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quello dell’esistenza o meno nella Costituzione italiana di un
principio di garanzia della proprietà privata.
Già nello Statuto Albertino, all’art. 29, era disposto: «tutte le
proprietà senza alcuna eccezione, sono inviolabili: tuttavia quan-
do l’interesse pubblico, legalmente accertato, lo esiga, si può esse-
re tenuti a cederle in tutto o in parte, mediante una giusta indenni-
tà conformemente alle leggi».
Tale testo trova una evidente modifica nella relativa nor-
mativa della nuova Costituzione repubblicana che, all’art. 42, reci-
ta: «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici apparten-
gono allo Stato, ad enti o a privati.
La proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge,
e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale».
Questo, però, non significa conservazione della proprietà
privata così come è, o in tutte le sue forme attuali di manifestazio-
ne, in quanto il legislatore ha il compito di imporre limiti
quantitativi e qualitativi alla proprietà privata «allo scopo di
assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».
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In altri termini, nell’imporre questi limiti, il legislatore non
può compromettere la sopravvivenza dell’istituto della proprietà
privata nel senso suddetto; anzi, proprio l’obiettivo previsto dalla
Costituzione di massima diffusione della proprietà stessa, dimo-
stra l’illegittimità costituzionale di un ordinamento che ne preve-
desse la sostanziale soppressione.
Da quanto scritto ne deriva che il legislatore potrebbe sia ri-
durre (salvo il detto limite quantitativo) il campo della proprietà
privata, attribuendo allo Stato intere categorie di beni privati, sia
imporre limitazioni al godimento dei singoli beni privati apparte-
nenti a categorie non avocate alla collettività.
L’avocazione di intere categorie di beni è del resto già avve-
nuta in passato, infatti anche quando era vigente lo Statuto di tipo
liberale, e quando si trasferirono (fin dal 1884) al demanio dello
Stato le acque di pubblico generale interesse e furono sottratte alla
libera disposizione dei privati tutte le miniere (attribuite al patri-
monio indisponibile dello Stato), nonché tutti gli oggetti di valore
archeologico non conosciuti, anche se esistenti in sottosuolo di
proprietà privata.
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E’ dunque chiaro, quindi, che ciò potrebbe avvenire a mag-
gior ragione oggi, in base alla nuova Costituzione, purché ciò si
verifichi con riferimento a tutti i beni di una determinata categoria
e purché non sia superato il detto limite quantitativo, cioè purché
alla proprietà privata sia conservato spazio sufficiente a darle an-
cora valore caratterizzante dell’ordinamento (esempi in tal senso
si possono individuare nella legge 5 gennaio 1994 n. 36, sulla e-
spropriazione generalizzata e senza indennizzo di tutte le acque
superficiali e sotterranee, già giudicata favorevolmente da Corte
cost. 27 dicembre 1996 n. 419, nonché nella legge 5 gennaio 1994 n.
37, laddove — modificando gli artt. 942, 945 e 946 del codice civile
— attribuisce al demanio pubblico la proprietà dei terreni abban-
donati per eventi naturali e per fatti artificiali indotti dall’attività
antropica).
Indubbiamente è il legislatore stesso l’interprete d’elezione
della coscienza sociale; ma anche nella determinazione della cate-
goria dei beni privati da avocare, come nella valutazione
dell’interesse generale legittimante l’avocazione, la sua discrezio-
nalità non può trasmodare in arbitrio. Ad esempio, prima della
legge 10 del 1977, sulla riforma in via generale del regime di ap-
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partenenza di tutti i suoli e di cui si dirà in seguito, l’avocazione (o
l’imposizione di un vincolo di inutilizzabilità, per es., al fine di e-
dificare, che, come si vedrà, può in determinate circostanze alla
prima assimilarsi), avente ad oggetto i terreni di una determinata
fascia costiera e diretta alla tutela di apprezzabili fini paesistici
non avrebbe potuto essere legittimamente compiuta senza
indennizzare i proprietari interessati, laddove i beni in questione
non sembrassero costituire una categoria nel senso suindicato (sul
punto, il 30 giugno 1997, si è pronunciata la Corte Costituzionale
in ordine alla questione di legittimità costituzionale delle leggi
della Regione Sardegna n. 17/1981 e n. 23/1985, recanti un vinco-
lo d’inedificabilità nella fascia di 150 metri dal mare; tale vincolo è
stato ritenuto connaturale alle caratteristiche intrinseche del bene
e, quindi, non suscettibile d’indennizzo).
Naturalmente gli esempi, in un senso o nell’altro, potrebbe-
ro moltiplicarsi, ma con poco profitto, poiché essi presupporreb-
bero anche apprezzamenti tecnici, economici, politici, destinati, ol-
tre tutto, a mutare e rimessi alla discrezionalità del legislatore.
L’avocazione alla mano pubblica, senza indennizzo, di un
gruppo di beni privati, non costituenti un’intera categoria nel sen-
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so suindicato, sarebbe in contrasto con l’art. 42 Cost., perché si ri-
solverebbe in un’espropriazione senza indennizzo di beni appar-
tenenti a un genere dì proprietà dalle leggi riconosciuto e garanti-
to in via di principio.
2. Le norme urbanistiche italiane.
Un breve rimando sull’evoluzione della legislazione urbani-
stica italiana è utile, sia per conoscere i precedenti degli strumenti
giuridici vigenti, sia per confrontare gli istituti legislativi con la
corrispondente realtà dello sviluppo territoriale italiano. Da ciò
deriva un dato significativo e costante: la diffusa e mancata utiliz-
zazione degli strumenti previsti dalle leggi vigenti.
L’enorme confusione urbanistica e la rovina del territorio
sono stati determinati più dalla violazione delle relative norme
giuridiche, che dai difetti delle medesime.
Infatti di fronte al crescente numero di leggi speciali, ema-
nate per l’adozione dei piani regolatori delle maggiori città come
Milano, Torino e Roma, che avevano introdotto, notevoli e talvolta
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dissimili innovazioni nel sistema legislativo in materia urbanisti-
ca, trovò finalmente realizzazione la richiesta, avanzata da più
parti, per l’approvazione di una legge urbanistica generale, che
stabilisse una disciplina, unitaria e moderna, del settore.
E fu così che, dopo lunghi ed travagliati studi e non lievi
contrasti interni, in pieno periodo bellico, nacque la legge del 17
agosto 1942, n. 1150, che diede finalmente alla materia
dell’urbanistica una disciplina giuridica unitaria ed autonoma.
L’attuazione di tale legge — che non è stata mai seriamente
tentata dalle autorità competenti (a cominciare dalla mancata e-
manazione dell’indispensabile regolamento di esecuzione) — a-
vrebbe anche potuto realizzare una razionale e moderna pianifi-
cazione territoriale, evitando i macroscopici e scandalosi inconve-
nienti verificatisi nello sviluppo urbanistico delle maggiori città.
Ma non può negarsi che la legge non prevede alcuni mezzi (parti-
colarmente di carattere finanziario) indispensabili per una sua
pratica utilizzazione, e non risolve, anzi aggrava, il problema — di
ordine etico-economico e oggi anche giuridico-costituzionale —
della perequazione urbanistica.
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Emanata in pieno conflitto mondiale, a guerra finita fu quasi
tenuta da parte e solo un decennio dopo, cominciò ad avere una
ben limitata attuazione tra tante incertezze ed incomprensioni.
Di fronte alle gravissime conseguenze della seconda guerra
mondiale appena terminata, mentre già cominciava a svolgersi
l’attività costruttiva dei privati, si cercò qualche più agile e snello
mezzo legislativo, atto a promuovere l’imponente opera di rico-
struzione.
E fu cosi che si introdusse nel nostro ordinamento giuridico,
i piani di ricostruzione con il D.L. del 1 marzo 1945, n. 145.
In tal modo fu subito compromesso, sia pure forse per ap-
prezzabili esigenze, il risultato — finalmente raggiunto, pur con
l’eccezione, certo non trascurabile, dei piani paesistici, previsti
dalla legge sulla tutela del paesaggio del 29 giugno 1939, n. 1497
— di avere, con la legge urbanistica, una disciplina organica ed
unitaria degli insediamenti edilizi, che negli ultimi anni,
nell’attesa vana di una nuova legge urbanistica generale, può rite-
nersi solo un’occasione perduta. Con i piani di ricostruzione aven-
ti contenuto ed efficacia di piano regolatore particolareggiato si
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sperava di contemperare l’esigenza di una organica e razionale si-
stemazione dei centri abitati con la necessità di provvedere ai più
urgenti lavori di ricostruzione. E si cercò di raggiungere tale scopo
semplificando e accelerando la procedura di approvazione dei
piani e quella per le espropriazioni — estensibili anche nelle aree
fabbricabili comprese nelle zone di espansione determinate nel
piano in quanto «necessarie per le ricostruzioni dell’aggregato
urbano».
Ma — a parte la ricorrente considerazione sulla parziale ap-
plicazione della legge e sull’inosservanza dei piani approvati, ol-
tre che sulla concorrenza di altre non coordinate iniziative pubbli-
che — non era certo con una legge d’emergenza e avente limitati
obiettivi che si poteva disciplinare il vasto sviluppo delle città
conseguente all’evoluzione economico-sociale del Paese, cioè, in
particolare, al passaggio da una economia di tipo rurale ad una
economia di tipo prevalentemente secondario e terziario, che ha
comportato forti migrazioni e quindi forti concentrazioni di popo-
lazione nei principali agglomerati urbani.
Così la speranza che le distruzioni della guerra almeno ser-
vissero per una ricostruzione organica e razionale degli abitati
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andò completamente delusa, sia per l’inadeguatezza degli stru-
menti legislativi adoperati, sia per il generale mancato ricorso a
quelli previsti dalla legge urbanistica del 1942, nei quali troppo
spesso privati e pubbliche Amministrazioni vedevano un intralcio
all’incontrollato gioco politico, cui si prestava invece la concessio-
ne della licenze edilizie, la distribuzione arbitraria delle opere di
urbanizzazione, la scelta delle aree per l’edilizia sovvenzionata e
la programmazione annuale delle opere pubbliche.
In generale, dunque, si diede via libera alle colate di cemen-
to, che hanno soffocato il respiro di tante città, senza che, in circa
trent’anni, il legislatore stesso tentasse di porvi rimedio (a parte
l’estensione ai piani regolatori delle misure di salvaguardia, già
disposte per i piani di ricostruzione, e l’unificazione nel Consiglio
Superiore dei Lavori Pubblici di tutti i pareri prima demandati al-
la competenza di vari Ministeri ed organi consultivi).
Di qui - dopo la tendenza legislativa ad una pianificazione
urbanistica settoriale – il tentativo di reazione con l’approvazione
della Legge Ponte per l’urbanistica del 6 agosto 1967, n.765, che
era diretta a porre un freno agli abusi edilizi con nuove sanzioni e
ad incentivare la formazione dei piani comunali e a condizionare
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il contenuto di tali piani, attribuendo speciali poteri all’autorità
governativa.
Sennonché anche questa legge non raggiunse gli effetti spe-
rati: il fenomeno degli abusi edilizi esplose in misura più clamoro-
sa; dopo dieci anni una grande percentuale di Comuni era ancora
priva di qualsiasi disciplina urbanistica; il non risolto problema
del regime dei suoli aveva continuato ad influire negativamente
sul contenuto dei piani urbanistici comunali.
Importante passaggio si è verificato con l’art. 17 della legge
del 16 maggio 1970, n.281 che mise finalmente in grado le Regioni
di legiferare, tra l’altro anche in materia urbanistica, previa ema-
nazione di un decreto legislativo recante l’indicazione delle com-
petenze trasferite (d. Pres. Rep. 15 gennaio 1972, n. 8).
Ma se questo ha consentito l’avvio della legislazione regio-
nale, non ha però risolto i problemi che incidono in maniera de-
terminante sul piano dell’autonomia legislativa delle Regioni. In
particolare è stato attuato il nuovo assetto istituzionale senza che
sia siano fissati i principi fondamentali, la cui funzione di stru-
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menti di guida per la legislazione regionale di dettaglio è insosti-
tuibile.
L’assenza quindi di sicuri punti di riferimento ha costretto il
legislatore regionale ad operare entro i limiti dei principi fonda-
mentali desumibili dalla legislazione statale vigente, con intuibili
gravi incertezze, che si riflettono anche nel momento in cui lo Sta-
to, tramite il governo, era chiamato ad operare il controllo costitu-
zionale sulle leggi regionali. La realizzazione della programma-
zione regionale necessitava e necessita di principi certi e chiari che
servono da quadro di riferimento specialmente in ordine alla di-
stribuzione delle competenze tra Stato e Regioni in materia di as-
setto del territorio, di difesa del suolo e delle cosiddette opere di
interesse regionale o nazionale.
Si è cercato allora di introdurre con la legge 10 del 1977, re-
cante: la nuova disciplina del regime dei suoli; nuove e più severe
misure per la repressione degli abusi edilizi; maggiori limitazioni
alla possibilità di edificare nei Comuni sprovvisti di qualsiasi pia-
no urbanistico.
PUNTI DI VISTA FOTOGRAFICI - pagina estratta dall'Allegato
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