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Introduzione
In questa tesi cercheremo di affrontare una problematica da sempre dibattuta in filosofia,
ovvero quella del rapporto tra l’uomo e la libertà. Ci lasceremo provocare da un grande
pensatore del XIX secolo, che per molti non può essere definito un filosofo nel senso
tradizionale del termine, a causa della mancanza di un suo pensiero sistematico e
totalizzante ma che sicuramente ha offerto un grande contributo alla filosofia. Stiamo
parlando di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Per alcuni filosofi, invece, egli meriterebbe di
essere menzionato nei manuali di filosofia, proprio per la genialità con la quale ha saputo
discutere delle grandi questioni filosofiche, come la libertà, il problema di Dio, del bene e
del male. Giovanni Reale, addirittura, è arrivato a paragonare Dostoevskij a Platone: <<Io
sono profondamente convinto che Dostoevskij fa con i suoi romanzi ciò che Platone ha
fatto con i suoi dialoghi, che sono –come i più attenti studiosi hanno riconosciuto- la
trasposizione sul piano dialettico delle due grandi forme dell’arte dei suoi tempi, ossia della
tragedia e della commedia.
1
>>Per studiare il delicatissimo rapporto tra uomo e libertà,
partiremo dall’analisi di un poemetto intitolato La Leggenda del Grande Inquisitore, che si
trova all’interno del romanzo I fratelli Karamazov. In questo racconto nel racconto, è
racchiusa una geniale riflessione sulla libertà, le sue conseguenze, su come l’uomo ne
faccia uso e soprattutto la sua origine. Bisogna premettere, che per comprendere
pienamente il significato di questa storia, occorre leggere anche il suo preambolo, dove
vengono esposte una serie di provocazioni sul male e in particolare sul significato della
sofferenza dei bambini. Ad essere chiamato in causa da simili circostanze è direttamente il
Dio creatore onnipotente. Quelle provocazioni così profonde, sono ancora di un’attualità
1
/http://www.laprovinciadicomo.it/stories/Cultura%20e%20Spettacoli 157892/
4
incredibile e interpellano la coscienza di ciascuno a riflettere sul senso della vita e dei suoi
misteri. Troppo spesso si sente ripetere la domanda «perché» di fronte a qualche misfatto e
sovente una risposta pare non esserci o meglio, forse non è così evidente. È l’inevitabile
imbattersi in ciò che costituisce ontologicamente l’uomo, la libertà. Essa è la sorgente che
contiene quel possibile che permette alle persone di scegliere come agire e cosa fare della
loro vita. Ci si può anche nascondere dietro i più alti muri della necessità o affidarsi a
coloro che si promuovono come tutori del bene e della felicità, evitando in questa maniera
di esercitare la libertà e quindi rinnegando il proprio essere uomini, ma lungo il percorso
della vita, la libertà si presenta ineluttabilmente come una questione che interpella l’essere
umano nella sua integrità. Purtroppo nel mondo di oggi, il concetto di libertà risulta essere
sempre più minacciato da coloro che pretendono di farsene i promotori e garanti, quando in
realtà sono i primi a distorcerne il significato, violentando così la parte costitutiva
dell’essere dell’uomo.
Con la Leggenda, sembra che Dostoevskij voglia suggerire un modello di libertà da
seguire, Cristo. Dal processo in cui Gesù stesso si ritroverà ad essere l’imputato sotto le
accuse dell’Inquisitore, sembra tralucere l’evidente necessità avvertita da Dostoevskij, di
porre al centro della sua società la questione della libertà ai suoi occhi inscindibile dalla
questione dell’esistenza e della natura di Dio. Il modo in cui analizza questi intricati
rapporti, colpisce per la profondità di saggezza e di profezia. Nikolaj Berdjaev, un filosofo
russo tra i massimi interpreti di Dostoevskij, non esita di riferirci quanto sia stato
importante per il suo pensiero la lettura della Leggenda: <<La mia precoce inclinazione ai
problemi filosofici era legata ai problemi maledetti di Dostoevskij […] In gioventù mi
penetrò profondamente nell’anima il tema della Leggenda del Grande Inquisitore. Il mio
primo Cristo fu il Cristo della Leggenda. L’idea di libertà è stata fondamentale per la mia
intuizione e concezione religiosa del mondo, e in tale intuizione iniziale della libertà ho
5
trovato in Dostoevskij la mia patria spirituale
2
>>. Con queste premesse, cercheremo nella
fase conclusiva di avanzare delle proposte alla luce delle problematiche della società
contemporanea, soprattutto per difendere la libertà dall’attacco dei nuovi inquisitori.
2
Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, Einaudi, Roma 1977, p. 11.
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Cap. I
La Leggenda del Grande Inquisitore
a) Il preambolo alla Leggenda
All’interno del quinto libro de I fratelli Karamazov, troviamo il celeberrimo racconto
della Leggenda del Grande Inquisitore, una storia inventata da uno dei protagonisti del
romanzo, Ivàn, il quale decide di raccontarla al fratello Aljòša durante un loro incontro in
una locanda. Mentre Ivàn è stato visto come l’incarnazione vivente di una concezione
nichilistica del mondo, Aljòša rappresenta il mondo religioso e spirituale tradizionale.
Infatti, sin dalle prime pagine del romanzo possiamo apprendere che frequenta un
monastero ortodosso. La Leggenda possiede dei contenuti così provocatori e interessanti,
che ha suscitato la riflessione di molti autori, i quali ne hanno offerto diversi piani di
lettura. Si possono appunto individuare varie interpretazioni: filosofiche, teologiche, ed
anche socio-politiche. Occorre rilevare, però, che non basta leggere queste venti pagine in
modo totalmente autonomo dal resto del romanzo e soprattutto dal suo prologo. Infatti,
mentre per alcuni – come ad esempio Rozanov- la Leggenda potrebbe essere letta in modo
indipendente:
“Com’è noto, essa costituisce soltanto un episodio della sua ultima opera, I Fratelli
Karamazov ma il legame con la fabula di questo romanzo è così esile che può essere
analizzata come una opera a parte. Però, se tra il romanzo e la Leggenda non c’è un
legame esteriore, esiste un legame intrinseco: è proprio la Leggenda a costituire in un
certo senso l’anima di tutta l’opera, che si raccoglie intorno ad essa, come le variazioni
intorno al loro tema; racchiude il pensiero più profondo dell’autore, senza il quale non
solo non sarebbe stato scritto il romanzo stesso, ma neanche molte opere sue: per lo
meno, esse risulterebbero prive dei passi migliori e più elevati.”
3
3
Vasilij Rozanov, Legenda o Velikom Inkvizitore F.M Dostoevskogo. Opyt Kritičeskogo kommentarija
(Pietroburgo 1894), tr. di Nadia Caprioglio: La Leggenda del Grande Inquisitore, Casa Editrice Marietti,
Genova 1989, p. 6.
7
Per altri autori invece, la Leggenda non può essere compresa realmente, se staccata da
tutto il contesto intorno a cui è costruita, soprattutto se si trascura l’importanza che ha il suo
preambolo, rappresentato dal dialogo dei due fratelli nell’osteria. Tale interpretazione è
avanzata dal Pareyson:
“Di solito se ne stralcia la Leggenda, nell’idea che essa contenga il messaggio
essenziale del pensiero proprio di Dostoevskij, e quindi sia facilmente isolabile e possa
essere considerata per se stessa. Da quanto sto per esporre, apparirà invece che […]il
dialogo che precede la Leggenda e la Leggenda stessa, riguardano entrambe il pensiero
di proprio di Ivàn e sono coessenziali e pertanto inseparabili. Ciascuna di esse ha pari
importanza […] sono indivisibilmente connesse fra loro, ciascuna rinvia all’altra e la
richiama, legate da un’articolazione che ne fa i due momenti essenziali d’una
trattazione unica, organica e continua.”
4
Anche Givone, riprendendo quanto detto dal suo maestro a tal proposito, afferma che:
<<Quella di Ivàn Karamazov è una concezione organica ed unitaria, nei diversi momenti
che scandiscono lo sviluppo del suo contenuto speculativo. E come tale va letto.
5
>>.
Esaminiamo meglio di che cosa si parla concretamente in queste pagine così discusse.
La tematica principale che emerge sin dall’inizio della conversazione fra i due fratelli,
sembra vertere sulla sofferenza ed il suo significato. Perché esiste la sofferenza e
soprattutto, perché soffrono anche le creature più innocenti come i bambini? Per
Dostoevskij, la sofferenza è <<non soltanto l’inevitabile punizione d’un delitto particolare,
ma anche l’inesorabile espiazione d’un destino di colpa che grava sull’umanità intera.
6
>>.
Ivàn si ribella proprio contro questa onnicolpevolezza universale, non tanto contro Dio, di
cui può ammettere anche l’esistenza. È il mondo e il suo ordinamento che egli rifiuta di
accettare: <<Non è Dio che non accetto, comprendi, ma il mondo da lui creato, è il mondo
4
Luigi Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, Einaudi, Torino 1993, p. 180.
5
Sergio Givone, Dostoevskij e la filosofia, Editori Laterza, Bari 2007, p. 141.
6
Luigi Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, cit., p. 170.
8
di Dio che non accetto…
7
>>. Da questa frase, Ivàn comincia ad elencare ad Aljòša tutta
una serie di situazioni nelle quali i bambini sono vittime di violenze da parte degli adulti e
per la maggior parte delle volte, questa violenza è derivata solamente dalla scelleratezza dei
più grandi verso i più piccoli, quasi a voler sottolineare l’elemento sadico che esiste
nell’uomo. Dostoevskij è un maestro nel descrivere il male, non risparmia nessun dettaglio,
anzi il particolare viene sottolineato proprio come se fosse l’elemento indispensabile della
descrizione. Infatti, perché raccontare di come due genitori percuotano la loro figlioletta e
di come il <<babbino sia lieto che le bacchette siano nodose, poiché faranno più male>> sul
povero corpicino della piccola creatura? E che dire della madre che costringe la figlia di
cinque anni a mangiare i propri escrementi, visto che la piccola non è in grado la notte di
avvisare i genitori in tempo dei propri bisogni? In tutti questi episodi, si pone l’accento più
volte su quanto l’inoffensività dei bambini seduca i loro torturatori. Inoltre, Ivàn, fa notare
a suo fratello come questi misfatti coinvolgano tutte le classi sociali, anche quelle più colte
ed agiate. Per il lettore è veramente difficile continuare a leggere di fronte a questi racconti.
Lo è anche per Aljòša, tanto che dopo l’ultimo episodio narrato, dove un generale e ricco
proprietario terriero fa sbranare un bambino dai suoi cani da caccia, si lascia prendere dalla
rabbia e cade nella provocazione del fratello, il quale gli chiede se bisognasse fucilare un
tale uomo per riparare il senso morale offeso: <<Sì, fucilarlo!
8
>>. Così risponde Aliòša. Per
un attimo, anche in lui, mite seminarista, il risentimento verso questa ingiustizia
umanamente inspiegabile prende il sopravvento, lasciando adito al senso di ribellione e di
indignazione. Solo per un attimo, visto che resosi conto di quello che aveva appena detto,
soprattutto di fronte al commento di Ivàn <<guarda un po’ l’asceta! Hai dunque anche tu un
diavoletto nel cuore.
9
>> si corregge subito, asserendo che forse ha detto una sciocchezza.
7
Fëodor Dostoevskij, Brat’ja Karamazovy (1879-80), tr. di Alfredo Polledro: I fratelli Karamazov, Garzanti,
Milano 1974, p. 251.
8
Op. cit., p. 259.
9
Ibidem.
9
Tutto questo, nella mente euclidea di Ivàn – è così che egli definisce il suo spirito – serve
per esporre al fratello minore il totale rifiuto del concetto di armonia universale, secondo
cui le sofferenze dei bambini servono per bilanciare le colpe dei padri. Non c’è nessuna
spiegazione teleologica che possa giustificare il male su delle creature innocenti. Ivàn può
accettare l’idea di una caduta originaria dell’umanità, pure la solidarietà umana
nell’espiazione, ma quella dei bambini nel peccato e la loro partecipazione al processo di
espiazione, proprio non la può condividere. Perché estendere la colpa dei padri ai figli?
Nemmeno in virtù di un’armonia finale una tale teoria può essere accettata. E non serve
nemmeno un eventuale inferno che vendichi le ingiustizie compiute nel mondo:
“Ma a che mi serve vendicarle, a che mi serve l’inferno per i carnefici, a che può
rimediare l’inferno, quando i bambini sono già stati martirizzati? E che armonia è
questa, se c’è l’inferno? Io voglio perdonare, voglio abbracciare, e che non si continui
a soffrire. E se le sofferenze dei bambini hanno servito a completare quella somma di
sofferenze che era necessaria per l’acquisto della verità, io affermo fin d’ora che tutta
la verità non vale un simile prezzo.”
10
Ed ecco alla fine di tale discorso, che Ivàn dice che si è dato eccessivo valore a
quell’armonia e che <<l’ingresso costa troppo caro […] mi affretto a restituire il mio
biglietto d’ingresso […] non è che non accetti Dio, Aljòša, ma Gli restituisco nel modo più
rispettoso il mio biglietto.
11
>>. Secondo Pareyson, questa restituzione del biglietto fuor di
metafora non è altro che una professione radicale di ateismo
12
, d’altronde, se Dio è il senso
del mondo e quest’ultimo contiene intrinsecamente delle assurdità, ciò che si deduce da
questo ragionamento di Ivàn è chiaro. Al povero Aljòša non resta che affermare: <<Questa
è una rivolta>>. Il termine usato non piace a Ivàn, però, quello che emerge dalle sue parole
è effettivamente una vera e propria ribellione: <<Qui si ribella contro Dio il divino che c’è
10
Op. cit., p. 262.
11
Ibidem.
12
Luigi Pareyson, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, cit., p. 187.
10
nell’uomo, ossia il sentimento di giustizia che c’è in lui e la coscienza della propria
dignità.
13
>>. Secondo Berdjaev, è proprio in questa esposizione di Ivàn, che Dostoevskij
dimostra l’esistenza di Dio:
“Dio appunto perciò esiste, perché esiste il male e il dolore nel mondo: l’esistenza del
male è una prova dell’esistenza di Dio. Se il mondo fosse esclusivamente buono e
giusto, allora Dio non sarebbe più necessario, allora il mondo sarebbe dio. Dio esiste
perché esiste il male. Ciò significa che Dio esiste, in quanto esiste la libertà.”
14
Infatti, anche Aljòša verso la fine della Leggenda dirà a Ivàn che tutto quello che ha
detto non è altro che l’elogio della figura del dio cristiano, Cristo. D’altra parte, anche
Dostoevskij ha ripetuto più volte nel corso della sua vita, di essere giunto all’osanna di Dio
tramite il crogiolo del dubbio. Da questo, si può opinare che, forse, anche l’autore prediliga
questa strada, piuttosto che quella visione cosmoteandrica esposta dallo stàrets Zosima al
termine della sua vita, dove si ha l’idea del mondo come segno profondo dell’amore divino
e dell’armonia universale di tutto quanto il creato. In difesa di questa, interviene
nuovamente Aljòša, proponendo la teoria della redenzione di Cristo. Con tale risposta del
giovane seminarista, che quindi si contrappone a Ivàn, possiamo evincere meglio quanto sia
difficile individuare un punto di vista preciso, un protagonista, nel quale Dostoevskij si
immedesimi totalmente. Per questo possiamo concordare con la definizione di romanzo
polifonico avanzata da Bachtin,
15
a riguardo delle opere dostoevskijane. Infatti, nei vari
romanzi troviamo sempre una molteplicità di voci che espongono idee, le quali sono
incarnate innanzi tutto dai personaggi stessi, che spesso confliggono l’uno con l’altro e
tramite i quali possiamo riflettere sul pensiero dell’autore. Dostoevskij non ha permesso d’
13
Vasilij Rozanov, La leggenda del Grande Inquisitore, cit., p. 74.
14
Nikolaj Berdjaev, La concezione di Dostoevskij, cit., p. 85.
15
Cfr. Michail Bachtin, Problemy poetiki Dostoevskogo (1963), tr. di. Giuseppe Garritano: Dostoevskij.
Poetica e stilistica, Einaudi, Torino 2002, p. 13.
11
intendere direttamente il suo punto di vista, ha lasciato libero il lettore di crearsene uno
proprio, in virtù di questa molteplicità di voci, che spingono alla riflessione critica e che per
qualcuno sarebbe proprio il punto debole dello stile narrativo dostoevskijano. Riprendiamo
però adesso la risposta di Aljòša al fratello.
Ormai, sentendosi colpito nei punti nevralgici della sua fede, egli decide di esporre la
teoria della redenzione di Cristo, il nucleo del cristianesimo:
“Egli può perdonare a tutto e a tutti e per conto di tutti, perché Egli stesso ha dato il
suo sangue innocente per tutti e per tutto. Tu l’hai dimenticato, ma è su di Lui che si
eleverà l’edificio, e starà a Lui gridare: « tu hai ragione, Signore, giacché le Tue vie ci
sono rivelate.»…”
16
Mentre Ivàn si prende gioco di queste riflessioni del fratello, criticandolo di usare
espedienti metafisici per difendere le teorie insensate della religione, per Pareyson, invece,
questo è il momento in cui viene proposta l’unica risposta a tutta quanta la sofferenza
inutile del mondo: la theologia crucis
17
. In questa ottica, il dolore assume un significato
teogonico e si entra in una dimensione che è umanamente incomprensibile, in altre parole
nella cosiddetta chenosi, lo svilimento della figura divina del Padre nella figura del Figlio,
il Cristo uomo. È il momento ateistico della divinità, il rinnegare la propria condizione per
assumerne una inferiore, quella umana, arrivando addirittura a prendere su di sé, nel
momento della crocifissione, tutta la sofferenza, il dolore universale e arrivando a rinnegare
se stesso:
“È un mistero grande e terribile, profondo e insondabile, che per un verso l’atto con
cui Dio riscatta il dolore prendendolo su di sé sia anche l’atto con cui Dio si oppone a
se stesso […] e che per l’altro verso l’atto con cui Dio si oppone a se stesso, e vuol
soffrire e morire […] e anzi si distrugge da sé consegnandosi alle potenze trionfanti del
16
Fëodor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 262.
17
Luigi Pareyson, Dostoevski. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, cit., p. 213.
12
dolore e della morte, sia anche quello con cui egli vince la sofferenza, redime
l’umanità, conferma se stesso […] La punta infima dell’impotenza di Dio, cioè il
Cristo sofferente, è anche il culmine della sua più splendida onnipotenza.”
18
È la vittoria del Cristo sofferente sul male, qui sta l’onnipotenza di Dio, incomprensibile
per una mente euclidea come Ivàn.
Tutto questo preambolo sul dialogo precedente alla Leggenda è fondamentale proprio ai
fini della piena comprensione di questa, d’altronde:
“Se nel discorso di Ivàn si distinguono due parti, il colloquio con Aljòša e
l’esposizione della Leggenda, si dovrà riconoscere per un verso che esse sono
inscindibili: la Leggenda non è che il secondo tempo dell’intero discorso; e per l’altro
che il nesso fra di loro è costruttivo: senza la trattazione della sofferenza dei bambini la
Leggenda risulta in fondo incomprensibile”.
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Queste due parti costituiscono in realtà un tutto unitario: è necessario dunque
considerarle insieme. Adesso possiamo veramente entrare nel vivo del racconto della
Leggenda.
b) La vicenda
Di che cosa si tratti concretamente la Leggenda del Grande Inquisitore è talmente noto,
che basterà menzionare rapidamente i momenti più rilevanti della vicenda.
Una volta resosi conto di aver provocato abbastanza il fratello, Ivàn decide di
raccontargli un poemetto da lui inventato e mai scritto. Il tutto si svolge nella Siviglia del
XVI secolo, periodo in cui l’Inquisizione spagnola metteva al rogo molto facilmente
chiunque potesse essere considerato eretico o giudaizzante, inoltre, è trascorso molto tempo
ormai dall’ultima apparizione di Cristo, infatti:
18
Op. cit., p. 216.
19
Op. cit., p. 189.
13
“Già quindici secoli sono trascorsi dacché Egli promise di tornare nel regno Suo,
quindici secoli dacché il suo profeta scrisse: <<Verrò ben presto>>. << Quanto poi a
quel giorno e all’ora, non li conosce nemmeno il Figlio, ma solo il Padre Mio
celeste>> […] Ma l’umanità Lo attende con l’antica fede e con l’antica
commozione.
20
”
In questo clima di totale rassegnazione e subordinazione al terrore instaurato dagli
inquisitori, Cristo decide finalmente di fare ritorno sulla Terra. Le sue sembianze sono
sempre quelle del figlio dell’uomo e in tale veste umana eccolo passare in mezzo alle
centinaia di persone riunite per le strade della città andalusa. Il giorno prima, su ordine
dell’Inquisitore, erano state bruciate più di cento vittime. Cosa strana, tutti riconoscono
Cristo immediatamente, si fanno benedire e toccare, i bambini cantano inni di lode…
insomma, il popolo è totalmente attratto dalla sua presenza. Ad un certo punto, arrivato sul
sagrato della cattedrale, si ferma davanti ad una processione funebre dove viene trasportata
una bara che contiene una bambina morta. La madre della vittima, disperata, chiede al
Cristo: <<Se sei tu, risuscita la mia creatura!
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>>. E ripetendo le medesime parole dette a
Lazzaro, <<talitha kum>>, Cristo riesce a far risuscitare la giovane defunta fra lo stupore e
la gioia di tutti. La folla si agita, esulta <<grida e singhiozza>>. Ed ecco sopraggiungere
proprio in quel momento, il Grande Inquisitore, un cardinale ormai novantenne, <<alto e
dritto, col viso scarno, dagli occhi infossati, ma nei quali, come scintilla di fuoco, splende
ancora una luce>>. Ha visto tutta quanta la scena, anche lui ha riconosciuto Cristo ed
ordina alle sue guardie con un semplice gesto della mano di arrestarlo. Il popolo, docile,
pavido e sottomesso all’autorità del cardinale, non accenna neanche per un istante a
protestare contro questa cattura. Anzi, tutti quanti si inginocchiano davanti al Grande
Inquisitore che, elargendo benedizioni, passa silenziosamente oltre la folla. Il Prigioniero,
invece, viene portato nel carcere del Santo Uffizio. Passa il giorno e <<sopravviene la
20
Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, cit., p. 264.
21
Op. cit., p. 266.