpretato in senso ampio: la Corte di giustizia, infatti, ha ritenuto che fossero
contrarie alle disposizioni comunitarie in tema di libera circolazione delle persone,
non solo le discriminazioni “dirette”, bensì anche, e soprattutto, quelle “indirette”,
nonostante queste ultime fossero di più difficile individuazione.
In una sua pronuncia, la Corte di giustizia ha affermato che «il principio di
parità di trattamento […] vieta non soltanto le discriminazioni palesi in base alla
cittadinanza, ma altresì qualsiasi discriminazione dissimulata che, pur fondandosi
su altri criteri di riferimento, pervenga al medesimo risultato (delle prime)»
(13)
.
La Corte di giustizia ha tuttavia ritenuto che, in determinate circostanze, possa
esistere un regime giustificativo a tali discriminazioni
(14)
e cioè che gli Stati
possano invocare alcune esigenze per tutelare le quali è necessario ammettere
limitazioni alla libertà di circolazione.
Obiettivi della libera circolazione dei lavoratori sono l’incremento della
possibilità, offerta ai lavoratori comunitari, di trovare un impiego e di arricchire la
propria esperienza professionale, tramite i contatti con i lavoratori degli Stati
membri, e la nascita di un “tessuto sociale comunitario”, al fine di realizzare una
“unione sempre più stretta fra i popoli europei”, che costituisce uno degli scopi
del Trattato CE.
La libertà di circolazione dei lavoratori ha come proprio corollario il diritto di
spostarsi liberamente nel territorio degli Stati membri, nonché il diritto di
prendere dimora in uno qualsiasi di tali Stati, al fine di svolgere un’attività di
lavoro subordinato.
Beneficiari della disciplina dell’art. 39 del Trattato CE sono i lavoratori
subordinati, considerati, in un primo momento, come semplici «[…] fattori della
produzione dei quali bisognava favorire uno sfruttamento ottimale»
(15)
. In seguito,
la giurisprudenza della Corte di giustizia ha inteso riconoscere ai lavoratori
subordinati una valenza autonoma, distinta dalle definizioni offerte dai diritti
nazionali e fondata sulla circostanza che tali soggetti svolgono «[…] attività reali
ed effettive»
(16)
.
13
Sentenza 12 febbraio 1974, causa 152/73, Sotgiu, in Raccolta, 1974, p. 153.
14
Sentenza 28 gennaio 1992, causa C-204/90, Bachmann, in Raccolta, 1992, p. 249 ss. e sentenza
14 febbraio 1995, causa C-279/93, Schumacker, in Raccolta, 1995, p. 225 ss.
15
L. DANIELE, Il diritto materiale, cit., 2000, p. 79 ss.
16
Sentenza 26 febbraio 1992, causa C-357/89, Raulin, in Raccolta, 1992, p. 1027 ss.
La libera circolazione degli sportivi 7
Con riferimento all’ipotesi dei lavoratori che vogliano trasferirsi in un altro
Stato membro per esercitare il proprio diritto alla libera circolazione, la Corte di
giustizia ha affermato che l’art. 39 del Trattato CE vieta, in primo luogo, la
sussistenza delle «norme nazionali che impediscano ai lavoratori di lasciare il
proprio Paese d’origine»; in secondo luogo, la stessa norma vieta quelle
«disposizioni che dissuadano i lavoratori dal farlo», anche qualora si applichino
«indipendentemente dalla cittadinanza dei lavoratori interessati»
(17)
.
La disciplina della libera circolazione dei lavoratori è stata precisata poi nel
reg. 1612/68 e nella dir. 68/360: il primo ha esteso il contenuto dell’art. 39 del
Trattato CE anche al coniuge, ai discendenti ed agli ascendenti a carico del
lavoratore: a tali soggetti, dunque, sono garantiti gli stessi diritti spettanti ai
lavoratori; la seconda, invece, ha inteso specificare gli aspetti formali connessi al
diritto di ingresso nel territorio di un altro Stato membro. Il diritto di soggiorno è
concepito in collegamento con l’accesso al posto di lavoro e non dovrebbe quindi
essere utilizzato unicamente per cercare lavoro. Allo scadere di un periodo di tre
mesi, termine considerato sufficiente per trovare un impiego, esso deve
comportare il rilascio di un titolo (diverso dalla carta di soggiorno degli stranieri
extra-comunitari) denominato “carta di soggiorno del cittadino di uno Stato
membro della Comunità” (art. 4, dir. 68/360), da rilasciarsi su presentazione del
documento di identità in forza del quale l’interessato ha varcato la frontiera e di
una dichiarazione di assunzione del datore di lavoro o di un attestato di lavoro.
Il rilascio è automatico e la carta è valida per almeno cinque anni ed è
automaticamente rinnovabile anche se l’interessato ha perduto il lavoro.
Oltre all’opera legislativa, occorre citare la rilevante giurisprudenza della
Corte di giustizia, in particolare la pronuncia seguita al caso Van Duyn
(18)
, che ha
affermato l’applicabilità diretta della libertà di circolazione sin dalla fine del
periodo transitorio, conclusosi nel 1964.
La Corte di giustizia ha poi sottolineato che alla carta di soggiorno
menzionata nella dir. 68/360 va attribuito un carattere “puramente dichiarativo”,
in quanto «il diritto di soggiorno è acquisito dal lavoratore in forza delle
disposizioni del diritto comunitario, indipendentemente dal rilascio, da parte
della competente autorità dello Stato membro, di un permesso di soggiorno»
(19)
.
17
Sentenza 26 gennaio 1999, causa C-18/95, Terhoeve, in Raccolta, 1999-I, p. 345 ss.
18
Sentenza 4 dicembre 1974, causa C-41/74, Van Duyn, in Raccolta, 1974-I, p. 1337 ss.
19
Sentenza 27 settembre 1989, causa C-9/88, Lopez de Veiga, in Raccolta, 1989, p. 2989 ss.
8
Peraltro, nel quadro dell’applicazione del diritto comunitario, la Commissione
riconosce la specificità dello sport, dato il suo particolare ruolo sociale ed
educativo. Per tale motivo non tutte le disposizioni relative alla libera circolazione
dei lavoratori si applicano anche a tale settore.
§ 3: lo sport ed il riconoscimento dei diplomi
I cittadini che esercitano le professioni dello sport incontrano alcuni ostacoli
alla libera circolazione. Si tratta, in particolar modo, della diversità delle
disposizioni nazionali di formazione per lo svolgimento delle professioni dello
sport e delle disparità esistenti nelle condizioni di esercizio delle professioni dello
sport.
La diversità delle normative nazionali e perfino regionali per la formazione e
per le qualifiche relative alle professioni dello sport è rilevante poiché tali norme
possono, a seconda delle situazioni, provenire da autorità sportive federali, dal
sistema scolastico e universitario, dai pubblici poteri ovvero dalle organizzazioni
professionali.
Anche nelle condizioni di esercizio delle professioni dello sport si possono
riscontrare alcune disparità tra gli Stati membri.
In alcuni di questi Paesi, l’accesso all’insegnamento, all’animazione o
all’inquadramento sportivo è condizionato al possesso di un diploma di Stato,
mentre in altri Stati membri, il diploma non è obbligatorio per svolgere funzioni di
inquadramento sportivo nell’ambito professionale.
Tali disparità possono in alcuni casi ostacolare la libera circolazione di coloro
i quali svolgono una professione sportiva, determinando così l’insorgere di alcuni
problemi, in particolare quando i lavoratori di uno Stato membro si trovano a
subire la concorrenza sul proprio territorio nazionale di istruttori di altri Stati
membri aventi una diversa formazione, ovvero privi di qualsiasi formazione.
Un esempio in questo senso è fornito dal caso del signor Georges Heylens,
cittadino belga, al quale venne impedito di esercitare la sua professione di
allenatore in Francia, nonostante egli godesse di un diploma legalmente
conseguito nel suo Stato di origine
(20)
.
20
In merito a tale questione, la Corte di giustizia si è espressa nella sentenza 15 ottobre 1987,
causa 222/86, Union Nazionale des entraîneurs et cadres techniques professionnels du football
(UNECTEF) c. Heylens e altri, in Raccolta, 1987, p. 4097 ss.
La libera circolazione degli sportivi 9
Pur avendo ricevuto un’offerta di lavoro da una società francese (l’Olympic
Lille), al signor Heylens non venne riconosciuto il proprio diploma da parte della
“Commissione per le equivalenze dei diplomi”. Nonostante il mancato
riconoscimento non fosse stato motivato, il sindacato di categoria degli allenatori
di calcio (UNECTEF) lo citava, unitamente ai dirigenti della società che lo aveva
ingaggiato, dinanzi al Tribunale di Lille.
Avendo dubbi sulla compatibilità della normativa francese con le norme sulla
libera circolazione dei lavoratori, il Tribunal de Grand Istance di Lille sospendeva
il giudizio finché la Corte di giustizia si fosse pronunciata sulla seguente
questione pregiudiziale «se il fatto di porre come requisito per esercitare l’attività
retribuita di allenatore di una compagine sportiva (art. 43, legge 16 luglio 1984,
n° 610) il possesso di un diploma francese o di un diploma straniero riconosciuto
equivalente da una commissione che decide con parere motivato, e avverso il
quale non è contemplato nessun specifico gravame, costituisca, in mancanza di
una direttiva che si applichi a detta attività, una limitazione della libera
circolazione dei lavoratori di cui agli artt. 48 e 51 del Trattato CE».
Per rispondere a tale questione, la Corte di giustizia sosteneva che l’art. 39 del
Trattato CE attuava, per quanto riguardava i lavoratori, il principio fondamentale
sancito dall’art. 3, lett. c, del Trattato CE, secondo cui, ai fini enunciati all’art. 2,
l’azione della Comunità importava l’eliminazione, tra gli Stati membri, degli
ostacoli alla libera circolazione delle persone e dei servizi.
A tale proposito, la Corte di giustizia richiamava la sua precedente
giurisprudenza
(21)
.
Sul merito della vicenda Heylens, la Corte di giustizia si è espressa,
sostenendo che «[…] la libera circolazione dei lavoratori costituisce uno dei
principi fondamentali della Comunità, che la mancanza di direttive non osta a che
questo principio abbia efficacia diretta nell’ordinamento giuridico degli Stati
membri e che il requisito relativo al possesso dei diplomi, costituendo un ostacolo
per l’esercizio della libertà di stabilimento, deve essere legittimo e quindi
giustificato da situazioni di necessità e deve essere interpretato restrittivamente
[…]. Tale diritto è conferito individualmente a qualsiasi lavoratore della
Comunità».
21
Sentenza 7 luglio 1976, causa 118/75, Watson, in Raccolta, 1976, p. 1185 e ss.
10
Infine, dopo aver valutato l’incompatibilità delle norme nazionali che
richiedevano il possesso di un diploma (o atto equivalente) per l’esercizio di
determinate professioni con le norme sulla libera circolazione dei lavoratori, la
Corte di giustizia, ha dichiarato che «qualora in uno Stato membro, l’accesso ad
un’attività lavorativa dipendente sia subordinato al possesso di un diploma
nazionale o di un diploma straniero riconosciuto equivalente, il principio della
libera circolazione dei lavoratori sancito dall’art. 48 del Trattato CE richiede che
la decisione, con cui si rifiuta ad un lavoratore cittadino di un altro Stato membro
il riconoscimento dell’equivalenza del diploma rilasciato dallo Stato membro di
cui egli è cittadino, sia soggetta ad un gravame di natura giurisdizionale che
consenta di verificare la sua legittimità rispetto al diritto comunitario e che
l’interessato possa venire a conoscenza dei motivi alla base della decisione»
(22)
.
Il sistema generale di riconoscimento reciproco dei diplomi, messo a punto
dalla Commissione risolve poi il problema per quanto riguarda le professioni che
rientrano nel suo ambito di applicazione.
Questo sistema, realizzato tramite due direttive principali, si applica alle
professioni regolamentate, vale a dire alle attività professionali riservate ai titolari
di un diploma o di ogni altro titolo di qualifica rilasciato dal sistema nazionale di
formazione.
Il sistema si applica ad alcune attività professionali del settore dello sport (ad
esempio, agli istruttori di sci).
È questo il caso in cui il possesso di un diploma è indispensabile per poter
svolgere legalmente una professione sportiva.
Tale sistema comporta che lo Stato membro ospitante non possa rifiutare ad
un cittadino di uno Stato membro di svolgere una professione se ha la qualifica
necessaria nel suo Stato membro per svolgere la medesima professione.
In particolare, lo Stato ospitante è tenuto al riconoscimento del diploma, ma
può applicare delle misure correttive.
Le differenze che mettono in moto i meccanismi di adattamento possono
essere di due tipi: quantitative e qualitative. Nel primo caso, cioè nel caso in cui la
durata della formazione professionale sia inferiore di almeno un anno a quella
prescritta nello Stato membro ospitante, quest’ultimo può richiedere un periodo di
formazione professionale di durata doppia rispetto al periodo di formazione
22
Sentenza 15 ottobre 1987, causa 222/86, Heylens, in Raccolta, 1987, p. 4097 ss.
La libera circolazione degli sportivi 11
mancante o di durata uguale al periodo mancante. Nel secondo caso, cioè nel caso
in cui ci sia una differenza sostanziale tra le materie studiate nello Stato di origine
e quelle studiate nello Stato di destinazione, le autorità dello Stato di destinazione
possono esigere un tirocinio della durata massima di tre anni od una prova
attitudinale.
Il principio fondamentale delle direttive è, quindi, quello del riconoscimento.
Tuttavia esistono alcune eccezioni in caso di differenze sostanziali riguardanti il
livello delle qualifiche ovvero la durata della formazione professionale.
I titoli per le qualifiche sportive rilasciate da Federazioni nazionali o da altri
organismi sportivi rientrano nel campo d’applicazione delle direttive, quando
questi organismi sono stati formalmente abilitati da un’autorità pubblica a
rilasciare tali qualifiche.
§ 3.1: segue - accenni alle riforme inerenti alla circolazione nel
settore dello sport
Vi sono altri ostacoli alla libera circolazione dei lavoratori nel settore dello
sport. In particolare, si tratta degli ostacoli che riguardano le professioni non
oggetto delle disposizioni indicate sopra, cioè le professioni che non necessitano
di una qualifica particolare, come quella dei calciatori professionisti. Questi ultimi
possono incontrare ostacoli di vario tipo alla libera circolazione.
Il sistema di trasferimento dei calciatori professionisti ne è un esempio: tale
sistema è stato oggetto di intensi negoziati nel corso degli ultimi anni in quanto la
Commissione riteneva, tra l’altro, che le regole del sistema di trasferimento
violassero le norme sulla concorrenza e costituissero un ostacolo alla libera
circolazione dei calciatori professionisti.
In seguito a numerose denunce successive al caso Bosman, delle quali ci
occuperemo più avanti, la Commissione ha avviato una nuova procedura contro le
regole di trasferimento della FIFA in applicazione del diritto della concorrenza.
In tale ambito, sono state avviate discussioni su vari aspetti del sistema dei
trasferimenti, compresi quelli rientranti nella libera circolazione dei lavoratori.
Non si trattava né di sopprimere, né di sostituire il sistema di trasferimento, bensì
di definirlo in maniera da renderlo compatibile con il diritto comunitario e di
garantire la libera circolazione dei giocatori, tenendo conto della specificità dello
sport.
12
Nel marzo del 2001 è stata trovata una soluzione soddisfacente, compatibile
con il diritto della concorrenza, nonché con le disposizioni comunitarie in materia
di libera circolazione dei lavoratori, tenendo nel contempo conto degli aspetti
specifici del calcio.
Le nuove disposizioni consentono di assicurare la stabilità dei contratti fra i
giocatori ed i club al fine di proteggere tanto gli interessi dei club, quanto gli
interessi dei giocatori e del pubblico.
Nel contempo, il principio della libera circolazione dei calciatori è stato
integralmente salvaguardato, mentre possono giustificarsi misure che riconoscano
una durata minima e massima dei contratti ed un sistema di compensazione o di
sanzioni, tenuto conto anche di alcune esigenze specifiche del calcio, quali la
necessità di garantire l’equità delle competizioni o la stabilità economica delle
squadre. Altre disposizioni di cui si è particolarmente occupata la Commissione
riguardano la tutela dei giovani giocatori, nonché la formazione di questi ultimi
nell’ambito del calcio europeo.
È opportuno aggiungere che la Commissione, in data 5 marzo 2001, ha
dichiarato la compatibilità con il diritto comunitario di undici grandi principi
fondamentali della riforma del sistema dei trasferimenti. La FIFA ha dato
attuazione a tale riforma nell’agosto del 2001.
La Commissione, dal canto suo, ha tenuto a precisare che essa non può
garantire la compatibilità di alcune regole relative ai trasferimenti con il diritto
nazionale di ogni Stato.
La libera circolazione degli sportivi 13
§ 4: la concezione dell’atleta professionista ed il ruolo nella
disciplina dell’attività sportiva delle Federazioni internazionali
Le Federazioni sportive sono sorte alla fine del XIX secolo o all’inizio del
successivo. In un primo tempo, queste erano delle mere associazioni di
dilettantismo.
Dopo la IIª guerra mondiale, il professionismo si è sviluppato poco a poco e si
è “innestato” su queste antiche strutture e ciò ha condotto alla maggior parte delle
difficoltà che incontra oggi il mondo sportivo. Le Federazioni si sentivano
investite di una missione di interesse superiore, quale la difesa dello sport che
unisce gli uomini nella fraternità. Esse si ritenevano, in un certo qual modo, al di
fuori del tempo e dello spazio, e, certamente, si credevano al di sopra degli Stati
nazionali e delle loro legislazioni.
Di conseguenza, pensavano di poter godere di una grande indipendenza dalle
autorità nazionali. Un esempio in tal senso è stato offerto dalla tragedia
dell’Heysel, quando, in occasione della finale di Coppa Campioni del 1985, 39
tifosi juventini sono morti a seguito del crollo delle strutture di sostegno dello
stadio belga causato dalle intemperanze degli hooligans inglesi.
Nei processi di responsabilità civile che sono seguiti, l’UEFA è stata
condannata, sia in prima istanza, sia nel giudizio di appello, a pagare una certa
percentuale dei danni ed interessi dovuti ai familiari delle vittime. Queste
pronunce sono state in seguito confermate da una sentenza della Corte di
Cassazione belga.
Dal canto suo, l’UEFA ha pubblicato un comunicato stampa nel quale
sosteneva di non riconoscere l’autorevolezza di queste sentenze e riteneva di non
essere tenuta al rispetto della Costituzione belga. In quanto associazione che
raggruppava più di 40 Federazioni, essa, in effetti, si riteneva al di sopra delle
Carte fondamentali degli Stati che vi aderivano.
L’allora Ministro dell’Interno belga Tobback aveva risposto in modo risentito,
precisando, tra l’altro, che se l’UEFA intendeva organizzare in Belgio delle
attività sportive con finalità economiche, ciò non poteva avvenire se non nello
stretto rispetto delle norme dell’ordinamento giuridico belga.
A tale impostazione dell’UEFA si ricollega, peraltro, anche la sua visione
dello sportivo professionista: poiché le squadre e le Federazioni sportive non
potevano essere considerate delle imprese commerciali, lo sportivo professionista
14
non poteva essere ritenuto un lavoratore equiparato alle figure professionali
riconosciute dai vari ordinamenti nazionali.
A sostegno della propria tesi, le Federazioni sportive ricordavano che lo
sportivo professionista era un soggetto privilegiato in virtù delle considerevoli
somme guadagnate. Era normale, quindi, che gli fossero imposte certe restrizioni
ed obbligazioni straordinarie.
In secondo luogo, diventare uno sportivo professionista era una scelta e non
un obbligo. Operare questa scelta presupponeva l’accettazione piena ed
incondizionata degli statuti della Federazione a cui ci si affiliava
(23)
.
§ 5: le sentenze Walrave e Donà
Queste sentenze hanno costituito una prima affermazione del carattere
economico dell’attività sportiva, che implicava una sottoposizione alle norme del
Trattato in materia di libertà di circolazione. Per ciò che riguarda la sentenza
Walrave
(24)
, essa riguardava un caso di ciclismo professionistico su pista. In questo
genere di corse, ogni ciclista ha un allenatore che guida una moto nella cui scia si
piazza il corridore.
I signori Walrave e Kock, cittadini olandesi, erano allenatori e si erano sentiti
lesi da un nuovo regolamento dell’Unione Ciclistica Internazionale (UCI) che
imponeva, a partire dal 1973, nel quadro dei Campionati del Mondo di
mezzofondo, che allenatori e ciclisti avessero la stessa nazionalità.
La Corte di giustizia era stata chiamata a pronunciarsi in via pregiudiziale, a
seguito dell’intervento del Tribunale Distrettuale di Utrecht, sulla legittimità di
questa normativa in rapporto agli artt. 7
(25)
, 39 e 49 del Trattato CE, nonché sulla
interpretazione del reg. 1612/68.
In tale sede, essa aveva affermato che «tenuto conto degli obiettivi della
Comunità, l’esercizio degli sport dipende dal diritto comunitario nella misura in
cui esso costituisce un’attività economica ai sensi dell’art. 2 del Trattato.
23
J. L. DUPONT, Le droit communautaire et la situation du sportif professionnel auprès l’arrêt
Bosman, in Revue du Marché Unique Européen, 1996, p. 65 ss.
24
Sentenza 12 dicembre 1974, causa 36/74, Walrave, in Raccolta, 1974, p. 1405 ss.
25
L’art 7, il cui testo originario precisava che «nel campo di applicazione del presente Trattato, e
senza pregiudizio delle disposizioni particolari dallo stesso previste, è vietata ogni
discriminazione effettuata in base alla nazionalità […]», è stato abrogato dall’art. 6 (parte I, punto
2) del Trattato di Amsterdam.
La libera circolazione degli sportivi 15
Allorché un’attività ha il carattere di una prestazione di lavoro salariata o di
una prestazione di servizio retribuita, essa cade, più particolarmente, nel campo
di applicazione, a seconda del caso, degli articoli da 48 a 51 o da 59 a 66 del
Trattato. Queste disposizioni, che mettono in pratica la regola generale dell’art. 7
del Trattato, proibiscono ogni discriminazione fondata sulla nazionalità
nell’esercizio delle attività da esse disciplinate»
(26)
.
Nel rispetto degli obiettivi della Comunità, dunque, la Corte di giustizia
sosteneva che il rapporto giuridico da cui le prestazioni sportive traevano origine
fosse irrilevante, poiché il principio della non discriminazione valeva
indistintamente per tutte le prestazioni di lavoro o di servizi.
Nelle motivazioni della Corte di giustizia si legge che «esula da tale divieto la
composizione di squadre sportive (e in particolare delle rappresentative
nazionali) operata esclusivamente in base a criteri tecnico-sportivi; è perciò
impossibile configurare tale attività sotto il profilo economico».
Tale interpretazione derogatoria, comunque, andava intesa in maniera
rigorosa e non poteva essere estesa oltre i limiti ben definiti del settore cui si
riferiva. In questo senso si può spiegare la decisione della Corte di giustizia di
lasciare al giudice nazionale il compito di decidere se, nel caso di specie,
allenatore e corridore costituissero una squadra.
Al termine del caso Walrave, la Corte di giustizia ha ricordato che «gli artt. 7,
48 e 59 vietano, nei settori da essi rispettivamente disciplinati, qualsiasi
discriminazione fondata sulla cittadinanza. Tale divieto riguarda non solo gli atti
della pubblica autorità, ma le norme di qualsiasi natura dirette a disciplinare
collettivamente il lavoro subordinato e la prestazione di servizi. Infatti,
l’abolizione fra gli Stati membri degli ostacoli alla libera circolazione delle
persone ed alla libera prestazione di servizi (che costituisce uno degli obiettivi
fondamentali della comunità, consacrato nell’art. 3, lettera C, del Trattato)
sarebbe compromessa se oltre alle limitazioni stabilite da norme statali, non si
eliminassero anche quelle poste da associazioni od organismi non di diritto
pubblico nell’esercizio della loro autonomia giuridica».
Quanto alla sentenza Donà, essa verteva sulle clausole di nazionalità che, in
seguito, formeranno anche l’oggetto di una parte della sentenza Bosman.
26
Sentenza 12 dicembre 1974, causa 36/74, Walrave, in Raccolta, 1974, p. 1405 ss.