ricorre alla censura e « si fluttua dal black out più assoluto alle manomissioni
pesanti», mentre nel secondo caso l’avvenimento potenzialmente rivoluzionario
viene diluito mentre è introdotto nel sistema che macina informazioni con una
vorticosità tale da annullarne la carica innovativa. Lo spettatore contemporaneo
reagirà a seconda del suo bagaglio culturale e ideologico, ma sempre nei limiti del
filtro che si interpone tra l’informazione ( spettacolarizzata o no ) e i suoi fruitori.
Allo storico spetta il compito di studiare l’avvenimento tenendo presente le varie
componenti che lo rendono pubblico: le meccaniche, il linguaggio intrinseco, la
traduzione in immagini e concetti, in stereotipi e in senso comune e vaglierà la
risonanza avuta nei mass media e grazie ai mass media. Sorge in questo contesto il
problema dello “storico dell’immediato”, costretto nella sua ricerca a inseguire gli
avvenimenti intesi però come una punta di iceberg che invitano a vedere cosa vi è
dietro, ossia la parte dell’iceberg immersa.
Un pregiudizio che ricorre spesso nella critica verso il documento filmato è
appunto la spettacolarizzazione dell’evento. Sarebbero in questa logica più
“storici” gli avvenimenti meno spettacolarizzati. Per Argentieri, invece, vi è in
ogni documento filmato un certo tasso di spettacolarizzazione, laddove esiste, per
esempio nei documentari o nei reportage, la tendenza ad oggettivizzare il
contenuto rappresentato. Infatti la realtà filmata assume aspetti soggettivi per una
serie di filtri che vanno dalla scelta dell’inquadratura, alla colonna sonora, al
montaggio, a tutti quegli elementi, in definitiva, alle cui spalle vi è una scelta
umana.
Secondo Marc Ferro
2
tutti i film sono una fonte storica. L’importante, secondo
questo storico, fra i più decisi nell’opporsi al conservatorismo del mondo
accademico, è rendersi conto del fatto che il cinema, come il romanzo, riesce a far
2
Marc Ferro, Cinema e storia, linee per una ricerca, Feltrinelli, Milano 1980
comunicare fra loro numerose discipline, dall’economia alla politica, dalle
tradizioni alle mode, e permette meglio di capire i meccanismi sociali. « Il
problema per gli storici quindi» scrive Argentieri «non è di contraddire il
documento tout court, ma quello di interpretarlo, di smontarlo e di leggerlo come
un prodotto complesso della società »
3
.
Un altro studioso che ha affrontato tali problematiche è Giovanni De Luna
4
. Come
Argentieri anche questo autore ravvisa nei media ormai non solo la funzione di
mezzi di narrazione storica aperti ad un pubblico vastissimo, ma intravede in essi
delle vere e proprie fonti per la conoscenza storica. Questo passaggio è dovuto per
De Luna alle innovazioni apportate dalla “nuova storia” soprattutto negli ambiti
della metodologia della ricerca. « La storia tradizionale non aveva domande da
rivolgere al cinema, alla radio, alla televisione; erano parti di un universo che
disprezzava o che semplicemente ignorava. Oggi, il loro uso come fonti costituisce
una delle più clamorose opportunità che scaturisce dall’”uso pubblico” della storia
»
5
.
Altri contributi a favore dell’utilizzo delle immagini in movimento come fonti
storiche sono contenuti nelle opere di Pasquale Iaccio
6
e Massimo Cardillo
7
. Questi
autori ribadiscono la parità fra documento scritto e filmato ricordando che ogni
fonte può essere manipolata e che, in quanto prodotto dell’uomo, contiene in sé
una visione parziale e soggettiva della realtà a cui si riferisce.
3
M. Argentieri, op. cit., pag. 53
4
Giovanni De Luna, L’occhio e l’orecchio dello storico, le fonti audiovisive nella ricerca e nella
didattica della storia, La Nuova Italia, Scandicci, 1993
5
G. De Luna, op. cit., pag. 8
6
Pasquale Iaccio, Cinema e storia, Liguori editore, Napoli, 1998
7
Massimo Cardillo, Il Duce in moviola, edizioni Dedalo, Bari, 1983
2. I metodi
Nel momento in cui si accetta il passaggio per cui i media da strumenti della
narrazione della storia diventano fonti per la conoscenza storica, diviene necessario
delineare un approccio metodologico che consenta di interpretarle come tali.
In questo senso va rilevato il contributo fornito dalla “nuova storia” e dalle sue
linee programmatiche che si possono riassumere in quattro punti
1
: la rottura della
barriera storicista tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche; l’accettazione
della sfida portata dalle altre scienze sociali alla storia come “sistema di
spiegazione della società mediante il tempo”; il rifiuto dell’approccio eurocentrico;
il processo di integrazione del sapere storico. L’ultimo punto, in particolare, è
legato al tentativo degli storici di allargare gli orizzonti della propria disciplina e
quindi anche all’apertura verso nuove fonti, i media specialmente. Le Goff ricorda:
« Fare della storia della mentalità significa anzitutto eseguire una certa lettura di
qualsiasi documento. Ogni cosa è fonte per lo storico della mentalità». Per far ciò è
necessario fornire nuovi elementi che adattino la tradizionale critica delle fonti,
basata sul rigore filologico e sulla verifica dell’autenticità e dell’esattezza dei
documenti, alla specificità di materiali che letteralmente non esistevano quando le
“teorie delle fonti”delle grandi sistematizzazioni dell’Ottocento furono elaborate.
Una volta fatta propria una metodologia di studio da parte dello storico per le fonti
mediatiche, come il cinema, secondo Marc Ferro sarà possibile non limitarsi a
confermare ciò che già si sa da altre fonti, ma innovare sul piano delle acquisizioni
storiografiche più significative, tutti gli aspetti invisibili che non vengono
illuminati dalla storia tradizionale
2
.
1
G. De Luna, op. cit., pag. 7
2
Ivi, pag. 10
La “rivoluzione documentaria” definita negli anni ’60 da Glennison è dovuta
principalmente all’enorme incremento di fonti reso possibile dalle tecniche
moderne. Questa rivoluzione ha reso vane le teorie positivistiche per le quali lo
storico dovrebbe avere per mano tutti i documenti prima di dar vita alla sua ricerca.
Ne è derivato in sostanza un problema opposto di quello in cui si trovano gli
studiosi di altra epoche che combattono contro la povertà di fonti di cui
dispongono. Oggi è necessario revisionare l’approccio positivista per far spazio
alla nuova possibilità di giovarsi di tutti gli ausili meccanici forniti dalla tecnologia
moderna.
Sono proprio gli audiovisivi a mettere in evidenza la necessità per la storia
contemporanea di dotarsi di metodi di indagine assolutamente originali, adatti a
fonti nuove e che non possono quindi giovarsi di metodologie consolidatesi in altri
ambiti disciplinari
3
.
Uno degli autori che in questo senso ha provato a definire una metodologia di
lettura storica del film è Pierre Sorlin con la sua opera “Sociologia del cinema”,
Aldo Garzanti Editore, Milano 1979. Peppino Ortoleva
4
ne ha riassunto le idee
principali.
Innanzi tutto Sorlin considera il cinema non solo oggetto di lettura da parte dello
storico, ma anche strumento di trasmissione del sapere, diverso e complementare
rispetto alla scrittura. Inoltre per quest’autore la conoscenza del linguaggio filmico
non deriva solamente dalla conoscenza della semiotica e dall’approccio che
utilizzano gli storici del cinema, ma dalla capacità di utilizzare simili teorie per la
conoscenza del passato e della sua rielaborazione. Lo studio storico dei film
necessita, da parte dello studioso, un’attenzione particolare durante l’analisi del
testo filmico alle influenze che l’ideologia, la maniera di guardare, la mentalità e le
3
Ivi, pag. 15
4
Peppino Ortoleva, Scene dal passato, cinema e storia, Loescher Editore, Torino 1991.
rappresentazioni diffuse comportano alla struttura del film stesso. Oggetto di
analisi da non sottovalutare, per Sorlin è il ruolo dello spettatore, che non si
traduce in ruolo di ricettore passivo, ma come ricettore differenziato e
differenziabile in gruppi e sottogruppi da un punto di vista sociologico. « Le
mentalità determinano dei moduli di percezione; gli elementi accettati da una
cerchia si inseriscono a loro volta fra le componenti della mentalità di essa »
5
.
Nel suo metodo di studio cinematografico emerge la dicotomia fra lettura realistica
e lettura della mentalità e delle ideologie. Riconosce in ogni film la simultanea
presenza di questi elementi rispettivamente oggettivi e soggettivi, e non nasconde
la sua preferenza verso i secondi. Nella distinzione fra visibile e non visibile trova
nella struttura del film i limiti ideologici della percezione in una certa epoca.
La pietra angolare del metodo di Sorlin è il concetto di “visibile”: « parlando di
visibile si ribadisce la capacità del cinema di riprodurre la realtà fisica, o più
precisamente il mondo vissuto che gli spettatori vengono invitati a riconoscere, ma
al tempo stesso si evidenzia la sua capacità di costruire, attraverso la selezione e
attraverso il racconto, una rappresentazione socialmente e soggettivamente
determimata del mondo »
6
.
L’approccio metodologico di Sorlin è tutt’oggi uno dei più definiti e completi, ma
resta ancora molto da fare in quanto mancano consolidati paradigmi di riferimento
e molto del lavoro degli storici sulle nuove fonti audiovisive si appoggia spesso e
volentieri sull’improvvisazione sperimentale. Infatti la consapevolezza che
l’oggettività dei risultati del proprio lavoro dipende non solo dall’uso di
procedimenti corretti nell’elaborazione e nel trattamento di queste nuove fonti ma
anche nella loro pertinenza in rapporto all’ipotesi della propria ricerca. E’ il caso di
ripetere che tutti i media nel momento in cui vengono avvicinati alla storia
5
P. Sorlin, Sociologia del cinema, Aldo Garzanti Editore, Milano 1979
6
P. Ortoleva, op. cit., pag. 40
assumono la doppia valenza di fonti e di modelli di narrazione. Nel primo caso lo
storico che li utilizza come documenti si confronta con il presente che li ha
prodotti; nel secondo con il passato che essi intendono raccontare e riprodurre.
Le grandi sistematizzazioni ottocentesche fondavano l’esame critico della fonte sui
parametri di autenticità ed esattezza. Nel primo caso si trattava di determinare se il
dato documento era veramente quello che si riteneva di essere comprovandolo
mediante l’esame dei manoscritti, dei testi e l’uso di tutti i procedimenti tecnici
tramite i quali si poteva giungere alla certezza della loro autenticità. Nel secondo
caso si trattava di accertare se il documento, nel momento della sua confezione, era
esatto, usando gli strumenti dell’erudizione storica in grado di collocarlo nel
contesto culturale nel quale si era formato e di metterlo in relazione con le
circostanze a cui faceva riferimento.
Oggi questi esercizi di critica interna e esterna devono fare i conti con le enormi
possibilità di manipolazione delle nuove fonti. Inoltre perde di significato la
distinzione tra documento vero o falso, in quanto un falso può assumere la stessa
importanza di un documento vero. Quindi non trovano più spazio le conclusioni
ottimistiche di Boleslas Matuszewski che consideravano il cinema come assoluto
mezzo di prova della realtà “così come era veramente accaduta”.
In realtà « non ci può essere la lettura storica di un film senza riferimenti ad alcune
categorie interpretative mutuate da altre discipline come la semiologia e
l’antropologia e , soprattutto, prescindendo dalla mediazione concettuale offerta da
una nozione come quella di “cultura cinematografica” come chiave per decifrarne
l’ambiguità e la complessità dei segni e dei significati»
7
. Non si può riduttivamente
soffermarsi sul problema della falsificazione che ogni filmato porta in sé , al
contrario lo sforzo dello storico deve essere teso verso la comprensione della realtà
7
G. De Luna, op. cit., pag. 19.
rappresentata e collocata all’interno dello schema narrativo del film. Spesso
un’interpretazione così ottenuta è ancora più significativa, per capire il periodo e
gli eventi di tanti documenti concreti fattuali usati dagli storici.
Un altro punto su cui soffermarsi è la storia dei media e del modo in cui essi si
sono costituiti come fonti. La conoscenza della storia del cinema è un utile
compendio per lo storico che interroga i film: tramite essa lo studioso è in grado di
distinguere i generi, il rapporto fra produzione e pubblico, le tendenze ideologiche
ed estetiche, una serie di elementi non trascurabili in quanto forniscono dei punti di
riferimento ai quali corrisponde anche una diversa capacità e forza dei film di
rappresentare il presente che li produce.
Anche la fase di verifica dell’intenzionalità della fonte assume per lo storico del
film una valenza specifica rispetto alle categorie positivistiche della coppia
documento/monumento. Il monumento era caratterizzato dalla volontà di sfidare il
futuro imponendogli la propria immagine mentre il documento veniva considerato
come una prova obbiettiva del passato costituendo anzi il fondamento stesso del
fatto storico.
Oggi, per contro, si può dire che la distinzione monumento/documento è caduta a
vantaggio della conclusione che ogni documento è un monumento in quanto non
esiste una fonte oggettiva, ma ognuna è il risultato dello sforzo compiuto dalle
società storiche per imporre al futuro quella data immagine di se stessa.
Lo studio per esempio della mentalità porta lo storico a creare
epistemologicamente le proprie fonti. Ma questa creazione, secondo Topolski, non
riguarda l’oggetto materiale portatore dell’informazione (il documento filmato),
ma si riferisce alla “struttura informativa” della fonte organizzandone alcuni tratti
distintivi sulla base delle domande poste dallo storico e dei nessi da lui stabiliti tra
l’informazione sollecitata e la propria ricerca
8
. Questo metodo di studio si dirama
su vari livelli: « individuazione di strutture informative in fonti già note dagli
storici; di nuove strutture informative in fonti già note; di nuove fonti a cui
rivolgere nuove domande per ritrovarvi nuove strutture informative. Tutto il
procedimento è riconducibile a un incessante meccanismo di trasformazione di
fonti potenziali in fonti effettive »
9
. Per rendere effettive le nuove fonti è spesso
necessario sollecitarle attraverso domande che non possono nascere
esclusivamente dall’interno dello statuto scientifico della storia. Di qui la grande
importanza attribuita alla mediazione di percorsi interdisciplinari, in particolare
quelli interni alla semiologia e all’iconologia.
Ma la portata più largamente innovativa del procedimento indicato da Topolski è
legata alla distinzione, all’interno della struttura informativa, tra il suo contenuto
(struttura informativa 1) e il nesso che si stabilisce tra lo storico e la fonte (struttura
informativa 2). L’emergere di questo secondo elemento, infatti, annullando ogni
barriera tra soggetto ed oggetto della conoscenza storica, delinea quasi un tipo
ideale di ricerca fondato non più sul binomio tradizionale (lo storico e le fonti) ma
su un trinomio ( lo storico, le fonti, il loro rapporto reciproco) i cui termini si
pongono su un piano di assoluta parità
10
. Affinchè uno storico possa rompere la
staticità di una fonte è necessario che si sia dotato di un principio di organizzazione
tale da stabilire quella relazione reciproca con il soggetto della ricerca che permetta
il momento dell’interpretazione, « atto nel quale la risonanza emotiva instauratasi
tra lo storico e la fonte viene illuminata dal suo progetto intellettuale, dalle chiavi
di lettura che lo storico utilizza attingendo al complesso delle proprie ipotesi di
8
G. De Luna, op. cit., pag. 25
9
Ibidem
10
Ivi, pag. 28
lavoro e alle proprie capacità di elaborare concetti generali»
11
.
Questa trilateralità si avverte nel rapporto fra storico e cinema. Peppino Ortoleva
osserva che studiare il cinema comporta per lo storico il farsi interprete della verità
che una società, attraverso il racconto, dice su di sé, riconoscendo nel racconto
stesso non una miniera di informazioni, né un puro strumento del suo progetto
conoscitivo, ma l’espressione di un punto di vista che rimane altro rispetto al
proprio. Al fine di poter dialogare con questo “altro” lo storico deve innanzi tutto
lasciarsi invadere dall’”effetto cinema” alimentando una relazione conoscitiva da
“spettatore” che apprezzi, valuti, critichi il film in quanto “oggetto creato per dare
spettacolo”, integrandone la visione con una propria attività di elaborazione
12
.
L’intreccio dei media con la storia non si esaurisce una volta elaborate una
metodologia della ricerca e una teoria delle fonti. Infatti non è possibile definire
un’interpretazione unitaria del modo con cui la storia può essere raccontata
attraverso i media. Osserva De Luna: « Tradizionalmente, l’ordinamento del
materiale in forma scritta da parte degli storici si è sempre svolto attraverso le tre
tecniche di base della descrizione, della narrazione e dell’analisi tutte volte a
ricreare il passato e a interpretarlo. Schematicamente, alla descrizione si attribuisce
la capacità di evocare il passato, alla narrazione quella di raccontarlo suscitando
interesse e di spiegarlo attraverso una concatenazione di cause ed effetti che si
dipana in ordine cronologico; in realtà, al momento della spiegazione contribuisce
sempre più un’analisi attenta più che al movimento diacronico della storia al suo
sviluppo sincronico, alle connessioni esistenti tra eventi e processi simultanei.
Questo aspetto è quello ampiamente prevalente nei modelli narrativi tipici dei
media »
13
.
11
Ibidem
12
P. Ortoleva, op. cit., pag. 173 e ss.
13
G. De Luna, op. cit., pag. 31
3. Il documentario
Per iniziare un discorso sul documentario occorre darne subito una definizione.
Nonostante alcuni studiosi, fra cui Grierson che ne introdusse il termine,
definissero come documentari un vasto repertorio di testi filmici sulla base di una
loro presunta aderenza alla materia realistica, per poter entrare più a fondo nel
merito occorre fare riferimento ad una complessa area problematica
1
. La questione
principale riguarda il fatto che sotto la denominazione documentario sono state
fatte rientrare diverse realtà cinematografiche non omogenee fra di loro e di
conseguenza non è stato possibile individuare il documentario come genere bensì
come un insieme in base ad un determinato trattamento della realtà. Per iniziare la
ricerca di una definizione è bene fissare un modello di riferimento che si basa sulle
problematiche e i campi teorici che ci si troverà ad affrontare. Si possono
schematizzare in un insieme di rapporti che si possono raggruppare in tre
categorie
2
:
1) « Rapporto tra fiction e non fiction comprendente i problemi del
racconto e della istituzione di due grandi codici specializzati,
generalmente messi in paradigma (livello diegetico, attinente al
racconto) »
2) « Rapporto Cinema – Realtà, tipico problema centrale di tutte le
teorie del cinema, inscritto nella più generale problematica del
rapporto tra realtà e rappresentazione (livello linguistico) »
3) « Rapporto testo filmico – spettatore, già oggetto della teoria
filmologica implicante fondamentali questioni di ruoli e di strategie
1
Roberto Nepoti, Storia del documentario, Pàtron Editore, Bologna 1988, pag. 7
2
Ivi, pag. 9
discorsive che ha fornito alla semiopragmatica l’occasione di alcune
fra le più stimolanti indagini teoriche degli ultimi anni (livello
pragmatico)»
Al livello diegetico, Metz, noto semiologo, osserva che i film non narrativi si
distinguono dai veri film più per intenzionalità sociale e contenuto che non per i
loro procedimenti di linguaggio e che le grandi figure fondamentali della
semiologia del cinema ( montaggio, movimenti di macchina, scala dei piani,
sequenza, ecc.) conservano la loro identità nel cinema di non finzione. Sembra che
sul linguaggio dei segni la dicotomia fiction – non fiction sia basata su elementi
non determinanti e i criteri di differenziazione ( presenza del racconto,
discriminante dell’attore, ecc.) non sono risolutivi. « Piuttosto che nell’opposizione
fiction / non fiction, le marche differenzianti del documentario andranno ricercate
sul terreno del rapporto con la realtà e nei relativi modi di codificazione
linguistica»
3
.
A livello linguistico si indaga sul rapporto fra cinema e realtà. Questo rapporto
obbliga a addentrarsi nel delicato dibattito filosofico fra Reale/Immaginario,
Realtà/Rappresentazione, Vero/Falso. Queste problematiche tendono a confluire
sulla posizione di chi fa il film e su quanto sia possibile tendere, con la macchina
del cinema, a far coincidere il reale con la visione del reale che è il prodotto
dell’operazione cinematografica. E’ un dato di fatto che queste due realtà non sono
sovrapponibili, ma si può investigare su come l’autore ci restituisca la sua visione
di reale presa in considerazione. E’ proprio nel documentario che si riscontra la
tendenza più accentuata verso la coincidenza fra Realtà e sua Rappresentazione,
almeno nelle intenzioni di chi fa il documentario e che qui, parafrasando l’istanza
3
Ivi, pag. 11
narrativa di Metz definiremo istanza rappresentativa.
A livello pragmatico la nozione di punto di vista ci permette di affrontare in via
preliminare il problema del soggetto enunciatore del documentario. La locuzione
soggetto enunciatore non designa però dei soggetti empirici, ma il principio di
organizzazione inerente al testo e con esso denomineremo la nostra istanza
rappresentativa. Roger Odin propone una lettura documentarizzante durante la
quale il lettore del documentario non deve far coincidere l’ Enunciatore del film
col suo autore bensì con l’entità costruita presupponendo la realtà di questo
Enunciatore. Il fondamento della lettura documentarizzante, opposta a quella
“fictivizzante”, non sarebbe allora la realtà del rappresentato, ma quella
presupposta dell’Enunciatore. Gli Enunciatori reali del film possono essere ad
esempio la macchina da presa, il regista, l’operatore, ecc.. Il tipo di lettura
documentarizzante varierà al variare del tipo di Enunciatore reale scelto. L’atto di
lettura documentarizzante è un’operazione che mette in opera un sistema
interattivo a tre attanti: un film, una istituzione, un lettore
4
.
Del film, testo documentario, si legge: «Un documento che richiede di essere
sottoposto a una critica come prodotto linguistico socialmente e ideologicamente
determinato»
Dell’istituzione. « Vogliamo richiamarci a consegne istituzionali riguardanti
istituzioni culturali e ideologiche come quella storica, sociologica, pedagogica allo
stesso titolo della storia o della critica del cinema. Sinteticamente, l’istituzione
regola la costituzione dell’immagine del documentarista operata dallo
spettatore…»
Lettore, spettatore. «Lo spettatore dei documentari si vede negare l’accesso alle
intenzioni illocutorie del locutore, in modi da confrontare con ciò che accade nel
4
Ivi, pag. 18
mondo dichiaratamente immaginario del film di finzione (…) Come funziona il
procedimento di identificazione spettatoriale nei riguardi del documentario? Il
personaggio non si fa più carico di un programma narrativo aperto alla
identificazione spettatoriale, ma tende a diventare un oggetto fra gli altri dello
spazio rappresentato entrando nel film proprio nella misura del rapporto che
intrattiene con esso. Ciò determina uno spiazzamento nello spettatore che deve
trovare altre vie d’identificazione. Può venirci in soccorso la distinzione di Metz
tra identificazione cinematografica primaria e secondaria. Non essendoci nei
documentari l’identificazione secondaria dovuta alla presenza di attori in un
contesto narrativo-romanzesco, lo spettatore non può fare altro che identificarsi
con la macchina da presa. (…) Lo specchio è il luogo dell’identificazione primaria.
L’identificazione del proprio sguardo è secondaria rispetto allo specchio ma essa è
alla base del cinema e quindi primaria quando si parla del cinema».
Metz elegge a corpus privilegiato della sua ricerca i film narrativi in quanto
sostiene che l’incontro fra cinema e narratività ha condizionato in maniera
determinante l’evoluzione semiologica del film e ridotto il documentario e gli altri
insiemi non narrativi ad aree periferiche
5
. Ma in verità è più probabile che egli
omologhi tutti i generi del cinema in una forma di irrealtà alla cui base sembra
risiedere una comune natura di storie e anche le storie vere, quelle raccontate ad
esempio dai cinegiornali, subiscono l’influenza di questa forma di irrealtà. Va
infatti considerato pienamente reale soltanto l’hic et nunc. « Ora, il racconto, con la
sua stessa apparizione, provoca la defezione del nunc (racconti della vita correntte)
o quella dell’hic (servizi in diretta della televisione) e più spesso quella di
entrambi». La teoria di Metz si basa su cinque grandi sistemi di codificazione:
5
Ivi, pag. 118
1) «La percezione, che costituisce già un livello di intellegibilità culturalmente
acquisito;
2) il riconoscimento e l’identificazione degli oggetti visivi o sonori che appaiono
sullo schermo;
3) l’insieme dei simbolismi e delle connotazioni preesistenti al testo;
4) l’insieme delle strutture narrative, che ricorrono in ogni racconto presente in
una cultura;
5) l’insieme dei codici cinematografici veri e propri, che organizzano in discorso
gli elementi forniti dalle quattro precedenti istanze.»
6
Metz, per quanto riguarda l’ultima categoria, distingue tra codici cinematografici
generali e codici cinematografici particolari. Con la prima espressione si indicano
quelle istanze sistematiche proprie del grande schermo e che sono comuni a tutti i
film. I codici cinematografici secondari riuniscono i tratti di significazione che
appaiono solo in certe classi di film. Questi ultimi emergono nei film di genere,
come i western o il noir, ma si riferiscono anche a gruppi di film come quelli di un
singolo cineasta o di una stessa scuola. Per gruppi di film si intendono o un
insieme di film in cui appare sistematico un utilizzo di un certo codice
cinematografico particolare oppure tutti i film di un autore, di una scuola, di un
genere, nei quali agisce una pluralità di codici cinematografici ed extra
cinematografici particolari, come un testo unico.
Gilles Deleuze ha criticato l’impianto metodologico di Metz circa i rapporti tra
cinema e linguaggio: secondo quest’autore il sistema delle immagini non è una
lingua né un linguaggio, è una materia non formata linguisticamente ma che ha la
caratteristica di essere enunciabile.
6
Ivi, pag. 119