5
INTRODUZIONE
Genocidio, crimini contro l’umanità, deportazioni e profughi sono giunti agli occhi della mia
generazione ben prima di studiare sui libri di storia gli orrori dei crimini nazifascisti. Le parziali
immagini che il potente mezzo televisivo ci ha trasmesso dalla morente Jugoslavia, oltre a far
nascere in noi la piø totale ripugnanza e il disgusto, forse ci hanno spinto a comprendere piø a fondo
i motivi di tanto odio e spargimento di sangue innocente. I conflitti fra i vari gruppi etnici dell’ex
Jugoslavia nell’ultimo decennio del XX secolo sono purtroppo radicati nel passato e l’analisi
storiografica deve risalire molti secoli indietro per fornire una visione sintetica ma globale dei
problemi che tormentano questa parte del continente europeo. Conflitti che d’altronde si collocano e
si intersecano nei secoli con la piø ampia «questione d’Oriente». Periferia al centro dell’Europa, la
Jugoslavia è sempre stata “terra di mezzo” di popoli e civiltà fra le piø disparate: proprio per queste
sue caratteristiche lo Stato balcanico è stato luogo di incontro, di esperienze ma anche di conflitto e
di mire espansionistiche da parte delle grandi potenze politiche ed economiche europee.
Al nascente Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (1° Dicembre 1918) i lunghi secoli di
dominazione ottomana e austroungarica, il fiero ricordo delle proprie radici medievali, il risveglio
culturale e le rivendicazioni dei movimenti di liberazione nazionali del XIX secolo, avevano
lasciato in eredità numerose questioni etniche, sociali, nazionali e territoriali irrisolte e ancora
capaci di generare aspri conflitti
1
. Alla remota divisione religiosa e culturale degli slavi meridionali
in cattolici (sloveni e croati) e ortodossi (serbi, montenegrini, macedoni), si aggiunse la forte
componente musulmana, principalmente slavi convertiti all’Islam, dopo la definitiva conquista
politico-militare turca di fine Quattrocento
2
. L’intricato processo di mescolamento etnico e religioso
sul territorio, di cui la Bosnia-Erzegovina è il caso limite, gli spostamenti di popolazione alla
periferia del grande organismo sopranazionale degli Asburgo (notevole fu quella serba del 1690 e
dei successivi decenni verso le regioni meridionali del Regno d’Ungheria, evento che permise ai
vicini albanesi di occupare le spopolate zone del Kosovo)
3
, crearono le condizioni per l’emergere di
tensioni e conflitti dovuti ovviamente alla convivenza di tante e differenti culture e tradizioni. Ad
innescare questa miscela esplosiva contribuirono le discriminazioni economiche e la dura
repressione delle autorità turche così come i privilegi selettivi, le misure denazionalizzanti e la
1
H. BOGDAN, Storia dei paesi dell’Est, Torino, Società editrice internazionale 1991, pp. 25-35, 39-40, 44-6, 60-4, 78-
82, 86-90, 103, 106-10, 117-8, 126-7, 129-35, 139-63, 168-73, 176-208, 231-2; G. FRANZINETTI, I Balcani, 1878-
2001, Roma, Carocci 2001, pp. 7-34, 39-50; E. HÖSCH, Storia dei paesi balcanici, Torino, Einaudi 2005, pp. 3-192
passim.
2
M. PINSON (a cura di), I musulmani di Bosnia dal medioevo alla dissoluzione della Jugoslavia, Roma, Donzelli
editore 1995, pp. 5-56.
3
N. MALCOLM, Storia del Kosovo. Dalle origini ai giorni nostri, Milano, Bompiani 1998, pp. 174-206.
6
mancata evoluzione federalistica o trialistica dell’impero austroungarico
4
. Non mancarono nella vita
politica degli Slavi meridionali posizioni talmente estreme, come potevano essere gli appelli alla
creazione di Grandi Stati monoetnici, che accendevano gli animi piø inclini alla violenza
5
. Quanto
mai instabile era poi la situazione nella pluririvendicata Macedonia, campo fertile per gruppi
terroristici. Eppure il progetto unitario di tutti gli slavi del sud, coltivato già in pieno Ottocento dal
movimento illirico o jugoslavista (e portato avanti dal Congresso di Fiume e Zara del 1905 e dal
Comitato jugoslavo in esilio), ebbe la meglio al termine del primo conflitto mondiale
6
. Lo Stato
jugoslavo sorse come libero patto fra le parti contraenti
7
. La stabilità del nuovo organismo statale
era minata però dall’irrisolta questione istituzionale. Il mancato accoglimento delle istanze
federalistiche e autonomiste provenienti dalla componente croata, slovena e bosniaca islamica
(quest’ultima penalizzata dai vasti espropri di terre previsti dalla riforma agraria)
8
; l’imposizione di
un centralismo politico-amministrativo serbo ratificato con la Costituzione del 1921; l’opposizione
del forte Partito contadino croato nonchØ il proliferare di numerose organizzazioni e gruppi
separatisti tra le etnie e le minoranze nazionali, indussero re Alessandro Karadjeordjevic ad
instaurare una fallimentare dittatura (1929) per salvaguardare l’unità del paese
9
. Questa era messa a
grave rischio dalle mire espansionistiche dell’Italia fascista, dalla dipendenza economica sempre piø
stretta dalla Germania nazista, così come dal revanscismo bellicista dei vicini ungheresi, austriaci e
bulgari
10
. Le violente rivendicazioni separatiste dei nazionalisti croati ustaša e dei macedoni
filobulgari, appoggiati e finanziati dal regime italiano
11
, di cui rimase vittima lo stesso re
Alessandro nell’attentato di Marsiglia (1934); il mancato concordato con la Chiesa cattolica per le
pressioni scioviniste serbo-ortodosse; la precaria soluzione della questione croata con la
concessione di una parziale autonomia (Sporazum, 1939), prepararono il terreno alle violenze e le
brutalità interetniche
12
. La pressione delle potenze dell’Asse per la sua adesione al Patto Tripartito
(25 marzo 1941), la spontanea manifestazione antifascista, antitedesca e filo-occidentale della
popolazione, sfociata nel colpo di Stato militare che detronizzò le velleità dittatoriali del reggente
Pavle, coinvolsero la Jugoslavia nel secondo conflitto mondiale e le aprirono le porte dell’inferno.
4
N. MALCOLM, Storia della Bosnia, Milano, Bompiani 2000; L. VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria,
Milano, Il Saggiatore 1966, pp. 31-84 passim; H. BOGDAN, Storia dei paesi dell’Est cit., pp. 161-3.
5
M. WALDENBERG, Le questioni nazionali nell’Europa centro-orientale, Milano, Il Saggiatore 1994, pp. 61-7, 85-
100, 269-302.
6
L. VALIANI, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria cit., pp. 47-51, 226-384.
7
S. BIANCHINI, Sarajevo, le radici dell’odio, Roma, Edizioni Associate 1993, p. 30.
8
J. PIRJEVEC, Le guerre jugoslave 1991-1999, Torino, Einaudi 2001, p. 15.
9
Ibidem, pp. 3-17; R.W. SETON-WATSON, R.G.D. LAFFLAN, La Jugoslavia tra le due guerre, in Storia della
Jugoslavia, a cura di S. CLISSOLD, Torino, Einaudi 1969, pp. 191-232.
10
S. BIANCHINI, F. PRIVITERA, 6 aprile 1941. L’attacco italiano alla Jugoslavia, Settimo milanese, Marzorati
1993, pp. 17-52.
11
J. BOREJSZA, Il fascismo e l’Europa orientale, Roma-Bari, Laterza 1981, pp. 111-2.
12
M. STOJADINOVIĆ , Jugoslavia fra le due guerre, Bologna, Cappelli 1970, pp. 59-61, 99-104, 255-69, 405-16.
7
PARTE PRIMA
JUGOSLAVIA 1941-1956: TRA GUERRA DI LIBERAZIONE E GUERRE CIVILI
Apertosi con l’attacco militare nazifascista del 6 aprile 1941, lo scenario jugoslavo del
secondo conflitto mondiale si trasformò nel breve volgere di quattro anni in un conflitto di tutti
contro tutti. La lotta contro gli invasori, che in appena dodici giorni riuscirono a debellare il regio
esercito jugoslavo e a deportarne oltre 200 mila soldati in campi di internamento in Germania, si
intrecciò ben presto con le irrisolte tensioni etniche e le rivendicazioni territoriali che da secoli
attanagliavano le nazioni slavo meridionali
13
. Quelle stesse tensioni che avevano minato alle
fondamenta il Regno jugoslavo fin dalla sua nascita
14
. Lo stesso criterio adottato dagli occupanti
nella spartizione del territorio jugoslavo discendeva dalla precisa volontà di seminare e rinfocolare
storici odi etnici e nazionali. Tra il 1941 e il 1945 le popolazioni civili jugoslave dovettero subire
non solo le conseguenze di una devastante guerra di liberazione dall’occupazione nazifascista, fra
cui sanguinose rappresaglie, deportazioni, fughe in massa e trasferimenti forzosi, ma anche azioni di
sterminio programmate e condotte dai numerosi collaborazionisti. La strategia dei vari quisling fu
sempre indirizzata al raggiungimento di un’omogeneità etnica e nazionale sul territorio
15
. Il
conflitto non risparmiò nemmeno la stessa resistenza jugoslava, al suo interno in competizione tra i
partigiani comunisti, intenti a conquistare il potere al termine della guerra, e le forze monarchico-
borghesi del generale D. Mihajlović , desiderose di restaurare con tutti i mezzi l’egemonia panserba
del Regno dei Karadjeordjević . Le forze del maresciallo Tito riuscirono a coagulare attorno a loro il
consenso delle popolazioni civili, fattore che invece il composito esercito nazionale patriottico
(costituito da vecchie bande di sciovinisti panserbi e dalle ultime schegge del disciolto esercito
nazionale, che nel maggio del 1941, riparando sulle pendici della Ravna Gora, diedero vita alla
prima resistenza organizzata europea) si alienò, collaborando con i nazifascisti e massacrando
migliaia di comunisti, ebrei, croati, musulmani e antifascisti
16
. Il ruolo guida e totalizzante che il
PCJ venne assumendo all’interno del movimento di liberazione nazionale invece, si fondava sulla
13
F. TUDJMAN, Il sistema d’occupazione e gli sviluppi della guerra di liberazione nazionale e della rivoluzione
socialista in Jugoslavia, in L’occupazione nazista in Europa, a cura di E. COLLOTTI, Roma, Editori Riuniti 1964, p.
199.
14
M. STOJADINOVIĆ , Jugoslavia fra le due guerre, cit., pp. 33-58; R.W. SETON-WATSON, R.G.D. LAFFLAN, La
Jugoslavia tra le due guerre cit., pp. 191-232.
15
F. TUDJMAN, Il sistema d’occupazione cit., p. 227; P. MORAČ A, I crimini commessi da occupanti e
collaborazionisti in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale, in L’occupazione nazista in Europa, a cura di E.
COLLOTTI, Roma, Editori Riuniti 1964, pp. 517-9, 520, 536-8, 546-9.
16
S. CLISSOLD, L’occupazione e la resistenza, in Storia della Jugoslavia, a cura di S. CLISSOLD, Torino, Einaudi
1969, pp. 239-43.
8
precisa volontà dei dirigenti comunisti di ricostruire il paese, tradito dalla borghesia filomonarchica,
su un sistema socialista che superasse le radicate divisioni per linee etniche e la cui legittimità fosse
fondata sul marchio indelebile della sanguinosa lotta di liberazione
17
. Per raggiungere questo
obiettivo i comunisti jugoslavi non mancarono, al termine del conflitto, di eliminare in massa
qualsiasi oppositore. La forza e le capacità militari dei partigiani, capaci di impegnare enormi
contingenti nemici, nonchØ la doppiezza e l’ambiguità dei nazionalisti, convinsero persino i
recalcitranti Alleati a dirottare sui primi i propri aiuti bellici e finanziari
18
.
Nel corso della guerra furono perciò poste le basi per la nascita del nuovo Stato jugoslavo,
che secondo le deliberazioni della seconda sessione del Consiglio antifascista di liberazione
nazionale (AVNOJ), prevedevano la costituzione di una Jugoslavia democratica e federale. Vinta la
guerra, cacciati i nazifascisti e sconfitta l’opposizione delle forze monarchico-borghesi, il regime
comunista potØ operare concretamente per l’unità dello Stato. La fine del conflitto segnò pure
l’inizio di imponenti e drammatici spostamenti di popolazione che sarebbero proseguiti per tutto il
decennio successivo, conseguenza del clima di rivalsa e della volontà politica di ridurre
drasticamente la presenza sul territorio nazionale delle forti minoranze nazionali (italiani, tedeschi,
ungheresi, etc.)
19
. Nuovi flussi migratori interni si ebbero piø tardi come risultato di una radicale
ridistribuzione delle terre in favore dei piø poveri.
Nasceva così la Repubblica socialista federativa jugoslava che in base alla nuova
Costituzione del 1946 si costituiva in una federazione di tipo repubblicano di popoli di pari diritti (a
cui era garantito il diritto all’autodeterminazione incluso quello alla secessione), con un governo e
un parlamento forte a livello centrale ma con limitati campi d’azione a livello repubblicano.
Intenzionato a porre un decisivo freno alle spinte nazionalistiche, sempre pronte a risolvere
brutalmente i complessi rapporti tra le diverse etnie del paese, il regime finì per imporre esso stesso
un nazionalismo e una fittizia omogeneità jugoslava, vietando la formazione di partiti su base etnica
e religiosa
20
. Inoltre lo stesso preambolo della Costituzione non riconosceva come nazioni
costitutive le forti minoranze come quella albanese e magiara. La Repubblica di Bosnia ed
Erzegovina, con la sua composizione multietnica, rappresentava su scala piø ridotta la complessa
17
F. TUDJMAN, Il sistema d’occupazione cit., pp. 229-49.
18
S. CLISSOLD, L’occupazione e la resistenza cit., pp. 253-7.
19
S. SRETENOVIĆ , S. PRAUSER, The “expulsion” of the German speaking minority from Yugoslavia, in The
expulsion of the ‘German’ communities from Eastern Europe at the end of the second world war, a cura di S.
PRAUSER, A. REES, pp. 46-58 in www.iue.it/PUB/HEC04-01; M. CATTARUZZA, M. DOGO, R. PUPO (a cura di),
Esodi. Trasferimenti forzati di popolazione nel Novecento europeo, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 2000, pp.
183-252.
20
R. RISALITI, Storia problematica della Russia, vol. IX, Firenze, Tipografia Toscana Nuova 2005, pp. 117-131; Id.,
Multiculturalismo e pluralismo religioso in Jugoslavia e dintorni, in Multiculturalismo e pluralismo religioso fra
illusione e realtà: un altro mondo è possibile?, a cura di A. NESTI, Firenze, Firenze University Press 2006, pp. 341-53.
9
eterogeneità e il multiculturalismo del nuovo Stato jugoslavo
21
. Ma i bosniaci musulmani furono
riconosciuti come popolo costitutivo solo alla fine degli anni Sessanta
22
. Particolare attenzione fu
posta poi nel controllo delle deviazioni nazionaliste all’interno del PCJ, dove tali settarismi erano
forti soprattutto fra croati, macedoni e albanesi
23
.
L’estremo dinamismo interno ed estero della autonoma dirigenza jugoslava (fautrice del
progetto di federazione di Stati balcanici comunisti), talmente carismatica da poter offuscare la
dogmatica leadership di Stalin, svolgendo un ruolo pericolosamente antagonistico a quello del
grande fratello sovietico, portò nel 1948 alla rottura dei rapporti con il blocco dei paesi socialisti. Si
apriva così per la Jugoslavia un lungo periodo (1949-1953) caratterizzato dalla «sindrome
dell’assedio sovietico» (cioè il pericolo di essere invasi e sottomessi dall’URSS), con pericolosi
incidenti alle frontiere che avevano il solo scopo di destabilizzare il regime di Belgrado. All’interno
della RSFJ ebbe inizio un nuovo ciclo di violenze: una caccia alle streghe all’interno
dell’amministrazione, dell’esercito, delle forze di polizia, nonchØ tra le dirigenze di alcune
nazionalità dello Stato, prese di mira i fedelissimi ai principi e alla figura di Stalin (la cosiddetta
«guerra ai cominformisti»)
24
. Soltanto la morte di Stalin rese piø distese le relazioni con l’URSS e i
suoi satelliti, consentendo un alleggerimento della repressione interna. Intanto la Jugoslavia aveva
intrapreso la strada del titoismo, dell’autogestione e della politica di non allineamento tra i due
blocchi
25
.
Ma analizziamo ora piø da vicino l’intricato scenario jugoslavo dal 1941 al 1956, nel quale
scontri etnici, trasferimenti forzosi di popolazione ed esodi divennero il risultato tangibile
dell’azione combinata dell’invasione nazifascista, della guerra di liberazione nazionale e delle
ataviche tensioni interetniche.
21
R. DIZDAREVIĆ , La morte di Tito, la morte della Jugoslavia, Ravenna, Longo editore 2001, p. 30.
22
R. RISALITI, Storia problematica della Russia cit., p. 125.
23
S. BIANCHINI, F. PRIVITERA, 6 aprile 1941 cit., p. 58; S. BIANCHINI, Epurazioni e processi politici in
Jugoslavia 1948-1954, «Rivista di Storia Contemporanea», 4 (1990) pp. 596-9.
24
Ibidem, pp. 587-615.
25
J. PIRJEVEC, Le guerre jugoslave cit., p. 22.
10
CAPITOLO 1
ITALIANI E JUGOSLAVI TRA VIOLENZE ETNICHE, GUERRA ED ESODI
Dalla superiorità della civiltà italica alla snazionalizzazione forzata.
L’occupazione militare e/o l’annessione allo Stato italiano della provincia di Lubiana, del
litorale dalmata (Governatorato della Dalmazia), della provincia di Cattaro, del Montenegro
nonchØ l’aggiunta della Macedonia occidentale e della piana del Kosovo all’Albania già
militarmente occupata, suggellarono piø di venti anni di tensioni tra Italia e Jugoslavia. Finalmente
le ambizioni espansionistiche del regime fascista nei Balcani cominciarono a materializzarsi.
D’altronde i secolari rapporti dell’Italia con gli sloveni e i croati nell’area dell’alto Adriatico,
improntati sulla «superiorità culturale italiana» rispetto alla «bonarietà, l’arretratezza e l’ignoranza
dei contadini slavi», e le tensioni sociali che scaturivano dalle rivendicazioni slave per il
miglioramento del proprio status, si erano progressivamente esacerbati nel clima della grave crisi
economica del primo dopoguerra
26
. Il regime di occupazione militare nei nuovi territori annessi con
il trattato di Rapallo
27
, comprendenti mezzo milione di sloveni e croati, mirò da subito a reprimere i
sentimenti di appartenenza nazionale degli slavi, deportando e mandando al confino quei civili
ritenuti pericolosi per la sicurezza dello Stato italiano
28
. In un contesto in cui questione nazionale
(mito della «vittoria mutilata», rivendicazioni e provocazioni dei nazionalisti e degli irredentisti
italiani e jugoslavi) e questione sociale attizzavano gli opposti nazionalismi e il pericolo bolscevico
si profilava all’orizzonte della borghesia italiana (impegnata nell’associazione mentale slavo uguale
comunista, sebbene gli stessi comunisti italiani locali difendessero i diritti delle minoranze slave), il
«fascismo di frontiera» ebbe gioco facile nell’influire sulla società giuliana
29
. Allo stesso tempo i
tentativi di Mussolini di intervenire nella politica interna (attraverso il finanziamento e il supporto
logistico dei separatisti croati e montenegrini)
30
ed estera jugoslava, si ponevano l’obiettivo di
annientare il proprio vicino, soprattutto dopo l’elaborazione tra il 1925 e il 1926, dietro la pressione
26
R. PUPO, Guerra civile e conflitto etnico: italiani, sloveni e croati, «Clio, Rivista trimestrale di studi storici», 3
(2000) pp. 497-513.
27
La nuova regione Venezia Giulia, l’Istria, le isole dalmate annesse all’Italia il 5 gennaio 1921, dove gli slavi, dediti
principalmente all’agricoltura, costituivano la maggioranza nell’entroterra rurale (in Istria, nel Goriziano, a Gradisca e
nella Dalmazia) rispetto alla superiorità numerica degli italiani a Trieste, Fiume e nei centri urbani istriani, dove erano
occupati nel commercio, nell’industria e nella pubblica amministrazione. Per le percentuali di presenza etnica vedi M.
WALDENBERG, Le questioni nazionali nell’Europa centro-orientale cit., pp. 61-7, 85.
28
In primo luogo sacerdoti ed insegnanti, da sempre il vero focolaio dei sentimenti nazionali sloveno e croato.
29
A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia e la persecuzione antislava, «Patria Indipendente», 2 (2005) pp. 11-19;
S. BARTOLINI, Fascismo antislavo, Pistoia, ISRPT Edit. 2006, pp. 3-51; R. PUPO, Guerra civile e conflitto etnico
cit., pp. 497-513.
30
J. BOREJSZA, Il fascismo e l’Europa orientale cit., pp. 111-2; S. BIANCHINI, F. PRIVITERA, 6 aprile 1941 cit.,
pp. 23-30.
11
dei grandi gruppi economici nazionali, della politica di espansione nel Sudest europeo
31
. Del
carattere slavofobico, aggressivo e razzista del regime italiano ne subì le conseguenze la cospicua
minoranza slovena e croata, sottoposta a una repressiva politica di snazionalizzazione e di
fascistizzazione
32
. Tra il «corpo estraneo degli allogeni slavi» andò progressivamente aumentando il
senso di precarietà della vita con la realizzazione del progetto di assimilazione forzata, che colpì
ogni aspetto della vita sociale slava, compresa la stessa identità delle persone e dei luoghi mediante
l’italianizzazione dei nomi e dei toponimi. Contro la minoranza slovena e croata si giunse ad
approntare meticolosi piani di «bonifica etnica del confine» per favorire la colonizzazione italiana,
solo parzialmente realizzati. Il clima di terrore e di violenza, i sequestri e le perquisizioni, gli arresti
ingiustificati, la censura, le campagne denigratorie della stampa italiana, i provvedimenti giudiziari,
si proponevano di colpire tanto le reazioni di coloro che si ribellavano alla grave oppressione in
atto, quanto la resistenza politica legale e clandestina
33
. Le stesse azioni di snazionalizzazione e di
fascistizzazione furono applicate all’indomani della debacle militare jugoslava del 17 aprile 1941,
nella provincia di Lubiana, nella zona della Dalmazia annessa al territorio italiano e in quella
montenegrina. Subito furono applicate misure come il divieto dell’utilizzo delle lingue nazionali
sostituite da quella italiana, la rimozione dell’amministrazione locale rimpiazzata da elementi
italiani, l’obbligo del saluto romano accompagnato da scritte pubbliche inneggianti al fascismo e al
suo capo, la colonizzazione con famiglie giunte dall’Italia. All’assimilazione forzata e all’azione di
«civilizzazione italica» si alternarono la violenza delle camicie nere e le condanne a morte inflitte
dai tribunali di guerra (anche per reati di tipo economico)
34
.
La guerra di sterminio italiana.
L’inizio delle operazioni di guerriglia delle formazioni partigiane nella seconda metà del
1941 segnò una recrudescenza e un imbarbarimento generale soprattutto in Slovenia e in
Montenegro. Qui le autorità di occupazione avevano cercato di instaurare un protettorato italiano
nell’ambito di uno stato nominalmente indipendente (comprensivo di alcuni distretti dell’ex
Sangiaccato di Novi Pazar). Ma la situazione di calma apparente fu spezzata il 13 luglio dallo
scoppio della violenta insurrezione popolare a guida comunista e dal forte carattere panslavo.
31
S. BIANCHINI, F. PRIVITERA, 6 aprile 1941 cit., pp. 17-52; M. STOJADINOVIĆ , Jugoslavia fra le due guerre,
cit., pp. 161-77.
32
S. BIANCHINI, F. PRIVITERA, 6 aprile 1941 cit., pp. 22-3.
33
L. Č ERMELJ, Sloveni e croati in Italia tra le due guerre, Trieste, EST 1974; A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia
Giulia cit., pp. 11-5; R. PUPO, Guerra civile e conflitto etnico cit., pp. 504-13.
34
S. BIANCHINI, F. PRIVITERA, 6 aprile 1941 cit., p. 56; A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia cit., pp. 11-
5; G. SCOTTI, L. VIAZZI, Le aquile delle montagne nere. Storia dell’occupazione e della guerra italiana in
Montenegro (1941-1943), Milano, Mursia 1987, pp. 59-76.
12
Questa era stata catalizzata dalla delusione per il venir meno delle speranze di indipendenza
nazionale (promessa come liberazione dal giogo serbo), dall’esodo di migliaia di connazionali dalla
Serbia, dalla Vojvodina e dalla Bosnia Erzegovina
35
, e soprattutto dalla perdita di parti del territorio
nazionale in favore dell’Albania, i cui militari erano stati integrati nell’esercito italiano e i cui
sciovinisti avevano saccheggiato, incendiato e ucciso in alcuni villaggi del Kosovo e della Metohija,
vendicandosi di venti anni di persecuzioni e discriminazioni all’interno del Regno jugoslavo
36
.
L’iniziale alleanza tra i nazionalisti e i comunisti montenegrini guidati da M. Djilas, si
espresse in una estrema violenza contro l’invasore italiano, che rispose con massacri, saccheggi,
fucilazioni, incendi di villaggi, deportazioni ed internamenti della popolazione maschile nei campi
di concentramento di Bar, Kukºs, Scutari, Durazzo, Klos, Gºrman, Kavajº, Pukº, etc
37
. Il duro
scontro tra occupanti e ribelli si intrecciava con gli scontri etnici al confine con l’Erzegovina tra gli
ustaša croati e i contadini serbo-montenegrini così come tra i musulmani e gli ortodossi nei distretti
del Sangiaccato (scontri di Rožaj) e fra serbo-montenegrini e albanesi (Plav, Gusinje, Velika,
Tuzi)
38
. Nei successivi due anni di guerra, le truppe italiane pur subendo gravi perdite attuarono una
strategia di rastrellamento sistematico del territorio in collaborazione con i č etnić i montenegrini
(impegnati nel loro personale progetto di lotta e pulizia etnica contro comunisti, croati, musulmani e
albanesi in Bosnia Erzegovina, Montenegro, Kosovo, Sangiaccato, Serbia meridionale), per far
fronte alle azioni di sabotaggio da parte della guerriglia comunista, mai definitivamente domata, e
per spezzare l’appoggio dei civili alle forze della resistenza
39
.
I fallimenti delle prime tre offensive antipartigiane, tra l’inverno del 1941 e la primavera del
1942, aumentarono la frustrazione e la rabbia dei comandi militari, impegnati non solo contro le
rapide e invisibili azioni della guerriglia ma anche a porre un freno alle numerose diserzioni, ai
malumori tra le truppe e alla «favola del bravo italiano», per mezzo di tribunali speciali e
propaganda nazionalfascista
40
. Con la nomina del generale Mario Roatta al comando della II
Armata italiana in Slovenia e Dalmazia (Supersloda) dal gennaio 1942, le unità militari italiane, in
collaborazione con i fascisti e i borghesi anticomunisti sloveni della Guardia Bianca (Bela Garda) e
dei nazionalisti montenegrini, cominciarono a reprimere, ad internare, a fare veramente «piazza
pulita» delle popolazioni locali nell’intento di spezzare l’aiuto dei civili ai ribelli. In base alle
35
Si trattava principalmente di studenti, intellettuali e professionisti in fuga dai nazisti, dagli ungheresi e dai massacri
degli ustaša, rifugiatisi soprattutto nella vecchia capitale Cetinje.
36
G. SCOTTI, L. VIAZZI, Le aquile delle montagne nere cit., pp. 79-94; S. BIANCHINI, F. PRIVITERA, 6 aprile
1941 cit., pp. 60-6; P. MORAČ A, I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti cit., pp. 520-1.
37
Ibidem, pp. 550-1.
38
G. SCOTTI, L. VIAZZI, Le aquile delle montagne nere cit., pp. 67-9, 161-2, 207-8; S. BIANCHINI, F. PRIVITERA,
6 aprile 1941 cit., pp. 69-71.
39
Ibidem, pp. 63-4; G. SCOTTI, L. VIAZZI, Le aquile delle montagne nere cit., pp. 95-104 e segg.; P. MORAČ A, I
crimini commessi da occupanti e collaborazionisti cit., pp. 538-44, 547; G. SCOTTI, “Bono taliano”. Gli italiani in
Jugoslavia (1941-43), Milano, La Pietra 1977, pp. 42-8, 53-94, 123-43.
40
Ibidem, pp. 59-60.
13
direttive emanate dal generale bisognava rispondere alla guerriglia comunista secondo i principi «di
testa per dente», di responsabilità collettiva e di correità familiare, attuando pesanti quanto
inefficaci rappresaglie contro i familiari dei partigiani
41
. Le autorità militari italiane intesero allora
la guerra contro i «ribelli» come azione di massacro e di epurazione della popolazione civile. Nei
resoconti delle operazioni belliche ci si vantava di aver eliminato un gran numero di pericolosi
comunisti ma in realtà le cifre si riferivano agli inermi civili
42
. Le truppe italiane e le milizie fasciste
devastarono, incendiarono e rastrellarono sistematicamente interi villaggi e città (Lubiana, Novo
Mesto) e deportarono in massa la popolazione civile presente nelle zone delle operazioni belliche.
Ad esempio, il villaggio di Podhum, vicino Fiume, fu raso al suolo il 12 luglio 1942 dal tremendo
incendio appiccato come rappresaglia all’attentato partigiano in cui erano rimasti uccisi il maestro
elementare e sua moglie; «108 uomini vennero fucilati sul posto, le 185 famiglie del paese (circa
800 persone) furono deportate»
43
. Su tutto il territorio della provincia di Lubiana e in Dalmazia, le
amministrazioni civile e militare italiane costituirono, tra la fine del 1941 e per tutto il 1942,
numerosi campi di concentramento, di transito e di internamento della popolazione civile:
Kraljevica, Bakar, Osljak, Fiume, Lopud, Kupari, Murter, Korica, Brac, Hvar, Plasko e Lubiana. I
piø importanti campi di concentramento si ebbero ad Arbe (Rab), a Melada (Molat) e nel complesso
di Mamula-Prevlaka per il quadrante Adriatico meridionale. Su tutto il territorio italiano furono
costituiti campi di internamento per la popolazione slava, i piø importanti dei quali erano situati a
Gonars e a Visco nella Venezia Giulia, Monigo e Chiesanuova in Veneto, Renicci d’Anghiari in
Toscana; 16 campi di lavoro forzato in miniera furono stabiliti in Sardegna
44
. In essi furono
trasferiti migliaia di sloveni, croati ma anche zingari ed ebrei nonchØ interi nuclei familiari, vecchi,
donne e bambini. Le pessime condizioni igienico-sanitarie (pidocchi, freddo ed epidemie di tifo) e
le scarse razioni alimentari («gravi segni di inanizione da fame» veniva riferito nei rapporti medici
ai comandi militari del tutto indifferenti e tranquillizzati dalla equivalenza «individuo malato uguale
individuo che ci lascia in pace»)
45
, falcidiarono la popolazione dei campi italiani. Il campo di Rab,
aperto nel luglio del 1942 e chiuso l’11 settembre 1943, alle dipendenze del violento comandante V.
Ciauli, ospitò circa 15000 internati; si calcola che per le pessime condizioni di vita nel campo
morirono tra le 1500 e le 2500 persone
46
. Nella Dalmazia annessa gli italiani confinarono parte della
popolazione ebraica di Spalato sull’isola di Korč ula. In città fu dapprima introdotta la legislazione
41
Circolare 3 C del 1 marzo 1942 (ripubblicata il 1 dicembre 1942) del generale M. Roatta, comandante della II Armata
Slovenia e Dalmazia (Supersloda) in www.criminidiguerra.it/DocumentiE.
42
P. MORAČ A, I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti cit., pp. 538-44.
43
A. BUVOLI, Il fascismo nella Venezia Giulia cit., p. 19.
44
P. MORAČ A, I crimini commessi da occupanti e collaborazionisti cit., pp. 550-1; www.storiaXXIsecolo.it
45
Appunto a mano del 17 dicembre 1942 del generale G. Gambara, comandante dell’XI Corpo d’Armata, in risposta al
rapporto del 15-12-1942 dell’Alto Commissariato per la provincia di Lubiana sulle condizioni degli internati di Rab in
www.criminidiguerra.it/DocumentiE.
46
www.storiaXXIsecolo.it; www.criminidiguerra.it.
14
antiebraica, poi si passò alle provocazioni e agli eccessi. Nel giugno del 1942 le camicie nere
attaccarono e demolirono la sinagoga cittadina; negozi e abitazioni furono distrutti. Almeno 3 mila
ebrei furono internati in questa zona nel 1942
47
. Nella parte dalmata ad amministrazione congiunta
italo-croata gli italiani intrapresero misure di protezione in favore dei serbi e degli ebrei, sottoposti
sul territorio dello Stato indipendente croato a un massacro compiuto con i piø atroci metodi. Ciò
provocò ulteriori attriti tra i due alleati
48
. I croati non mancarono di rivolgersi a Berlino per ottenere
la restituzione dei profughi. Malgrado le pressioni tedesche su Mussolini, le autorità militari italiane
si opposero fermamente – era loro interesse ripulire la propria immagine razzista e persecutrice per
accreditarsi presso gli Alleati nell’ormai prossima caduta del regime
49
. Nel giugno del 1943 i 3500
ebrei internati nei campi di Dubrovnik, Kraljevica, Hvar e Brac furono riuniti nel campo di Rab. Al
momento della capitolazione italiana, questi detenuti organizzarono assieme ai prigionieri sloveni la
propria fuga e si unirono all’Esercito di liberazione nazionale jugoslavo, costituendo interi
battaglioni totalmente ebrei (1339 partigiani)
50
.
Nel territorio della provincia di Lubiana, in ventinove mesi di occupazione militare italiana,
si ebbero 67230 internati (di cui 9691 donne e 4282 bambini) su una popolazione di 360 mila
abitanti, 11606 morti nei campi di concentramento (1140 bambini), 4 mila civili fucilati, 187
vittime di torture, sevizie e delle fiamme che distrussero i loro villaggi
51
. In un incontro a Gorizia il
31 luglio 1942 tra Mussolini e i comandi militari fu prospettata persino la deportazione totale della
popolazione slovena mentre in Dalmazia l’ipotesi di far coincidere le frontiere politiche con quelle
etniche era già divenuta realtà, con lo spopolamento di interi comuni in seguito alle deportazioni in
massa e alle fucilazioni indiscriminate
52
. Intanto a cavaliere del vecchio confine di stato l’attività
partigiana italiana e slava si estendeva progressivamente, trovando l’appoggio della popolazione
locale slava. Il regime vi rispose brutalmente con l’istituzione dell’Ispettorato speciale di pubblica
sicurezza che si abbandonò ad efferati crimini
53
.
47
J. ROMANO, Jews of Jugoslavia 1941- 1945. Victims of genocide and freedom fighters, in
www.jasenovac.org/images/jews of jugoslavia 1941 1945.
48
S. BIANCHINI, F. PRIVITERA, 6 aprile 1941 cit., pp. 67-70.
49
M. A. RIVELLI, L’Arcivescovo del genocidio, Milano, Kaos edizioni 1999, pp. 135-42.
50
J. ROMANO, Jews of Jugoslavia 1941- 1945 cit.
51
Le cifre riferite sono riportate in I campi italiani, nella sezione Deportazione del sito www.storiaXXIsecolo.it
dell’A.N.P.I. di Roma; interrogazione parlamentare 3-03176 alla Camera dei Deputati nella seduta del 15 marzo 2004 n.
438 dell’onorevole Carlo Carli al ministro della difesa; P. MORAČ A, I crimini commessi da occupanti e
collaborazionisti cit., p. 552; I campi di concentramento per civili gestiti dalla II armata (Supersloda – Slovenia
Dalmazia), nella sezione Itinerari del sito www.criminidiguerra.it.
52
Sono da attribuirsi alla responsabilità diretta delle truppe di occupazione italiane almeno 250 mila morti. Cfr. M.
OTTANELLI, La verità sulle foibe, in www.rifondazione.bz.it/arch2006.
53
G. LA PERNA, Pola, Istria, Fiume 1943-1945, Milano, Mursia 1993, pp. 94-160; G. FOGAR, Le foibe: Istria,
settembre-ottobre 1943, «Patria Indipendente», 2 (2005) pp. 20-6.
15
La «Zona di operazioni Litorale Adriatico».
Con il crollo del regime fascista e la disgregazione dell’esercito italiano in seguito
all’armistizio dell’8 settembre 1943, i rapporti di forza, di dominio e di repressione tra le
popolazioni slave e italiane andarono progressivamente mutando in favore delle prime. Nel giro di
pochi giorni migliaia di profughi e di soldati italiani dalla Dalmazia cominciarono la ritirata verso la
linea del vecchio confine di Stato. Le truppe disarmate dai loro ex alleati germanici e da questi
deportati nei campi di concentramento in Germania, si trovarono ad affrontare gli assalti dei
partigiani comunisti, dei cetnič i, degli ustaša croati tutti interessati al recupero delle armi italiane e a
imporre il proprio controllo sul territorio
54
. Mentre il Poglavnik croato dichiarava la virtuale
annessione allo Stato indipendente croato degli ex territori italiani di Fiume, dell’Istria e della
Dalmazia (9 settembre) e lo stesso governo monarchico in esilio si preoccupava di avanzare agli
anglo-americani le proprie rivendicazioni a scapito dell’Italia, la popolazione slava dell’entroterra
dell’Istria manifestava la propria rabbia anti-italiana in episodi di violenza di massa, storicamente
ricordati con il nome di «foibe istriane»
55
. Intanto le truppe tedesche si affrettavano ad occupare
militarmente i maggiori centri urbani della Venezia Giulia, del Friuli e dell’Istria, dove cessava di
fatto la sovranità italiana per la creazione della «Zona di operazioni Litorale Adriatico»
(Adriatisches Küstenland). L’ennesimo capitolo di violenze a sfondo etnico e politico era aperto:
mentre condannava a morte e ai forni crematori 5 mila tra oppositori politici, partigiani ed ebrei
nella Risiera di San Sabba (per «merito» dell’Alto comandante delle SS e della polizia O.
Globoč nik), l’amministrazione nazista del governatore F. Rainer adottava una politica di divide et
impera, degna della tradizione amministrativa asburgica, tra la popolazione italiana e slava,
esaltando allo stesso tempo l’efficienza burocratica ed amministrativa tedesca rispetto al
fallimentare governo italiano
56
. La malcelata annessione dei territori al confine orientale d’Italia al
Reich, come d’altronde previsto dai piani dei piø alti gerarchi nazisti, secondo i quali questa regione
doveva costituire il confine meridionale tedesco, alimentò dissidi e un deciso clima di rancore tra gli
stessi fascisti della Repubblica Sociale, oramai divenuti un semplice strumento repressivo al
servizio dei nazisti
57
. Numerose stragi di civili furono commesse dai nazifascisti nella regione (ad
esempio sulla popolazione italiana di etnia č ič ik del villaggio istriano di Vodice)
58
.
Nel corso del 1944 le autorità naziste pianificarono la creazione di uno «Stato cuscinetto del
Friuli» (Pfufferstaates Friaul) nella provincia di Udine, che facendo leva sulle tradizioni culturali e
54
G. LA PERNA, Pola, Istria, Fiume cit., pp. 28-64.
55
Ibidem, pp. 72-3, 80, 86.
56
Ibidem, pp. 65-8, 86-93; G. FOGAR, Le foibe cit., p. 26; S. BIANCHINI, F. PRIVITERA, 6 aprile 1941 cit., p. 116.
57
G. LA PERNA, Pola, Istria, Fiume cit., pp. 68-79, 92-3.
58
M. OTTANELLI, La verità sulle foibe cit.
16
folcloristiche dell’etnia ladina avrebbe disinnescato il contesto di forti tensioni e rivendicazioni
territoriali che dal 1866 contrapponevano sloveni e italiani
59
. Nello stesso anno le truppe tedesche
fecero affluire dal fronte orientale parte dell’esercito cosacco, già fieramente oppositore dei
bolscevichi, allettandolo con la promessa di concessione di un proprio territorio autonomo
(Kosakenland in Nord Italien). Circa 22 mila cosacchi (ortodossi) e caucasici (musulmani) furono
dislocati (Operation Ataman) al seguito delle proprie famiglie, piø di ventimila civili, nel territorio
compreso tra la Carnia e la Slavia veneta in Friuli, con il preciso scopo di colonizzare quel
territorio. La convivenza forzata in una regione ad alta conflittualità etnica portò a furti, requisizioni
e violenze contro la popolazione italiana e slovena
60
. L’Armata cosacca affiancò le truppe naziste
nelle offensive militari del settembre-dicembre 1944 contro i partigiani italiani e jugoslavi delle
proclamate Zone libere della Carnia e del Friuli orientale. Agli attentati e ai sabotaggi partigiani le
truppe naziste e cosacche risposero dispiegando trentamila uomini che si abbandonarono a
saccheggi, rastrellamenti, incendi di villaggi, esecuzioni sommarie e deportazioni di civili. Eccidi si
verificarono anche nei primi giorni del maggio 1945 quando le truppe cosacche, in ritirata verso
l’Austria, compirono le ultime rappresaglie prima di essere a loro volta massacrate dalle truppe
britanniche, consegnate ai sovietici e di immolarsi nel fiume Drava presso Peggetz il 1° giugno
1945
61
.
Le foibe 1943-45.
Come si è gia accennato, la decisione delle autorità militari tedesche di occupare
inizialmente i maggiori centri urbani della costa istriana, permise ai comunisti croati e sloveni di
imporre il proprio controllo (tra il settembre e l’ottobre 1943) sull’entroterra dell’Istria. Da quel
momento per le popolazioni italiane della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia iniziò una
«lunga agonia» che si protrasse fino alla metà degli anni Cinquanta. Nell’autunno del 1943 tra le
500 e le 700 persone furono arrestate, condannate sommariamente dal Tribunale del popolo di
Pisino (a prescindere dalle responsabilità individuali e indiscriminatamente come nel caso della
laureanda N. Cossetto, assurta a simbolo della tragedia che colpì centinaia di innocenti), seviziate,
stuprate, fucilate e buttate come «rifiuti della società» nelle cavità carsiche e minerarie del
sottosuolo istriano
62
. Soltanto l’arrivo delle truppe tedesche pose termine alle violenze che si
59
G. LA PERNA, Pola, Istria, Fiume cit., pp. 78-9.
60
www.cjargne.it/storia.
61
P. A. CARNIER, L’armata cosacca in Italia 1944-1945, Milano, Mursia 1990; www.cjargne.it/storia.
62
Il maggior numero di vittime fu esumato dalle foibe di Pola, Gimino, Arsia, Barbana, Antignana, Gallignana, Cregli,
S. Domenico di Visinada. La «foiba dei colombi» di Vines è rimasta, per il maggior numero di vittime esumate, il
simbolo delle foibe istriane del settembre 1943. I cadaveri degli uccisi furono anche gettati in mare.
17
caratterizzarono per il loro carattere etnico: tutta la comunità italiana dell’entroterra istriano ne fu
vittima
63
. Le violenze furono principalmente una valvola di sfogo e di vendetta per le popolazioni
slave, vittime a loro volta di una politica ventennale di repressione e snazionalizzazione da parte del
regime fascista italiano, gli ultimi tre anni in un brutale stato di occupazione militare. Non a caso la
maggior parte delle vittime rappresentava per la propria posizione sociale e lavorativa il tradizionale
dominio italiano e del regime fascista nella regione
64
. Tra la popolazione slava ormai era affermato
lo stereotipo dell’italiano uguale fascista
65
. Nondimeno, i membri dei PC croato e sloveno
cavalcarono l’ondata di violenza delle masse slave per imporre l’annessione dell’Istria, di Fiume,
della Dalmazia alla Croazia, e quindi alla futura Jugoslavia libera e democratica, proclamando la
cosiddetta «Dichiarazione di Pisino» (13 settembre) dello ZAVNOH (Consiglio territoriale
antifascista di liberazione nazionale della Croazia) e fatta propria dalle deliberazioni dell’AVNOJ
del novembre 1943 a Jaice
66
.
Decisamente rispondenti alla volontà di potenza del nascente Stato jugoslavo furono le
cosiddette «foibe giuliane» del maggio-giugno 1945. Dopo aver vinto la «corsa per Trieste» a
scapito degli Alleati, l’Esercito di liberazione nazionale jugoslavo (EPLJ) e i partigiani del IX
Corpus entravano per primi in città il 1° maggio 1945, e nel tentativo di avviare la nuova
costruzione statale si abbandonarono per i successivi 40 giorni ad arresti, deportazioni, esecuzioni
di massa e successivi infoibamenti. La decisa volontà annessionistica del «nazionalcomunismo
jugoslavo», la strategia di «annichilimento del dissenso», cioè di tutti coloro che si opponevano
all’annessione della Venezia Giulia e del suo capoluogo alla Jugoslavia e di coloro che avversavano
il regime comunista, furono le motivazioni alla base di efferati crimini
67
. Vittime designate
divennero i rappresentanti e i collaborazionisti degli apparati militari e di polizia del regime
nazifascista (militari, questori, squadristi, burocrati, carabinieri e poliziotti, fascisti e anticomunisti
sloveni e croati); l’intero apparato amministrativo e di controllo del territorio (podestà, impiegati,
guardie di finanza e guardie civiche) a prescindere dalle singole responsabilità. Ma nell’ampia,
indefinita ed arbitraria categoria dei «nemici del popolo» rientrarono anche gli antifascisti non
comunisti del CLN giuliano, irriducibili avversari dell’egemonia jugoslava nella lotta antifascista e
dell’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia, nonchØ gli autonomisti fiumani, i membri
63
G. LA PERNA, Pola, Istria, Fiume 1943-1945 cit., pp. 161-205.
64
R. PUPO, Guerra civile e conflitto etnico cit., pp. 518-21; R. PUPO, R. SPAZZALI, Foibe, Milano, Mondadori 2003,
pp. 1-14; R. PUPO, Guerra e dopoguerra al confine orientale d’Italia (1938-1956), Udine, Del Bianco editore 1999,
pp. 107-37.
65
Id., Guerra civile e conflitto etnico cit., p. 521.
66
G. LA PERNA, Pola, Istria, Fiume cit., pp. 81-6.
67
R. PUPO, Guerra civile e conflitto etnico cit., pp. 523-7.
18
delle organizzazioni patriottiche e nazionaliste
68
. Ad essi si contrapponevano i «buoni ed onesti
italiani», cioè i comunisti e la classe operaia giuliana, favorevoli alla politica di potenza del nuovo
Stato jugoslavo e desiderosi di vivere, secondo la loro logica internazionalista, nella comune patria
socialista
69
. In una tremenda guerra civile i partigiani italiani collaborarono attivamente alle
operazioni di «epurazione preventiva» e di deterrenza condotte dall’esercito popolare e dalla polizia
politica (OZNA), che colpirono tutte le zone di occupazione jugoslave (Istria, Fiume, Zara), e in
particolare il territorio delle città di Trieste e di Gorizia
70
. Migliaia di civili, militari, oppositori
politici perirono nelle carceri (Lubiana, Škofja Loka), lungo le marce di trasferimento (che si
trasformarono in marce della morte poichØ i detenuti morivano per la fame, gli stenti e le sevizie),
nei campi di concentramento (Borovnica) e di lavoro coatto jugoslavi
71
. Il numero degli uccisi e
infoibati nei luoghi degli arresti, secondo le stime piø attendibili e meno politicizzate, si collocò tra
le 4500 e le 6 mila unità
72
. Ancora una volta come era successo nel 1943 si ripeterono le vendette
personali, gli atti di criminalità comune, gli abusi personali e la piaga delle delazioni
73
. Tra i
professionisti delle violenze e delle brutalità del ’43-’45 si distinse il croato I. Matika mentre le
squadre della morte ricevettero premi e periodi di vacanza
74
. Intanto nelle carceri e nei campi di
internamento in Vojvodina restavano decine di migliaia di soldati italiani (utilizzati nella
ricostruzione della ferrovia macedone e nel lavoro in miniera), il cui rimpatrio, protrattosi fino al
1947, risentì dell’esito delle trattative fra lo Stato italiano e quello jugoslavo, il che ovviamente ne
aumentò l’esasperazione e il senso di abbandono
75
.
L’esodo.
Venuto a mancare l’appoggio politico sovietico, le truppe jugoslave furono costrette a
ritirarsi da Trieste e Gorizia alla metà di giugno 1945. Iniziava allora per le popolazioni italiane di
Fiume, dell’Istria, della Venezia Giulia un lungo esodo che durò almeno fino al 1956, con flussi
68
Il 5 maggio 1945 una dimostrazione proitaliana finì per essere repressa sanguinosamente dai soldati jugoslavi. R.
PUPO, Guerra civile e conflitto etnico cit., pp. 524-5; R. PUPO, R. SPAZZALI, Foibe cit., pp. 14-23; R. PUPO,
Guerra e dopoguerra cit., pp. 48-137 passim.
69
Id., Guerra civile e conflitto etnico cit., p. 525.
70
M. PIRINA, A. D’ANTONIO, Genocidio…, Pordenone, Centro studi e ricerche storiche Silentes Loquimur 1995, p.
10.
71
Ibidem, pp. 58-75; N. TROHA, Fra liquidazione del passato e costruzione del futuro. Le foibe e l’occupazione
jugoslava della Venezia Giulia, in G. VALDEVIT (a cura di), Foibe. Il peso del passato. Venezia Giulia 1943-1945,
Venezia, Marsilio 1997, pp. 59-95.
72
Il pozzo della miniera di Basovizza è assurto a simbolo delle foibe della primavera del 1945. Secondo quanto riferisce
l’osservatore londinese della BBC in data 8 gennaio 1946, il numero delle richieste pervenute al Governo militare
alleato di notizie sulla sorte di congiunti scomparsi dopo il 1° maggio 1945 ammontavano a 4768. R. PUPO, R.
SPAZZALI, Foibe cit., pp. 23-31, 225-36; M. PIRINA, A. D’ANTONIO, Genocidio… cit., p. 82.
73
R. PUPO, Guerra civile e conflitto etnico cit., pp. 515-27.
74
M. PIRINA, A. D’ANTONIO, Genocidio… cit., pp. 20-6, 35-8, 76-8; G. FOGAR, Le foibe cit. pp. 20-6.
75
S. BIANCHINI, F. PRIVITERA, 6 aprile 1941 cit., p. 119.