8
Successivamente, si tratterà specificamente delle dispute teoriche in ordine al
fondamento razionale della legittima difesa, a cominciare dal contributo di
Grozio, attraverso le acquisizioni della filosofia tedesca, fino alla polemica
italiana tra scuola positiva e scuola classica a cavallo tra ‘800 e ‘900.
La ricerca della ratio della scriminante condurrà al riconoscimento dei vantaggi
delle c.d. teorie pluralistiche, che ricostruiscono il significato della legittima
difesa intorno a due istanze, al tempo stesso autonome e complementari:
l’autotutela diretta e la difesa indiretta dell’ordinamento giuridico.
Volgeremo, poi, lo sguardo sulla disciplina della legittima difesa nei codici
preunitari e, soprattutto, nel codice Zanardelli del 1889, sottolineando come
l’inserimento della fattispecie nella parte generale, all’art. 49/2 c.p. non abbia
precluso il mantenimento di un’ipotesi speciale, quella di cui all’art. 376/1 nn.1-2
c.p., per i fatti di omicidio e lesioni commessi in quanto costretti dalla necessità di
respingere un ladro violento o un attacco notturno portato intra moenia.
La seconda parte della dissertazione prenderà le mosse da un’indagine relativa
alle ragioni sottese alla nuova formulazione normativa dell’istituto, di cui all’art.
52 del codice penale Rocco del 1930; quindi, si soffermerà brevemente sulla
qualificazione dogmatica della legittima difesa in termini di causa di esclusione
dell’antigiuridicità obiettiva, avente efficacia universale, ossia in tutti i settori
dell’ordinamento giuridico.
In seguito, l’attenzione si focalizzerà sulla struttura della scriminante generale di
cui all’art. 52/1 c.p., di cui si descriveranno analiticamente i vari elementi
costitutivi: dalla situazione aggressiva alla reazione difensiva, illustrando le varie
interpretazioni dottrinali sviluppatesi, e tenendo sempre in debita considerazione
la copiosa produzione giurisprudenziale.
L’esposizione terrà conto dei principali aspetti problematici di ogni singolo
requisito, accennando anche alle soluzioni proposte dai vari progetti di riforma
della parte generale del codice penale susseguitisi negli ultimi quindici anni - in
particolare il disegno di legge-delega della commissione Pagliaro (1992), il
progetto di articolato elaborato dalla commissione Grosso (2000) e il progetto
Nordio (2005) - e senza tralasciare qualche osservazione di carattere
comparatistico.
9
La disamina dei requisiti della fattispecie scriminante sarà condotta privilegiando
quello della proporzione, il quale non si pone sullo stesso piano dei restanti
elementi, ma in qualche misura li comprende tutti e li trascende in una visione di
insieme della reazione difensiva, di cui esprime la complessiva congruità
sostanziale. Sotto quest’ultimo profilo, si esporranno, dapprima, le tappe
dell’evoluzione giurisprudenziale relativa ai termini del raffronto, sulla scorta
delle acquisizioni della dottrina; si darà conto, poi, degli esiti dei più accurati
studi sulla questione “nevralgica” del momento in cui effettuare il giudizio di
proporzione e sulle circostanze da porre a base di esso, dimostrando come il
modello dell’accertamento condotto ex post si dimostri più idoneo a fornire
soluzioni applicative coerenti, rispetto al giudizio ex ante.
La terza parte sarà dedicata interamente all’esame della modifica recentemente
apportata all’art. 52 c.p. Si analizzeranno, dapprima, i motivi posti a fondamento
dell’intervento legislativo, tenendo presente che esso costituisce il punto di arrivo
dell’analisi politica del mutato contesto sociale e criminale che avrebbe reso, ad
avviso dei promotori della riforma, la vecchia norma inattuale ed insufficiente a
fronteggiare la minaccia per la sicurezza dei cittadini, rappresentata dalle
aggressioni nei domicili privati e nei luoghi di lavoro.
Si esporranno, poi, le critiche avanzate da esponenti del mondo politico e
giuridico alla soluzione normativa adottata, in particolare quelle relative al
contrasto di essa con taluni principi fondamentali del nostro ordinamento,
consacrati dalla Costituzione.
Si darà, in seguito, conto dei principali “antecedenti” della riforma, nel senso di
una maggiore tutela della sicurezza privata, in particolare, l’art. 31 co.3 del
Progetto Nordio del 2005, il quale disegnava per la prima volta una scriminante
di uso legittimo delle armi nel proprio domicilio.
L’analisi della nuova fattispecie di cui all’art 52/2-3 c.p., in assenza di sentenze,
di merito o di legittimità, in argomento, sarà incentrata sull’esegesi letterale e
sistematica della nuova disposizione, nel tentativo di sciogliere le problematiche
definizioni degli elementi costitutivi del novellato istituto. L’esposizione terrà
conto dei due diversi inquadramenti della fattispecie, prospettati dalla dottrina:
da un lato, quello secondo cui l’art. 52 co.2-3 sarebbe un’ipotesi speciale di
10
difesa legittima, derogatoria rispetto alla figura generale di cui al primo comma,
solo per la peculiare disciplina del rapporto di proporzione e, pertanto, ad essa
corrispondente quanto ai restanti requisiti, specie quello attinente alla necessità
difensiva; dall’altro, l’orientamento secondo cui si tratterebbe di una nuova ed
autonoma fattispecie scriminante, simile a quella di esercizio di un diritto di cui
all’art. 51 c.p. e, sotto un altro profilo, a quella di uso legittimo delle armi da
parte del p.u., di cui all’art. 53 c.p.
A conclusione dell’indagine, si esporranno i motivi di perplessità in ordine alla
scelta effettuata, in particolare relativi alla criptica formulazione del testo
normativo, e si segnaleranno le alternative a disposizione del legislatore, che
apparivano idonee al fine di assicurare più ampli margini di non punibilità a
reazioni eccessive realizzate in particolari condizioni psicologiche, senza alterare
i delicati equilibri conquistati dall’istituto della legittima difesa in decenni di
elaborazione giurisprudenziale e dottrinale.
11
Parte I
DALLE ORIGINI AL CODICE
ZANARDELLI
12
Capitolo I
INQUADRAMENTO STORICO E FILOSOFICO
DELL’ISTITUTO
1. La legittima difesa nel diritto romano, intermedio e canonico.
1.1. Il generale principio “vim vi repellere licet” e l’ipotesi speciale della difesa
contro il “fur manifestus”.
Se è vero che la legittima difesa è un istituto riconosciuto in tutti i tempi e presso
tutti i popoli, benché in diversa estensione, come azione conforme al diritto(
1
), è
nella civiltà giuridica romana che si trova per la prima volta l’affermazione decisa
di tale principio. La scriminante in esame deve ascriversi alla categoria generale
dell’esercizio di un proprio diritto; a tale proposito sono noti i testi romani:
<<nullus videtur dolo facere, qui iure suo utitur>> e <<nemo damnum facit, nisi
qui id fecit, quod facere jus non habet>>(
2
). Sebbene nel loro significato genuino
si rapportino a limitati argomenti di diritto privato, essi esprimono tuttavia l’idea
fondamentale secondo cui, anche nel diritto pubblico, non commette illecito chi,
ledendo gli interessi e le pretese di un altro soggetto, fa cosa a cui aveva diritto o
si serve di mezzi consentiti dalla legge(
3
). Nella orazione Pro T.Annio Milone,
Cicerone afferma che il principio “vim vi repellere licet” deriva direttamente dalla
umana coscienza, è un principio innato, una norma di diritto naturale(
4
). Analogo
è il contenuto di diversi frammenti di giureconsulti, contenuti nel Digesto:
Fiorentino in D. 1,1,3 afferma <<ut vim atque iniuria propulsemus: nam iure hoc
(
1
) Cfr. LISZT, Lehrbuch des deutschen Strafrects, Funfte Auflage, § 32, Berlin 1892, p. 145.
(
2
) GAIO, D. 50,17,55; PAOLO, D. 50,17,151.
(
3
) LONGHI, Repressione e prevenzione nel diritto penale attuale, Milano, 1911, p. 105.
(
4
) CICERONE, Pro Milone IV, § 10 <<Est igitur haec, iudices, non scripta sed nata lex, quam non
didicimus, accepimus, legimus, vero ex natura ipsa adripuimus, hausimus, expressimus>>.
13
evenit, ut quod quisque ob tutelam corporis sui fecerit, iure fecisse existimetur>>;
così Gaio, D. 9,2,4 <<nam adversus periculum naturalis ratio permittit se
defendere>>; e ancora Paolo, D. 9,2,45,4 <<vim enim vi defendere omnes leges
omniaque jura permittunt>> e Ulpiano, D. 43,16,1,27 <<vim vi repellere licet
Cassius scribit idque jus natura comparatur>>. A questa regola sono anche
ispirate alcune costituzioni imperiali, una di Gallieno, in cui è dichiarata legittima
l’uccisione del rapinatore, il quale ha per primo maturato il proposito
dell’omicidio(
5
), una di Gordiano, in cui è stabilito che non è punibile colui che
abbia ucciso l’aggressore(
6
) ed una di Valentiniano(
7
); quest’ultima fa dipendere
l’impunità dell’omicidio commesso per difendersi dalla graziosa concessione del
perdono da parte dell’imperatore, perdono che non doveva accordarsi se non a chi
dimostrasse che l’uccisione era stata resa necessaria dal fine della tutela di sé:
questa anomala procedura, dunque, mirava solo ad impedire che i colpevoli si
esimessero dalla giusta sanzione, non a contraddire il principio in base al quale è
giustificata l’uccisione dell’ingiusto aggressore(
8
). Data dunque la dovizie di
testimonianze, relative alla esistenza del principio generale della legittima difesa
ed alla sua applicazione, reperibili tanto nelle fonti del periodo repubblicano,
quanto nella compilazione giustinianea, si può essere certi che essa sia stata
riconosciuta, senza sostanziali variazioni, in tutte le varie epoche del diritto
romano(
9
).
Sebbene i dati pervenutici, relativi al modo di applicare praticamente l’istituto,
non siano completi, risultano comunque sufficienti per delineare i tratti
fondamentali della legittima difesa nel diritto romano(
10
). Quanto alla situazione
aggressiva, la prima condizione richiesta era l’ingiustizia della aggressione
(
5
) L.2, Cod. ad L. Corn. de sic. <<Si, ut adlegas, latrocinantem peremisti, dubium non est eum,
qui inferendae caedis voluntatem precesserat, iure caesum videri.>> (a. 265).
(
6
) L.3, Cod. ad L. Corn. de sic. <<Is, qui adgressorem vel quemcumque alium in dubio vitae
discrimine constitutus occiderit, nullam ob id factum calumniam metuere debet>> (a. 243). Per
“quemcumque alium” deve intendersi un compagno dell’aggressore, che prestasse a questo un
aiuto effettivo o anche si limitasse ad intimidire la vittima con la sua presenza.
(
7
) L.2, tit.3, De homicidiis casu an voluntate factis <<…si homicidium vel casu vel vitandae
mortis necessitate constiterit admissum, venia tribuatur orantibus…>> (a. 445).
(
8
) CIVOLI, Intorno alla legittima difesa e allo stato di necessità: studio storico in Riv.Pen. 1893
(XXXVII), pp. 21 ss
(
9
) ARU, Appunti sulla difesa privata in diritto romano in Annali del Seminario Giuridico della
R.Università di Palermo, vol. XV, Cortona, 1936, p. 125.
(
10
) POSITANO DE VINCENTIIS, voce difesa legittima e stato di necessità, in Digesto Italiano, vol.
IX parte II, p. 359.
14
(injusta aggressio), in relazione alla quale il diritto antico faceva dipendere tutto
dalla esistenza o meno del diritto che si intendeva esperire; l’evoluzione
successiva elaborò invece il concetto per cui il titolare di un diritto non aveva per
ciò solo la facoltà di usare privatamente violenza per attuarlo, essendo questa
sempre iniuria e, perciò, delitto. In altri termini, l’esercizio violento faceva
decadere dal diritto corrispondente, rimanendo l’azione un non iure facere(
11
). Il
secondo requisito era rappresentato da un pericolo attuale (periculum praesens),
non passato dunque, dato che allora si sarebbe dovuto parlare di vendetta e non di
difesa(
12
), né futuro, mancando in tal caso l’urgenza dell’azione privata(
13
). Era
considerato attacco attuale, non solo quello cominciato, in cui l’aggressore avesse
già esercitato violenze sulla vittima, ma anche quello imminente. Quali requisiti
inerenti alla reazione difensiva, erano individuati l’immediatezza di essa (ex
continenti, confestim, non ex intervallo) e l’inevitabilità altrimenti del pericolo(
14
):
ne derivava che se per far desistere l’aggressore fossero state sufficienti le
minacce, non sarebbero stati giustificati l’uccisione o il ferimento di lui. Alla luce
di tali osservazioni, sembra chiaro che se l’aggredito avesse potuto evitare il
pericolo con la fuga, lo dovesse fare, sebbene nessun testo lo imponesse
esplicitamente. Una eccezione si riscontrava nel caso di attacco alla persona
congiunto ad un attacco ai beni: il possessore di un fondo invaso non era tenuto a
fuggire, abbandonandolo all’invasore, ma ben poteva restare e difenderlo.
L’aggressione poteva essere diretta ad offendere beni personali o patrimoniali.
Notevole differenza vi era, tuttavia, tra l’una e l’altra specie di violenza in ordine
alla misura della reazione che si poteva legittimamente opporre: da ciò si evince
come requisito implicito della legittima difesa fosse la proporzione della reazione
all’offesa. Tra i beni personali la cui tutela poteva spingersi sino all’uccisione
(
11
) Cfr. FERRINI in Enciclopedia del diritto penale italiano di Pessina, vol. I, Milano 1905, p. 75.
(
12
) Cfr. D. 9,2,45,5 << Illum enim solum, qui vim infert, ferire conceditur, et hoc si tuendi
dumtaxat, non etiam ulciscendi causa factum sit>>.
(
13
) Oltre alla difesa privata, o autotutela, preventiva, avente cioè come scopo la conservazione
dello status quo, il diritto romano primitivo e classico ammetteva, con una larghezza
assolutamente sconosciuta alle moderne legislazioni, la difesa reattiva, volta invece alla
reintegrazione di un diritto violato. E’ noto d’altronde come il diritto classico non conoscesse,
nell’esercizio dei diritti reali, finchè non si fosse trascesi ad offese contro le persone, delitto per
ragione fattasi (ad esempio non rispondeva di furto il proprietario che sottraesse al ladro la cosa
propria). Cfr. in proposito; ARU op. cit., p. 114.
(
14
) Cfr. PAOLO, D. 9,2,45,4 <<Qui, cum aliter tueri se non possent, damni culpam dederint,
innoxii sunt>>.
15
dell’aggressore, oltre alla vita ed all’integrità personale, si annoverava, già in età
repubblicana, anche la libertà sessuale: celebre in tal senso il caso del “miles
marianus”, citato da Cicerone nella orazione “Pro Milone”, il quale aveva ucciso
un tribuno per difendere il proprio pudore(
15
). In argomento vi sono anche due
testi giuridici: un rescritto dell’imperatore Adriano(
16
), che sanciva in via generale
la liceità dell’uccisione di colui che con la violenza attentasse all’altrui pudore ed
una sentenza di Paolo, in cui i casi di omicidio e stupro sono considerati
assolutamente analoghi, essendo in entrambi i casi lecito uccidere l’aggressore(
17
).
Laddove ad essere minacciati fossero soltanto beni patrimoniali, si poteva far uso
della forza per impedire la violazione del proprio diritto, purché questa fosse
unicamente diretta alla conservazione delle res e non trascendesse ad offendere la
persona di chi cercava di appropriarsene. Solamente quando il tempo o il modo
scelti per commettere reati contro la proprietà fossero tali da implicare una
minaccia alla incolumità fisica del proprietario (nonché quando il ladro, per
sopraffare il possessore che cercava di togliergli la cosa rubata, iniziava a
percuoterlo), questi poteva ferire o addirittura uccidere l’aggressore. Emblematica
in tal senso l’ipotesi della difesa privata contro il “fur manifestus”, prevista dalla
Legge delle XII Tavole, Tab. VIII, 12 Si nox furtum faxsit, si im occisit, iure
caesus esto. 13 Luci . . . si se telo defendit . . . endoque plorato(
18
). Della regola
decemvirale troviamo ricordo, come di diritto vigente, in Cicerone(
19
) e
Quintiliano, i quali tuttavia non la riferiscono come direttamente derivante dal
principio generale “vim vi repellere licet”; solo presso i giureconsulti classici la
disposizione appare direttamente allacciata alla regola sulla violenza. Ma mentre
la figura del ladro diurno che si difende con le armi può agevolmente rientrare
(
15
) CICERONE, Pro Milone IV: l’episodio avvenne durante la campagna contro i Cimbri (101 a.C.).
Un tribuno dell’esercito di Mario, il quale per l’assenza di quest’ultimo si trovava ad essere
comandante interinale delle operazioni di guerra, tentò di usare violenza ad un soldato semplice, di
nome Plozio, e ne fu ucciso. Mario considerò il soldato innocente e gli risparmiò il processo.
(
16
) Il rescritto in esame è ricordato da MARCIANO, D. 48,8,1,4 <<Item divus Hadrianus rescripsit
eum, qui stuprum sibi vel suis per vim inferentem occidit, dimittendum>>.
(
17
) PAOLO, Sent. 5, 23 § 8 <<Qui latronem caedem sibi inferentem vel alias quemlibet stupro
occiderit, puniri non placuit: alios enim vita, alios pudorem pubblico facinore defenderunt>>.
(
18
) Da F.I.R.A., Firenze, 1960, p. 57.
(
19
) CICERONE, Pro Tull., 20,47 <<Atque ille legem mihi de XII tab. recitavit, quae permittit, ut
furem noctu liceat uccidere, et luci, si se telo defendat >>; ID, Pro Mil. 3,9 << XII tab. nocturnum
furem quoquo modo, diurnum autem, si se telo defenderet, interdici impune voluerunt, quis es, qui,
quoquo modo quis interfectus sit, puniendum putet… >>.
16
nella teoria generale della legittima difesa(
20
), potendo costui ledere l’incolumità
personale del derubato, ben diverso si presentava il caso del ladro notturno. Gli
autori del periodo repubblicano erano concordi nell’affermare che l’uccisione di
lui era lecita “omnimodo”: non era quindi l’elemento della violenza inferta dal
ladro ad essere preso in considerazione, bensì la condizione particolare nella quale
aveva voluto commettere il reato, la notte. Nella sua figura primitiva perciò
l’uccisione del ladro notturno poteva essere considerata come una eccezionale
estensione dell’esercizio della privata tutela a difesa dei propri beni, una severa
misura di polizia(
21
). La giurisprudenza classica si sforzò di ricondurre la
fattispecie entro i limiti della necessaria difesa, non senza apportare alla
disposizione decemvirale importanti modifiche: così Paolo, nelle sue Sentenze,
osservava che sarebbe stato meglio consegnare alla pubblica autorità il ladro
sorpreso in tali circostanze(
22
). Pomponio d’altronde esprimeva forti dubbi circa
l’applicabilità al suo tempo del rigido precetto delle XII Tavole e sosteneva che
dovesse soggiacere alla Legge Cornelia colui che avesse ucciso un ladro che
avrebbe potuto prendersi vivo(
23
). Ulpiano ne seguì il parere, come si evince dai
passi del Digesto nei quali la facoltà di uccidere l’aggressore è dal giurista
condizionata alla sussistenza di un pericolo personale per il derubato(
24
). Si può,
perciò, concludere osservando come la giurisprudenza classica abbia assolto
(
20
) Ferma restando l’ulteriore condizione della chiamata di testimoni, espressamente richiesta
dalla legge (“endoplorato”, da GAIO tradotto, in latino più moderno, con <<ut tamen id ipsum cum
clamore testificetur>> in D. 9,2,4,1.
(
21
) Cfr. ARU, Appunti sulla difesa privata, op. cit., p. 134.
(
22
) PAOLO, Coll. VII, 2,1, Libro Sententiarum quinto ad Legem Corneliam de sicari set veneficis
<<Si quis furem nocturnum vel diurnum cum se telo defenderet occiderit, hac quidam lege non
tenetur, sed melius fecerit, qui eum comprehensum transmittendum ad presidem magistratibus
optulerit>>.
(
23
) Ritiene il passo interpolato SOLAZZI, per il quale <<non è serio far dipendere l’esistenza del
reato dalla catturabilità dell’ucciso>>. Così facendo infatti dovrebbe ritenersi consentita
l’uccisione del ladro notturno in fuga, ormai lontano, con una freccia scoccata dall’anziano
derubato, impossibiltato a raggiungerlo (Dispute romanistiche in Studi in memoria di Aldo
Albertoni, vol. I, Padova, 1935, p. 37).
(
24
) ULPIANO, D. 9,2,5 <<Sed et si quemcumque alium ferro se petentem quis occiderit, non
videbitur iniuria occidisse: et si metu quis mortis furem occiderit, non dubitabitur, quin lege
Aquilia non teneatur. sin autem cum posset adprehendere, maluit occidere, magis est ut iniuria
fecisse videatur: ergo et Cornelia tenebitur>>. Come si nota, al “noctu” della norma decemvirale è
sostituito il “metu mortis”. ID, D. 48,8,9 <<Furem nocturnum si quis occiderit, ita demum impune
feret, si parcere ei sine pericolo suo non potuit>>: dal testo si evince come non vi fosse più
presunzione di legittima difesa ma dovesse invece darsi la prova del pericolo per la propria
persona.
17
all’esigenza di riportare la difesa contro il “fur manifestus” nel più rigoroso
ambito della legge contro la violenza(
25
).
1.2. La disciplina dell’istituto nel diritto longobardo.
In Italia l’influenza del diritto barbarico si fece sentire relativamente tardi: il
dominio di Odoacre non lasciò alcuna traccia nella legislazione e l’Editto del
successore di lui, Teodorico, altro non fece che riprodurre, in ordine al diritto di
difesa, le leggi latine(
26
), di cui la compilazione era del resto, anche nelle altre
parti, un rozzo estratto(
27
). E’ noto, peraltro, come, ristabilita dalle armi di
Belisario l’autorità imperiale in Italia, vi fossero pubblicate le collezioni
giustinianee. Fu, dunque, solo in seguito alla venuta dei Longobardi che sorse
nella penisola un nuovo diritto. L’Editto di Rotari dettava due disposizioni
specifiche. La prima riguardava il caso del “fur nocturnus” e stabiliva che se
alcuno, sorpreso di notte nel cortile altrui, non si fosse lasciato legare, poteva
essere ucciso impunemente, senza che i suoi parenti se libero, o il suo padrone, se
schiavo potessero pretendere il guidrigildo; ciò perché, affermava Rotari, chi ha
una qualche ragione per entrare in casa di un altro di notte lo avverte della sua
presenza, gridando prima di entrare(
28
). Geyer sostenne che questa legge non
poteva spiegarsi altrimenti che tenendo conto della santità della casa e del cortile,
(
25
) Cfr. ARU, op. ult. cit., p. 135.
(
26
) Edictum Theodorici, XV <<Qui percussorem ad se venientem ferro repulerit non habetur
homicida; quia defensor propriae salutis videtur in nullo pecasse>>. La formula è sostanzialmente
uguale a quella di una legge dell’imperatore Gordiano: <<Si quis percussorem ad se venientem
gladio repulerit non ut homicida tenetur, quia defensor propriae salutis in nullo pecasse videtur>>.
Invano dunque si porterebbe tale disposizione legislativa per dimostrare quale fosse lo stato del
diritto germanico nella penisola italiana, poiché l’Editto di germanico conserva ben poco.
(
27
) Cfr. Digesto Italiano, vol. IX parte II, p. 362.
(
28
) Roth., c. 32. La fattispecie in esame rappresenta una costante nelle varie legislazioni
germaniche, nelle quali riceveva tuttavia discipline parzialmente diverse: per la legge Ripuaria
(cap. LXXVII) si doveva in ogni caso cercare di legare il ladro e, laddove non vi si riuscisse, lo si
poteva uccidere ma si doveva rendere immediatamente pubblico il fatto; la legge Bavara (Tit. VIII,
cap. 8) invece non imponeva tale procedura e si limitava a dichiarare impunita l’uccisione del
ladro notturno sorpreso sul fatto, così come la legge Visigota (VIII, 2,16) e la legge Burgunda
(27,8; Cfr. sul punto DEL GIUDICE, Diritto penale nell’epoca germanica: cause modificatrici
dell’imputabilità e del reato, in Enciclopedia del diritto penale italiano di Pessina, Milano, 1905,
p. 502).
18
i cui profanatori venivano uccisi in espiazione del loro delitto(
29
). Tuttavia, fu
osservato come, se il notturno invasore dell’altrui domicilio si fosse lasciato
legare, contro di lui non si potesse far altro che obbligarlo a pagare una sanzione
pecuniaria. Perciò il diritto di ucciderlo non scaturiva dal solo fatto che egli si
fosse arbitrariamente introdotto nell’abitazione altrui, ma dalla resistenza che egli
opponeva: non si trattava, dunque, di una misura di repressione, ma di
prevenzione, non di un atto di vendetta, ma di difesa(
30
). Contro chiunque, anche
se non ladro od omicida e soltanto perché presumibilmente tale.
L’altra disposizione dell’Editto di Rotari sanciva che non costituivano reati gli
omicidi e le ferite commesse per respingere coloro che si fossero riuniti per
perpetrare atti di violenza(
31
); tuttavia la ragione giustificatrice della previsione si
attagliava perfettamente anche all’ipotesi di chi si difendesse contro un solo
individuo: non era infatti il numero degli assalitori, ma l’intrinseca legittimità
degli atti diretti alla tutela di sé a motivare la decisione. Ciò induce a ritenere che,
se taluno fosse stato assalito, fuori dalla propria abitazione, da un aggressore
isolato, sino all’età di Liutprando potesse ucciderlo senza incorrere in alcuna pena,
neanche il pagamento del guidrigildo agli eredi. A conferma di questa
impostazione, l’esplicito riconoscimento, in un’altra norma(
32
), di tale facoltà, nel
caso in cui l’aggressore fosse un maniaco: sarebbe assurdo ritenere, nonostante
l’assenza di una previsione espressa a riguardo, che per tutelarsi si potesse
offendere un soggetto infermo di mente e non invece uno nel pieno possesso delle
proprie facoltà mentali(
33
). Le leggi di Liutprando segnarono un’evidente
modifica del diritto anteriore nel senso del parziale disconoscimento del diritto di
difesa: fu stabilito infatti che chi uccideva per difendersi dovesse pagare la
composizione stabilita da Rotari per l’omicidio(
34
). L’origine di questa
(
29
) L’Autore nega che il diritto germanico riconoscesse lo jus defensionis e perciò ritiene che
quando, in talune circostanze, tale diritto attribuiva al privato la facoltà di uccidere altri, lo facesse
in considerazione della morte civile in cui era incorso colui la cui l’uccisione era dichiarata
impunita.
(
30
) CIVOLI, Intorno alla legittima difesa, op. cit., p. 36.
(
31
) Roth., leg. 285.
(
32
) Roth., leg. 328.
(
33
) CIVOLI, op. ult. cit., p. 37.
(
34
) Liutpr., leg. IV, 2.: <<Si quis, liber homo, liberum hominem occiderit, et si probatum fuerit
quod se defendendum ipsum hominem occidisset, sic eum componat, sicut in anteriori edicto
continet, quod gloriose memoriae Rothari rex facere visus est>>. Per l’omicidio commesso per
19
disposizione, contraria alla legge romana ed a quelle di altre popolazioni
barbariche(
35
) è da ricercarsi nell’influenza del diritto della Chiesa, autorità allora
veneratissima, la quale trattava con poco favore la materia della legittima difesa,
scorgendovi quasi sempre una componente peccaminosa. Sta di fatto che questo
obbligo antigiuridico di pagare la vita dell’aggressore ucciso fu mantenuto nelle
leggi di Ludovico il Pio e ricomparve anche in seguito nei Capitolari dei re
Franchi e negli stessi Capitolari di Carlo Magno. Tale disciplina non giunse mai
ad avere completa applicazione in Italia, sia perché i Longobardi non acquisirono
mai il dominio dell’intera penisola, sia perché quando il fatto non fosse avvenuto
fra Longobardi, non si applicava la loro legge, ma quelle proprie delle altre
popolazioni scese in Italia (v.nota 35). Quando finalmente rinacque lo studio delle
leggi romane, esso non valse per lungo tempo a far sparire l’uso delle
composizioni pecuniarie(
36
), ma non tardò a ripristinare il principio della assoluta
impunità dell’omicidio commesso in stato di legittima difesa(
37
), di cui solo per le
peculiarità della cultura giuridica longobarda si era offuscata la limpida
percezione.
1.3. La concezione restrittiva del diritto canonico.
Il diritto canonico riprodusse sostanzialmente la dottrina romana sulla legittima
difesa, limitandone però l’estensione(
38
). Nell’analisi del reato, esso si
qualsiasi altra causa fu invece da lui prevista la ben più grave sanzione della confisca dell’intero
patrimonio; Liutpr., leg. VI, 88.
(
35
) Ostrogoti e Visigoti, infatti, avevano riprodotto le regole del diritto romano in tema di
legittimità della difesa; i Burgundi punivano l’aggredito soltanto se uccideva l’aggressore dopo
che questi si fosse già dato alla fuga, imponendogli comunque il pagamento solo della metà del
guidrigildo; i Ripuari, addirittura, ammettevano incondizionatamente la difesa contro il forbatudo
(malamente confuso da alcuni autori con il forbannitus, che è colui che è colpito da morte civile),
ossia colui che era colto in procinto di rubare o commettere atti di violenza.
(
36
) Uso la cui ingiustizia legale veniva percepita meno chiaramente per la già ricordata influenza
del diritto canonico e che probabilmente non era idoneo a trattenere alcuno dall’uccidere chi lo
aggrediva, trattandosi di una imposizione contraria agli impulsi congeniti alla natura umana.
(
37
) Principio che già la giurisprudenza aveva iniziato a rivitalizzare, adottando decisioni in
opposizione alla parola del legislatore. Con le leggi carolingie, d’altronde, l’abolizione di ogni
contraria disposizione, già caduta in disuso, fu espressamente stabilita: col Capitolare di Worms
dell’anno 829 colui che aveva ucciso per propria difesa fu dichiarato immune da pena.
(
38
) La Chiesa, la cui causa nell’età di mezzo fu quella dello spirito e della libertà contrò l’impero
della violenza e della immoralità, non poteva non proclamare il diritto di legittima difesa; ma per
20
concentrava, più che sulla violazione del diritto, sulla trasgressione del dovere
Conseguenza di tale impostazione era che la giustizia penale venisse
amministrata, non oggettivamente, in ragione della entità del fatto commesso, ma
soggettivamente, a seconda dei moventi che avevano determinato l’autore a
commetterlo. Nella materia della legittima difesa i canonisti non ritennero ingiuste
le leggi che l’avevano consacrata; ma constatando che, nel caso concreto, colui
che aveva ucciso l’assalitore poteva facilmente essere stato mosso da sentimenti
malevoli, ritennero opportuno che facesse penitenza, per espiare la mancanza di
carità cristiana. Di qui la caratteristica denominazione che fu data all’istituto:
“moderamen inculpatae tutelae”. Cura precipua dei canonisti fu, dunque, quella di
restringere entro i limiti più angusti l’esercizio incolpato della propria difesa,
affinché non si infliggesse all’offensore un male maggiore di quello necessario
per far cessare l’offesa ed assicurare la propria sicurezza; ed in ogni caso si
indagava se il minacciato, nell’atto di difendersi, fosse stato animato dalla sola
intenzione di conseguire tale scopo. Coerentemente il diritto canonico impose
agli aggrediti l’obbligo di fuga(
39
). Sotto un altro profilo, esso ampliò il concetto
di legittima difesa, imponendo a ciascun individuo la difesa del diritto altrui:
quando l’assalito era un terzo, la mancanza di interesse personale ad intervenire in
suo soccorso “purgava” l’uccisione o il ferimento commessi da ogni macchia di
peccato(
40
).
la missione che era chiamata ad adempiere, quella di far prevalere tra gli uomini la legge divina
della carità e del perdono, non poteva essere indotta a conferire all’istituto una sfera di
applicazione molto ampia.
(
39
) La dottrina più antica distingueva tra necessitas evitabilis ed inevitabilis: nel primo caso, in cui
l’uccisione dell’aggressore poteva evitarsi fuggendo, l’aggredito era punito, mentre rimaneva
impunito in caso di necessitas inevitabilis. In seguito si affermò una diversa opinione che
distingueva a seconda che l’aggredito potesse senza sua onta o disonore fuggire, quando cioè fosse
un plebeo, un chierico o un religioso, oppure non potesse, ovvero quando si trattasse di un soldato
o di un nobile secolare e limitava l’obbligo di fuga solo al primo caso. Ma tale impostazione non
poggiava su testi giuridici. Del resto fuggire non rappresenta una difesa, ma il suo contrario: colui
che si allontana dal luogo del pericolo e non lo affronta, assicura la propria esistenza, negando la
dignità umana, la quale è superiore a qualsiasi distinzione di classi sociali. Cfr. SCHIAPPOLI, Cause
scriminanti secondo il Diritto canonico: necessaria difesa in Enciclopedia del diritto penale di
Pessina, vol. I, Milano, 1905, p. 736.
(
40
) Cfr. voce Difesa legittima in Digesto Italiano, op. cit., p. 365. La dottrina canonistica ha
elevato ad obbligo giuridico la difesa del prossimo (non solo un parente, ma anche un estraneo)
ingiustamente aggredito, in base ad alcune fonti che impongono di amare e quindi aiutare il
prossimo (non in base al concetto che la legittimità non sta nella difesa di sé ma nella difesa del
diritto). Ma le fonti citate, non consentono una simile estensione: in una di esse S.Agostino (c.19,
C. XXIII, qu. 5) distingue le varie cause per cui può avvenire l’omicidio ma non dichiara affatto che
quello commesso per difendere un terzo ingiustamente aggredito sia scusato; nelle altre fonti citate
21
Circa la natura del bene difeso, era ammessa la difesa della vita e della integrità
personale, nonchè del pudore; il diritto era escluso quando si trattasse della
conservazione dei soli beni patrimoniali(
41
). Nel “Decretum Gratiani” erano
individuate le condizioni della legittima difesa: in primo luogo un’aggressione
ingiusta, onde se l’aggressore faceva valere un diritto, non era permesso
difendersi; quindi i sudditi non potevano opporre la scriminante contro i
rappresentanti della giustizia, i figli contro i genitori, gli allievi contro i maestri. In
secondo luogo, un pericolo attuale, ossia già concretizzatosi oppure
incombente(
42
). Infine, che il “modus defensionis” fosse proporzionato all’offesa,
considerando che l’aggredito non era tenuto a rendersi conto delle condizioni
soggettive dell’aggressore, perciò anche l’uccisione di un soggetto non imputabile
poteva essere considerata lecita.
Affinché la punibilità dell’azione fosse esclusa,
occorreva che il soggetto non avesse superato i limiti del “moderamen inculpatae
tutelae”; e se il limite soggettivo era dato dallo scopo della difesa, ossia di
respingere un attacco antigiuridico, il limite obiettivo consisteva nel non arrecare
all’aggressore una violenza maggiore di quella richiesta dalla difesa stessa. Il
superamento dei limiti determinava l’eccesso di difesa (excedere modum in
defendendo) e l’azione non era esente da pena, la quale era diversa a seconda che
l’eccesso fosse dovuto a dolo ovvero a colpa. La verifica della sussistenza di una
situazione di eccesso imponeva la valutazione delle condizioni individuali degli
agenti, sempre tenendo in debita considerazione lo stato di particolare eccitazione
indotta nella vittima dall’aggressione.
(tra cui Ambr., c.5 e 7, C. XXIII, qu. 3) non si dice mai che simile aiuto deve consistere in
un’azione delittuosa, anche se commessa per un fine lecito (qual è quello di respingere un’ingiusta
aggressione).
(
41
) <<Pro conservandis vilibus rebus et transitoriis>>, Alessandro III, cap. 20, Extrav. de hom.
vol. vel cas. Sul punto tuttavia la dottrina non era unanime: una parte non voleva ammettere la
legittima difesa perchè le fonti parlavano di offesa alla persona ed alcune di esse espressamente
vietavano l’uccisione del ladro, ritenendo preferibile perdere i beni; ma in seguito la dottrina operò
una distinzione, che non trova alcuna base nei testi, tra beni di minimo e di ingente valore, nonché
di facile ovvero difficile recuperabilità attraverso le vie legali, alla stregua della quale la morte
dell’aggressore era lecita solo in caso di bene prezioso difficilmente reintegrabile. L’unico
argomento in appoggio di tale opinione era una disposizione di Stefano V (885-889), che
dichiarava immune dall’impedimento canonico colui che avesse ucciso per difendere la propria
libertà, dimenticando che essa non è un bene patrimoniale, ma un fondamentale diritto della
persona (Cfr. SCHIAPPOLI in Enc.Pessina, op. cit., p. 738).
(
42
) Quando l’aggressione sia cessata, nessuna difesa è più ammessa: questo è il vero significato
delle parole <<quia tamen id debet fieri cum moderamine inculpatae tutelae, non ad sumendam
vindictam, sed ad iniuriam propulsandam>>, c.18, X, de homic., V, 12.