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CAP. 1: IL DIRITTO INTERNAZIONALE DEI RIFUGIATI
Clandestini, immigrati, extracomunitari, profughi, disperati, dannati, illegali, irregolari,
fuorilegge, persino terroristi e attivisti di Al Qaeda: sono tanti i modi usati dai principali
quotidiani italiani, nella ricerca condotta da Marcella Delle Donne
1
, per definire i boat-
people, le persone che rischiano la vita per attraversare quello stretto corridoio di mare
che separa le coste libiche o tunisine da quelle lampedusane o maltesi. Definizioni forti,
che tuttavia nascondono, più o meno volutamente, agli occhi del lettore, ciò che
veramente molte di queste persone sono: richiedenti asilo. Si tratta infatti di persone che
non cercano semplicemente migliori condizioni di vita, ma che sono in fuga da guerre,
da persecuzioni, talvolta da disastri ambientali, che rischiano di mettere in pericolo la
loro vita. Persone, dunque, che non scelgono di partire, ma che sono costrette a farlo per
difendere la propria incolumità, per cercare protezione altrove perché il proprio Stato
non è in grado di proteggerle o addirittura è esso stesso il persecutore. È proprio questo
ciò che distingue un profugo da un migrante economico: mentre quest‘ultimo vuole
soltanto acquisire una maggiore professionalità e magari accumulare un certo capitale
economico da mandare ai familiari in patria o per costruirsi un progetto di vita
irrealizzabile nel proprio Paese, il primo cerca prioritariamente un riparo da una
situazione di discriminazione, di persecuzione, di guerra che lo mette in serio pericolo
di vita. Se il partire è una condizione che li accomuna, le motivazioni che sono alla base
di quel partire sono invece completamente diverse.
Il fenomeno dell‘asilo, si potrebbe quindi dire, è vecchio come l‘uomo: da quando ci
sono le guerre, da quando i popoli cercano di sopraffare altri popoli e di dominarli con
la forza, ci sono sempre persone in fuga verso posti più sicuri. Emblematico, in questo
senso, è il ruolo di protezione e di inviolabilità storicamente accordato alle chiese e ai
luoghi sacri in generale, pronti ad accogliere e a dare rifugio alle persone perseguitate
soprattutto per motivi religiosi. Con il declino del potere temporale della Chiesa e la
nascita degli Stati-nazione, questo ruolo di protezione è stato assunto dalle
rappresentanze diplomatiche. Si trattava però di un asilo extraterritoriale: le persone
potevano trovare rifugio all‘interno delle ambasciate degli Stati esteri presenti nel
territorio del proprio Stato. La questione rifugiati è però salita alla ribalta internazionale
1
M. Delle Donne: “Un cimitero chiamato Mediterraneo. Per una storia del diritto d’asilo nell’Unione
Europea”, DeriveApprodi 2004, pp. 122 sgg.
10
solo nel XX secolo, quando, vuoi per ragioni politiche, vuoi per le dimensioni
numeriche che il fenomeno andava assumendo, i governi cominciarono a cercare degli
accordi a livello internazionale per affrontare questa situazione. I conflitti etnici e
nazionalistici (il genocidio armeno su tutti), la rivoluzione russa e la prima guerra
mondiale spinsero infatti milioni di persone a lasciare le loro case e la loro terra per
cercare protezione presso altri Stati. La Società delle Nazioni, l‘organizzazione
internazionale nata dalle ceneri del primo conflitto mondiale, tenterà di occuparsi, tra le
altre cose, della sorte di questi profughi, ma la situazione politica, economica e sociale
degli anni Venti e Trenta non è certo tra le migliori. La mancanza di volontà politica nel
rafforzare gli obiettivi e gli strumenti della Società delle Nazioni; l‘assenza, nello stesso
organismo, degli Stati Uniti e il successivo abbandono di Germania, Giappone e Italia;
la crisi economica del 1929; la nascita di regimi autoritari nel cuore del Vecchio
Continente; l‘affermazione di un‘ideologia fortemente revanscista e nazionalista, basata
sull‘identificazione in un ―noi‖, sull‘appartenenza ad un gruppo specifico e
sull‘automatica esclusione dell‘‖altro‖; la conseguente promulgazione in alcuni Stati di
leggi razziali: tutti questi fattori contribuirono a far precipitare la situazione
internazionale verso un conflitto di proporzioni mai viste prima. Le atrocità e le
violenze della seconda guerra mondiale, con i milioni di morti che si lasciò dietro e con
interi Paesi completamente distrutti, spinsero i governi a riunirsi nuovamente per
cercare una volta per tutte di ―salvare le future generazioni dal flagello della guerra‖ e di
―riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell‘uomo, nella dignità e nel valore della
persona umana, nella eguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni
grandi e piccole‖
2
. I governi ritennero ormai maturi i tempi per la nascita di una
organizzazione internazionale in grado di ―mantenere la pace e la sicurezza
internazionale‖ e di ―conseguire la cooperazione internazionale nella soluzione dei
problemi internazionali di carattere economico, sociale, culturale od umanitario, e
promuovere ed incoraggiare il rispetto dei diritti dell‘uomo e delle libertà fondamentali
per tutti senza distinzione di razza, sesso, di lingua o di religione‖
3
. Il secondo
dopoguerra rappresentò in questo senso una svolta per le relazioni internazionali: per
alcuni, si tratta della vittoria dell‘idea kantiana di governo mondiale; per altri, i diritti
naturali, appartenenti ad ogni persona sin dalla nascita, non sono più proclamati soltanto
2
Dal Preambolo dello Statuto delle Nazioni Unite.
3
Statuto delle Nazioni Unite, artt. 1 e 3.
11
a parole, ma ottengono finalmente un riconoscimento giuridico universale, che si
concretizza nel 1948 con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell‘Uomo. Senza
dubbio, si tratta di un grande passo avanti dal punto di vista politico e giuridico, ma due
fattori contribuiscono a ridimensionarne la portata: da una parte, il delicato equilibrio
internazionale è nelle mani dei singoli governi, in particolare dei paesi vincitori, che di
fatto restano i veri soggetti di diritto internazionale e gli attori principali sulla scena
politica mondiale; dall‘altra, come conseguenza, le varie dichiarazioni e convenzioni
internazionali, lungi dall‘avere un valore giuridico effettivamente vincolante, saranno
rimesse alla reale volontà di applicazione da parte degli Stati.
In questo nuovo scenario giuridico internazionale, e con gli occhi ancora sconvolti dalla
catastrofe della guerra, prese avvio l‘ambizioso progetto dell‘Organizzazione delle
Nazioni Unite, che intendeva dunque operare a livello globale per diffondere e
promuovere i diritti umani e creare le condizioni di una pace duratura tra i popoli. Fin
da subito, emerse però l‘esigenza di specificare quali fossero i diritti umani, più volte
nominati nello stesso Statuto delle Nazioni Unite, ma mai veramente elencati o definiti.
Di questo non facile compito fu incaricata la Commissione dei Diritti umani, nata nel
1946 con la risoluzione n. 5(I) del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite
in base all'articolo 68 dello Statuto, e composta inizialmente dai rappresentanti di 18
governi. La Commissione giunse così alla stesura della già citata Dichiarazione
Universale dei Diritti dell‘uomo, che fu approvata dall‘Assemblea Generale delle
Nazioni Unite il 10 dicembre 1948. La Dichiarazione, che non ha valore giuridicamente
vincolante ma che è comunque considerata parte del costume internazionale,
racchiudendo ―principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili‖
4
, traduce
l‘interdipendenza e l‘indivisibilità dei diritti dell‘uomo, poiché contiene sia i diritti civili
e politici, sia quelli economici, sociali e culturali. Tra i primi, ritroviamo proprio le
disposizioni più importanti per quanto riguarda i diritti della persona umana in generale,
e il diritto d‘asilo in particolare. Quest‘ultimo è enunciato dopo aver ricordato una serie
di obblighi negativi in capo ad agenti indefiniti: l‘articolo 5, ad esempio, afferma che
―nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a punizione crudeli,
inumani o degradanti‖, mentre l‘articolo 9 che ―nessun individuo potrà essere
arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato‖. L‘articolo 13 comma 2 definisce invece il
diritto di emigrare, affermando che ―ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese,
4
Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, art. 38 § 1.
12
incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese‖. Il diritto d‘asilo è contenuto
nell‘articolo 14, che al primo comma recita: ―ogni individuo ha il diritto di cercare e di
godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni‖.
Questi principi, pur importanti, sono però enunciati soltanto sulla carta: la loro
applicazione è infatti rimessa alla buona volontà degli Stati, che non vengono né
redarguiti né tantomeno sanzionati per un‘eventuale violazione di questi diritti. Questa
condizione sembra dunque piuttosto debole, alla luce soprattutto delle conseguenze di
una guerra di così vaste proporzioni che aveva provocato oltre 20 milioni di sfollati
nella sola Europa
5
. Per questo, le Nazioni Unite, mediante una risoluzione
dell‘Assemblea Generale, decisero di dar vita ad una agenzia apposita, in grado di
proteggere e assistere i profughi di ogni parte del mondo. Nacque così, nel 1950, L‘alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNCHR), che intendeva tra le altre
cose far dimenticare le fallimentari esperienze dell‘United Nations Relief and
Rehabilitation Administration (UNRRA), agenzia sorta nel 1943 con lo scopo di aiutare
gli sfollati nelle regioni liberate dagli alleati, e dell‘International Relief Organization
(IRO), nata nel 1947 con il solo compito di trovare dei paesi disposti al reinsediamento
dei rifugiati. Entrambe queste organizzazioni soffrirono delle forti divisioni politiche tra
Stati Uniti e Unione Sovietica che delineavano i contorni dell‘imminente guerra fredda.
Il compito dell‘UNHCR, dunque, non era reso difficile solo dalla situazione umanitaria
venutasi a creare in Europa nel secondo dopoguerra, ma anche dai contrasti diplomatici
tra le due superpotenze, che di lì a poco divennero, seppur indirettamente, anche di
carattere militare. Proprio per ovviare a queste difficoltà, lo Statuto dell‘UNHCR, che
sarà approvato nel 1950 come allegato alla Risoluzione 428 delle Nazioni Unite,
afferma, all‘articolo 2, che ―L'attività dell‘Alto Commissario non ha alcun carattere
politico; essa è umanitaria e sociale e, come principio, tratta di gruppi e categorie di
rifugiati‖. L‘UNHCR si pone dunque come un organo super partes, estraneo alla lotta
politica tra le due superpotenze, e dedito soltanto alla protezione e assistenza dei
rifugiati. Lo Statuto, in questo senso, delinea anche coloro che ricadono sotto la
competenza dell‘UNHCR. Infatti, l‘articolo 6 afferma che
―Il mandato dell‘Alto Commissario si esercita: A. i) su tutte le persone che
sono state considerate quali rifugiati ai sensi degli Accordi del 12 maggio
1926 e 30 giugno 1928, o ai sensi delle convenzioni del 28 ottobre 1933 e
5
M. Delle Donne, op. cit, p. 30.
13
del febbraio 1938, o del protocollo del 14 settembre 1939, oppure ai sensi
della costituzione dell‘Organizzazione Internazionale per i Rifugiati (IRO);
ii) su tutte le persone che a seguito di avvenimenti sopravvenuti prima del 1°
gennaio 1951, e temendo con ragione di essere perseguitati per ragione di
razza, di religione, di nazionalità o di opinioni politiche, si trovino fuori del
paese di loro nazionalità, e che non possano o non vogliano, a ragione di tale
timore o per altre ragioni che non siano di convenienza personale, reclamare
la protezione di tale paese, o su coloro i quali, essendo senza nazionalità e
trovandosi fuori del paese di loro abituale residenza, non possano o non
vogliano, a causa del sopraddetto timore o per ragioni che non siano di
convenienza personale, ritornarvi. B. Su tutte le persone che si trovino fuori
dei paesi di loro nazionalità, nel caso che si tratti di persone senza
nazionalità, fuori dei paesi dove avevano la residenza abituale perché
temono o abbiano temuto con ragione di essere perseguitate per motivi di
razza, religione, nazionalità o opinioni politiche, e che non possano o non
vogliano, per ragione di tale timore, reclamare la protezione del Governo del
paese di loro nazionalità, o, se non abbiano nazionalità, non vogliano
ritornare al paese dove avevano residenza abituale‖.
Il mandato dell‘UNHCR si esercita dunque in via principale sui rifugiati stricto sensu,
cioè su coloro che si trovano al di fuori del proprio paese di appartenenza per timore di
persecuzioni. Col tempo, però, questo mandato si è esteso, sia attraverso risoluzioni
dell‘Assemblea Generale, sia attraverso accordi politici tra UNHCR e singoli governi,
fino a comprendere gruppi di rifugiati, internally displaced persons (IDPs), richiedenti
asilo la cui domanda è stata rifiutata. Se l‘allargamento delle competenze dell‘agenzia
può rappresentare un parallelo allargamento delle persone sotto la sua protezione, e
quindi un miglioramento delle loro condizioni di vita, per alcuni il binomio
quantità/qualità non è così scontato: ―si può dire che l‘UNHCR si è trasformato da
organizzazione per rifugiati in un‘agenzia operativa di ampio respiro, le cui operazioni
sono sempre più catalizzate dalle emergenze. (…) In nome della vocazione umanitaria e
impolitica, tutto sembra venir subordinato all‘efficienza tecnica della distribuzione degli
aiuti e alla soddisfazione dei bisogni materiali degli assistiti. La preoccupazione per la
sola sopravvivenza delle persone, per non dire dei corpi delle persone, ha la meglio su
questioni certamente più complesse ma allo stesso tempo più importanti: la qualità della
vita dei rifugiati, i compromessi o le connivenze politiche necessari per realizzare i
propri programmi, il rispetto dei più basilari diritti civili e sociali‖
6
. Al di là delle
polemiche e delle critiche, ben evidenziate da Chiara Marchetti, riguardanti il ruolo
politico, assistenziale e funzionale ai governi svolto dall‘UNHCR, i compiti veri e
propri dell‘agenzia si concretizzano, da una parte, in un‘attività diplomatica, a tratti di
6
C. Marchetti: “Un mondo di rifugiati. Migrazioni forzate e campi profughi”, Emi 2006, pp. 58-59.
14
lobbying, con i governi e, dall‘altra, in una ricerca di soluzioni permanenti verso i
rifugiati. Per quanto riguarda la prima, infatti,
―l‘Alto Commissario assicurerà la protezione dei rifugiati che rientrano nelle
competenze dell'Alto Commissariato: a) perseguendo la conclusione e la
ratifica delle Convenzioni Internazionali per la protezione dei rifugiati,
sorvegliandone l'applicazione e proponendone modifiche; b) perseguendo, a
mezzo di accordi particolari con i governi, la messa in opera di tutte quelle
misure destinate a migliorare la sorte dei rifugiati e diminuire il numero di
coloro che hanno bisogno di protezione; (…); f) ottenendo dai governi
informazioni sul numero e lo stato dei rifugiati sul loro territorio e sulle leggi
e regolamenti che li riguardano; g) tenendosi a stretto contatto con i governi
e le organizzazioni intergovernative interessate‖
7
.
Pur non potendo domandare fondi ai governi senza la preventiva approvazione
dell‘Assemblea Generale, l‘Alto Commissario può comunque esercitare una forte
pressione diplomatica sui governi stessi, affinché questi adottino e mettano in pratica le
convenzioni internazionali sul tema delle persone bisognose di protezione
internazionale o si facciano direttamente carico della loro sorte. Qui si collega infatti
l‘altro tipo di attività svolta dall‘UNHCR: la ricerca di durable solutions per i rifugiati.
L‘Alto Commissariato, infatti, attraverso la sua intensa attività diplomatica, intende
rispondere ai bisogni del rifugiato attraverso tre soluzioni: il rimpatrio volontario,
considerata la soluzione migliore, ma possibile ovviamente solo quando saranno cessate
le condizioni che hanno spinto la persona ad emigrare; l‘insediamento locale; il
reinsediamento in un Paese terzo
8
.
Queste ultime due soluzioni necessitano di una seria
ed efficiente attività politico-diplomatica da parte dell‘UNHCR per far sì che gli Stati
accettino di accogliere ed integrare nelle loro società un certo numero di rifugiati. La
pratica è però troppo spesso diversa dai buoni propositi delle agenzie internazionali e
dai principi generali di diritto internazionalmente riconosciuti: molti Stati, infatti, non
solo si oppongono all‘idea del burden sharing, cioè alla condivisione del ―fardello‖ dei
rifugiati, ma si rifiutano persino di applicare quei principi giuridici, come quello di non
refoulement, che per molte persone non sono soltanto parole vuote, ma significano la
vita.
A livello internazionale, nel 1951, pochi mesi dopo la nascita dell‘UNHCR, viene
adottata a Ginevra la Convenzione sullo status dei rifugiati, che rappresenta una vera e
7
Statuto dell’UNHCR, art. 8.
8
Handbook for emergencies, UNHCR, 1999.
15
propria pietra miliare sul tema. La realizzazione di due importanti strumenti per la tutela
e la protezione dei rifugiati, il primo a livello umanitario e assistenziale, il secondo a
livello giuridico, dimostra come la questione sia molto estesa e necessiti di un‘efficace
coordinazione e gestione non solo a livello locale, ma anche ad un più ampio contesto
internazionale. La Convenzione di Ginevra, inizialmente concepita per la protezione dei
rifugiati europei, poi allargata a livello globale tramite il protocollo di New York del
1967, definisce il rifugiato in termini non dissimili rispetto alla definizione data dallo
Statuto UNHCR, ampliando la protezione anche a coloro che si ritengono perseguitati
per la loro appartenenza a un determinato gruppo sociale. La Convenzione stabilisce
inoltre una serie di diritti in capo ai rifugiati, cui corrispondono degli obblighi positivi
per gli Stati ospitanti. Ogni rifugiato ha comunque, ―verso il paese in cui risiede, doveri
che includono separatamente l‘obbligo di conformarsi alle leggi e ai regolamenti, come
pure alle misure prese per il mantenimento dell‘ordine pubblico‖
9
. Le disposizioni più
interessanti sono però quelle incluse all‘interno del capo V, riguardante i provvedimenti
amministrativi. Dopo aver ricordato come lo Stato debba concedere al rifugiato
regolarmente soggiornante sul suo territorio il diritto alla scelta del luogo di residenza e
alla libera circolazione, l‘articolo 31 afferma che ―gli Stati contraenti non prenderanno
sanzioni penali, a motivo della loro entrata o del loro soggiorno illegali, contro i
rifugiati che giungono direttamente da un territorio in cui la loro vita o la loro libertà
erano minacciate nel senso dell‘articolo 1, per quanto si presentino senza indugio alle
autorità e giustifichino con motivi validi la loro entrata o il loro soggiorno irregolari‖. Il
senso di questo articolo è tutto riassunto in una parola: ―direttamente‖. Chi scappa da un
Paese in guerra, chi abbandona il proprio Paese per timore di subire persecuzioni,
difficilmente vedrà rilasciarsi dalle autorità i documenti necessari per espatriare. A
maggior ragione se sono quelle stesse autorità a perseguitarlo. Così, se i richiedenti asilo
in fuga dalle zone ―calde‖ (Corno d‘Africa, regione dei Grandi Laghi, Medio Oriente,
Afghanistan,ecc.) intendono arrivare in Europa, non potendo giungervi ―direttamente‖,
devono necessariamente attraversare altri Paesi. In questo modo, diventa facile per i
paesi europei giustificare e mettere in atto misure penali nei confronti dei richiedenti
asilo, inclusi nella grande categoria dei ―clandestini‖. Diventa altresì facile per questi
stessi paesi, o perlomeno conveniente da un punto di vista politico, agitare la carota
della cooperazione per far sì che vengano aperti e resi operativi appositi centri per
9
Convenzione sullo status del rifugiato, art. 2.
16
l‘identificazione dei richiedenti asilo e il riconoscimento dello status di rifugiato
direttamente nei Paesi a ridosso delle zone ―calde‖. L‘Europa non vuole troppe persone
che bussano alla sua porta: per questo, vengono avviate trattative multilaterali e
bilaterali (emblematiche sono quelle tra Italia e Libia) che prevedono ingenti fondi in
cambio dell‘impegno dei Paesi di provenienza e di transito dei richiedenti asilo nel
trattenimento di queste persone. Trattative che assumono il sapore del ricatto.
L‘articolo 32 della Convenzione sullo status dei rifugiati riguarda invece l‘espulsione:
―1. Gli stati contraenti possono espellere un rifugiato che risiede
regolarmente sul loro territorio soltanto per motivi di sicurezza nazionale o
d‘ordine pubblico. 2. L‘espulsione può essere eseguita soltanto in base a una
decisione presa conformemente alla procedura prevista dalla legge. Il
rifugiato deve, se motivi impellenti di sicurezza nazionale non vi si
oppongano, essere ammesso a giustificarsi, a presentare ricorso e a farsi
rappresentare a questo scopo davanti a un‘autorità competente o davanti a
una o più persone specialmente designate dal‘autorità competente. 3. Gli
Stati Contraenti assegnano a detto rifugiato un termine adeguato, che gli
permetta di farsi ammettere regolarmente in un altro paese. Gli Stati
Contraenti possono prendere, durante tale termine, tutte le misure interne che
reputano necessarie‖.
La protezione dei rifugiati è quindi affidata alla buona volontà degli Stati: è sufficiente
invocare motivi di sicurezza o di ordine pubblico per espellere un rifugiato. Questa
condizione non può non destare delle preoccupazioni se si considera che negli ultimi
anni, in particolare dopo l‘11 settembre, la questione immigrazione (che ricomprende in
un unico calderone migranti economici, lavoratori temporanei, richiedenti asilo,
rifugiati, ecc.) nei vari paesi europei è andata di pari passo con quella della sicurezza. In
questo modo, una psicosi verso l‘altro, una paura del diverso, spesso alimentata dai
mass media, si è facilmente diffusa presso l‘opinione pubblica, la quale a sua volta ha
diretto il proprio orientamento elettorale verso quei gruppi che fanno delle politiche
securitarie e anti-immigrazione il loro cavallo di battaglia.
Molto importante è infine l‘articolo 33, che disciplina il cosiddetto principio di non
refoulement: ―Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un
rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate
a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua
appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche‖. Anche in questo caso,
però, la psicosi dell‘invasione e la mancanza di volontà politica nell‘accogliere i
richiedenti asilo hanno spinto i Paesi dell‘Unione Europea a varare dispositivi normativi
17
che consentano loro di espellere i migranti verso i loro paesi di origine o anche di
transito. L‘Europa infatti sta costruendo attorno ai suoi confini una barriera di Stati -
cuscinetto considerati sicuri, dai paesi dell‘Europa dell‘Est, a quelli dell‘Africa
settentrionale, verso i quali respingere i richiedenti asilo ancora prima che questi
possano presentare la loro domanda. Il problema è che ad essere considerati sicuri sono
anche Paesi come la Libia, che non solo è stata più volte condannata dalle principali
organizzazioni internazionali e non governative per violazione dei diritti umani al suo
interno
10
, ma non ha nemmeno ratificato la Convenzione di Ginevra.
Come ha ben evidenziato Marcella Delle Donne
11
, la Convenzione del 1951, così come
stipulata originariamente, invitava gli Stati a fare, al momento della firma, della
ratificazione o dell‘accessione, una ―dichiarazione circa l‘estensione che esso intende
attribuire a tale espressione per quanto riguarda gli obblighi da esso assunti in virtù
della presente Convenzione‖
12
. Ciò significa che gli Stati potevano interpretare le
clausole temporali e geografiche presenti all‘articolo 1 come ritenevano meglio: agli
albori della Guerra fredda, ciò si è tradotto nel riconoscimento dello status di rifugiato
da parte dei Paesi europei solo a coloro che provenivano da uno dei Paesi del blocco
sovietico. La Convenzione, nata come esigenza di protezione umanitaria delle persone,
di qualsiasi persona, in fuga da persecuzioni, è stata così piegata alle contrapposizioni e
agli interessi politici dei vari Stati. Il protocollo di New York del 1967 ha tamponato
questa situazione eliminando i limiti temporali e geografici al riconoscimento dello
status di rifugiato, ma ha lasciato in piedi l‘ultimo e non meno importante vincolo:
quello giuridico. Per la Convenzione, infatti, possono godere della protezione
internazionale soltanto coloro che dimostrano di essere perseguitati individualmente:
sono così escluse le vittime di ―guerre intestine, violenze generalizzate, violazione
sistematica dei diritti umani, conflitti etnici, situazioni che non compaiono nella
definizione di rifugiato data dalla Convenzione‖
13
, ma che si sono presentate
frequentemente nel contesto geopolitico degli ultimi decenni. Dai vincoli che la stessa
Convenzione pone, e di cui gli Stati abusano, discendono diverse categorie di rifugiati, a
seconda del livello di protezione che viene loro concesso dalle autorità
14
: ci sono i
10
http://www.amnesty.it/Rapporto-Annuale-2009/Libia.html.
11
M. Delle Donne, op. cit., p. 33-34.
12
Convenzione sullo status dei rifugiati, art. 1 § B.
13
M. Delle Donne, op. cit., p. 37.
14
Definizioni riprese da: M. Delle Donne, op. cit., p. 37.
18
rifugiati secondo la Convenzione di Ginevra, che godono, nello Stato dove hanno
ottenuto l‘asilo, del pieno riconoscimento dello status di rifugiato e dei diritti ad esso
connessi; i rifugiati “de facto”, cioè i richiedenti asilo che non hanno ottenuto lo status
di rifugiato ma che usufruiscono del principio di non refoulement, per cui non possono
essere espulsi; gli sfollati, persone in fuga da guerre che non godono dello status di
rifugiato, ma tutt‘al più di una temporary protection, che consente loro di essere
ammesse temporaneamente presso alcuni Stati sicuri e godere di alcuni limitati diritti;
infine, gli sfollati interni (i cosiddetti internally displaced persons, o Idps), persone che,
seppure in fuga da una situazione di pericolo, decidono di rimanere all‘interno dei
confini del proprio Stato, ma per le quali non sono previste forme specifiche di
protezione.
Negli anni Sessanta, inizia il processo di decolonizzazione e, con esso, si apre un nuovo
scenario nel panorama geopolitico internazionale. Il peso dei Paesi di nuova
indipendenza si fa sentire nell‘Assemblea Generale delle Nazioni Unite, nella
Commissione dei diritti umani dell‘ONU e persino nel Consiglio di Sicurezza che, pur
rimanendo ―blindato‖ ai cinque principali Paesi vincitori del conflitto, ha visto un
allargamento dei suoi membri non permanenti da sei a dieci. Tutto ciò si è risolto in una
più forte spinta politica e diplomatica da parte di questi Paesi neoindipendenti verso
l‘adozione di risoluzioni e convenzioni più attente al tema dei diritti umani, dei diritti
delle minoranze etniche, delle donne, dei neri. Nel 1966, la Commissione dei diritti
umani, nel tentativo di dar vita ad un documento che non fosse soltanto un‘enunciazione
di diritti ma un documento vincolante per gli Stati firmatari, adotta i due Patti
internazionali dei diritti umani che, insieme alla Dichiarazione Universale dei Diritti
dell‘Uomo, andranno a costituire l‘International Bill of Human Rights. L‘influenza
della Guerra fredda è evidente, tanto che i due Patti riflettono le diverse vedute dei due
blocchi: il Patto sui diritti civili e politici sarà infatti voluto e ratificato dagli Stati Uniti
e dai Paesi occidentali, mentre quello sui diritti economici, sociali e culturali
dall‘Unione Sovietica e dai Paesi del blocco socialista. Nonostante ciò, e nonostante il
fatto che le due Convenzioni entreranno in vigore solo nel 1976, dopo la ratifica del
trentacinquesimo Stato, le stesse Nazioni Unite definiranno l‘International Bill of Rights
―una pietra miliare nella storia dei diritti umani, una vera Magna Charta che segna
19
l‘arrivo dell‘umanità a una fase di importanza capitale: l‘acquisizione consapevole della
dignità e del valore umano‖
15
.
Le disposizioni più interessanti riguardanti i diritti dei richiedenti asilo e dei rifugiati
sono contenute nel Patto internazionale sui diritti civili e politici ma, ancora una volta,
esse sono applicate a discrezione degli Stati membri, che quindi hanno l‘ultima parola
su ciò che accade all‘interno dei propri confini. Infatti, nonostante l‘articolo 2 comma 1
ricordi come ―Ciascuno degli Stati parti del presente Patto si impegna a rispettare ed a
garantire a tutti gli individui che si trovino sul suo territorio e siano sottoposti alla sua
giurisdizione i diritti riconosciuti nel presente Patto, senza distinzione alcuna, sia essa
fondata sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, l'opinione politica o
qualsiasi altra opinione, l'origine nazionale o sociale, la condizione economica, la
nascita o qualsiasi altra condizione‖, l‘articolo 13, che riguarda il principio di non
refoulement, afferma che ―Uno straniero che si trovi legalmente nel territorio di uno
Stato parte del presente Patto non può esserne espulso se non in base a una decisione
presa in conformità della legge e, salvo che vi si oppongano imperiosi motivi di
sicurezza nazionale, deve avere la possibilità di far valere le proprie ragioni contro la
sua espulsione, di sottoporre il proprio caso all'esame dell'autorità competente, o di una
o più persone specificamente designate da detta autorità, e di farsi rappresentare innanzi
ad esse a tal fine‖. Non solo dunque gli Stati devono ―impegnarsi‖ (è un‘esortazione,
più che un dovere) a garantire e rispettare i diritti presenti nel Patto, ma sono gli stessi
Stati che stabiliscono quali sono le condizioni legali di residenza o di permanenza
all‘interno del proprio territorio, e che decidono chi può esserne espulso. Sono sempre
gli Stati a valutare quali sono gli ―imperiosi motivi di sicurezza nazionale‖ che possono
impedire al destinatario di un provvedimento di espulsione di far ricorso contro lo
stesso.
Ad un livello più generale, l‘articolo 4 comma 1 sancisce che ―In caso di pericolo
pubblico eccezionale, che minacci l'esistenza della nazione e venga proclamato un atto
ufficiale, gli Stati parti del presente Patto possono prendere misure le quali deroghino
agli obblighi imposti dal presente Patto, nei limiti in cui la situazione strettamente lo
esiga, e purché tali misure non siano incompatibili con gli altri obblighi imposti agli
Stati medesimi dal diritto internazionale e non comportino una discriminazione fondata
15
http://www.unhchr.ch/html/menu6/2/fs2.htm, citato in M. Flores: “Storia dei diritti umani”, Il Mulino
2008, p. 246.
20
unicamente sulla razza, sul colore, sul sesso, sulla lingua, sulla religione o sull'origine
sociale‖. Nel panorama italiano, ad esempio, la fuorviante relazione immigrazione-
criminalità-sicurezza, accentuatasi dopo l‘ingresso di Romania e Bulgaria nell‘Unione
Europea a partire dal 2007 e talvolta montata ad arte dai mezzi di comunicazione
16
, ha
spinto l‘opinione pubblica ad orientarsi verso quei partiti politici che con maggiore
forza hanno posto l‘accento sul bisogno di sicurezza e sulla necessità di misure
repressive contro i cosiddetti clandestini
17
. Resta difficile poter dichiarare il fenomeno
migratorio come un ―pericolo pubblico nazionale, che minacci l‘esistenza della
nazione‖, ma la retorica politica e mediatica degli ultimi anni ha contribuito molto a
raffigurarlo come un serio problema che mette in pericolo la sicurezza dei cittadini. Si è
creata così una profonda frattura tra le persone all‘interno di un medesimo territorio: i
nazionali, gli autoctoni, i cittadini si sentono indifesi e minacciati da individui esterni
alla loro comunità politica, percepiti come estranei, altri, invasori. Coadiuvato dai media
e da parte della classe politica, un nuovo sentimento nazionalistico si è diffuso presso
l‘opinione pubblica, costruendo un ―noi‖, un‘identità nazionale coesa, contrapposto a un
―loro‖, una massa di persone provenienti dall‘Africa e dall‘Europa dell‘Est pronte a
invaderci. Nel secolare dibattito tra diritti naturali e diritti positivi, cioè tra diritti validi
per tutti gli esseri umani a prescindere dalla loro nazionalità e diritti validi per gli
appartenenti ad una determinata comunità politica in quanto posti e sanciti dai
rappresentanti eletti da quella stessa comunità, l‘ago della bilancia sembra essersi
spostato in tempi recenti verso questi ultimi, spinto anche dalla richiesta di sicurezza
urlata a gran voce dai cittadini. Nonostante la parziale inversione di rotta nel secondo
dopoguerra, in cui sembrava che gli Stati, con l‘approvazione dello Statuto delle
Nazioni Unite e l‘adozione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell‘Uomo fossero
disposti a concedere parte delle loro prerogative, negli ultimi decenni, in particolare con
l‘emergere del terrorismo internazionale e l‘accentuarsi dei movimenti migratori verso i
Paesi occidentali, gli Stati stanno riscoprendo la loro sovranità, attuando politiche
sempre più restrittive delle libertà personali degli ―altri‖ ed erigendo barriere non solo
16
“(…)mi auguro che tutti gli organi d' informazione italiani si concentrino questa volta sui fatti senza
colpevolizzare una nazione ed una etnia”, Marian Mocanu, Consigliere del Presidente del Senato della
Romania, riguardo allo stupro della Caffarella del 14 febbraio 2009, in cui sono stati inizialmente
indagati due rumeni, poi rilasciati. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/
2009/03/12/lo-stupro-della-caffarella-veri-colpevoli.html .
17
Emblematico, in questo senso, il successo elettorale della Lega Nord, che ha quasi raddoppiato i
consensi alle elezioni politiche nazionali, passando dal 4,6% del 2006 all’8,3% del 2008.
21
fisiche ma anche culturali. Così, se è vero, come recita l‘articolo 9 comma 1 del Patto,
che ―Ogni individuo ha diritto alla libertà e alla sicurezza della propria persona.
Nessuno può essere arbitrariamente arrestato o detenuto. Nessuno può esser privato
della propria libertà‖, è anche vero che questi diritti sono sottoposti alle eccezioni
previste nella parte finale del comma (―se non per i motivi e secondo la procedura
previsti dalla legge‖) e alle deroghe contenute nell‘articolo 4.
A pochi mesi di distanza dal protocollo di New York relativo allo status dei rifugiati,
nel dicembre 1967 l‘Assemblea Generale adotta, tramite la risoluzione 2312, la
dichiarazione delle Nazioni Unite sull‘asilo territoriale. Con questo documento, privo di
carattere vincolante, l‘Assemblea Generale raccomanda agli Stati i principi su cui
dovrebbero basarsi nelle loro pratiche relative all‘asilo territoriale
18
. La dichiarazione
ribadisce alcuni principi importanti, ma allo stesso tempo riconosce la sovranità statale
come principio ultimo per il riconoscimento dell‘asilo. All‘articolo 1 comma 1, infatti,
si ricorda che ―l‘asilo garantito da uno Stato, nell‘esercizio della sua sovranità, alle
persone che hanno il diritto di invocare l‘articolo 14 della Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani, tra cui anche le persone che lottano contro il colonialismo, deve essere
rispettato da tutti gli altri Stati‖, ma al comma 3 si ribadisce che ―compete allo Stato che
garantisce l‘asilo la valutazione delle ragioni per il riconoscimento dello stesso‖.
All‘articolo 3, invece, viene ribadito il principio di non refoulement, ma al comma 2 si
afferma che ―può essere fatta eccezione al precedente principio solamente per supreme
ragioni di sicurezza nazionale o per salvaguardare la popolazione, come nel caso di
afflusso massiccio di persone‖. Successivamente, il comma 3 dichiara che lo Stato che
riterrà giustificata l‘eccezione ―considererà la possibilità di garantire alle persone
interessate, alle condizioni che riterrà appropriate, l‘opportunità di recarsi in un altro
Stato, attraverso la concessione di un asilo provvisorio o in altra maniera‖. È lo Stato,
ancora una volta, a decidere se e come concedere lo status di rifugiato ai richiedenti
asilo, e a definire in che misura un afflusso di persone possa essere considerato
―massiccio‖ per permettere i respingimenti alla frontiera o i rimpatri volontari. La
psicosi dell‘invasione e il rafforzamento della sovranità statale hanno la meglio sulla
protezione dei diritti umani e del diritto all‘asilo in particolare. Tuttavia, se si
considerano i dati riguardanti i richiedenti asilo e i rifugiati in Europa e nel mondo, ci si
accorge che la psicosi è ingiustificata e che i respingimenti sono motivati da ragioni
18
Dal Preambolo della Dichiarazione.
22
politiche e mediatiche, più che di sicurezza nazionale o salvaguardia della popolazione.
Secondo i dati dell‘UNHCR relativi al 2008
19
, nel mondo ci sarebbero oltre 42 milioni
tra rifugiati, richiedenti asilo e Idps, di cui l‘80% si trova nelle regioni più prossime alle
zone di crisi, dunque in Africa e in Asia, e soltanto il 20% è distribuito in Europa e nel
continente americano. Per quanto riguarda la situazione italiana, vediamo che, al 2008,
nel nostro Paese ci sono circa 47000 rifugiati (cioè 0,7 rifugiati ogni 1000 abitanti, a
fronte degli oltre 7 rifugiati in Norvegia, Germania e Svezia) e sono state presentate
circa 30000 richieste di asilo
20
. Dati che, smentendo qualsiasi forma di invasione,
rendono evidente come la raffigurazione mediatica degli sbarchi sia funzionale ad una
politica di chiusura e di respingimenti piuttosto che di solidarietà.
A livello internazionale, va poi ricordato un altro importante documento: la
Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, conclusa a New York il 10 dicembre
1984, ―figlia‖, come ricorda il preambolo, dell‘articolo 5 della Dichiarazione Universale
dei Diritti dell‘Uomo e dell‘articolo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici,
che stabiliscono che nessuno sia sottoposto a tortura o ad altre pene o trattamenti
crudeli, inumani o degradanti. La convenzione, all‘articolo 1, definisce la tortura
(―qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche
o psichiche‖), le motivazioni (al fine di ―ottenere da questa o da una terza persona
informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha
commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di
lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro
motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione‖), e le persone che se ne
rendono responsabili (―qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un
funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua
istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito‖). Inoltre, all‘articolo 3, ritorna
il principio di non refoulement: ―1. Nessuno Stato Parte espelle, respinge né estrada una
persona verso un altro Stato qualora vi siano serie ragioni di credere che in tale Stato
essa rischia di essere sottoposta a tortura. 2. Per determinare se tali ragioni esistono, le
autorità competenti tengono conto di tutte le considerazioni pertinenti, compresa, se del
caso, l‘esistenza, nello Stato interessato, di un insieme di violazioni sistematiche, gravi,
flagranti o massicce, dei diritti dell‘uomo‖. Questo principio è riconosciuto ed esteso ad
19
http://www.unhcr.org/4a2fd52412d.html
20
http://www.unhcr.it/news/dir/62/domande-e-risposte.html
23
ogni persona, sia essa considerata o meno rifugiata. Esso inoltre, essendo presente in
numerose convenzioni e trattati regionali e internazionali, può essere considerato come
un principio imperativo del diritto internazionale, come una norma di jus cogens che
vincola giuridicamente gli Stati
21
.
Ancora una volta bisogna però constatare come i buoni propositi delle varie convenzioni
internazionali si discostino dalle reali pratiche messe in atto dagli Stati. La debolezza
politica ed economica delle organizzazioni internazionali e la riproposizione di un
principio, quale quello della sovranità nazionale, che ritorna con prepotenza sulla scena
mondiale, confermano che gli Stati restano il principale soggetto del diritto
internazionale. Se la seconda guerra mondiale e la nascita delle Nazioni Unite
sembravano poter minare il potere statale, e se la Dichiarazione del 1948 sembrava aver
portato l‘individuo, spogliato di ogni sua divisa nazionale, etnica o religiosa, al centro
della scena politica e giuridica internazionale, in realtà si vede come gli Stati non solo
non hanno perso le loro prerogative, ma le stanno rafforzando. Attorno agli Stati
occidentali si stanno costruendo barriere che restano aperte verso l‘esterno, ma che sono
difficilmente attraversabili per coloro che vengono da fuori. Tra Stati Uniti e Messico,
lungo il Mediterraneo e i confini orientali dell‘Europa, nei mari dell‘Australia
settentrionale
22
, ma anche lungo le mura che separano i centri di detenzione
amministrativa per richiedenti asilo dal mondo circostante: gli Stati si stanno
prepotentemente appropriando di questi lembi di terra e di mare per mettere in atto
politiche di controllo nei confronti di coloro che tentano di entrare. Se per un italiano,
un tedesco o un francese diventa sempre più facile circolare liberamente all‘interno
dell‘Unione Europea e viaggiare al di fuori dei suoi confini, per un afghano, un eritreo o
un iracheno attraversare il confine verso la ―Fortezza Europa‖ può significare impiegare
intere settimane o mesi e talvolta perdere la vita
23
. La nascita, lo sviluppo storico e
giuridico e la ―costituzionalizzazione‖ dei diritti umani rappresentano senza dubbio un
importante passo in avanti nella storia del diritto internazionale, impensabile fino al
secolo scorso. Allo stesso modo, mai come in questo ultimo periodo si è avuta una così
forte e solida cooperazione internazionale che ha portato all‘adozione di numerose
21
M. Delle Donne, op. cit., p. 35.
22
Cfr. N. Papastergiadis, Il complesso dell’invasione nella cultura politica australiana, in S. Mezzadra: “I
confini della libertà. Per un’analisi politica delle migrazioni contemporanee”, DeriveApprodi 2004.
23
Cfr. http://fortresseurope.blogspot.com/, la “rassegna stampa che dal 1988 fa memoria delle vittime
delle frontiere europee”.