della Sera, di area liberale, e Repubblica, di area progressista. Sono
stati presi in considerazione queste due testate perché esprimono una
linea di pensiero attenta ad evitare “estremizzazioni” e che
sicuramente non accetterebbero di essere etichettati come quotidiani
faziosi o (come vedremo invece accadere) razzisti.
Accanto a questi due quotidiani sono stati aggiunti Il Giornale e,
soprattutto da Libero, due testate giornalistiche allineate su posizioni
dichiaratamente di destra e, quindi, probabilmente più dure
nell’attaccare dal punto di vista mediatico qualsiasi oppositore
all’operato militare occidentale in Iraq. In modo da avere un ipotetico
“ampio spettro” di posizioni e modalità di trattazione della guerra,
che vada da quelle di due testate “moderate” a quelle di un
quotidiano più palesemente schierato.
Parallelamente all’analisi della trattazione mediatica della guerra, ho
cercato di esaminare come gli stessi quotidiani presi in
considerazione trattassero il tema dell’immigrazione, per rivelare
eventuali analogie tra la rappresentazione del popolo iracheno
(quello che ho definito il “nemico esterno”) e degli immigrati (i
“nemici interni”).
L’ipotesi che vorrei qui dimostrare, infatti, è che il bombardamento
reale verso i popoli e i paesi arabi (e più in generale del sud del
mondo) è stato preceduto ed accompagnato da un legittimante
“bombardamento” mediatico e come questo duplice attacco altro non
sia che l’altra faccia della medaglia dell’attacco mediatico,
legislativo e repressivo, nei confronti dei lavoratori immigrati in
Italia; il “nemico esterno” verso il quale si concentra la propaganda
di guerra dei mezzi di informazione di massa è legato ad un
corrispettivo “nemico interno” dipinto in maniera razzista sui nostri
quotidiani.
Una seconda questione che vorrei evidenziare nella mia trattazione è
come, seppur secondo modalità espressive e formali
(apparentemente) differenti, tutti i quotidiani analizzati, nonostante
siano allineati secondo diverse “direttrici ideologiche”, propongano
le stesse conclusioni veicolando un messaggio comune riguardo a
2
immigrazione e guerra all’Iraq, rendendo fittizio quell’“ampio
spettro” di opinioni a cui accennavo.
In definitiva, dunque, l’ipotesi che questa indagine si propone di
verificare è che la distorsione faziosa della realtà da parte dei mass
media non sia casuale, ma frutto di una precisa politica
dell’informazione finalizzata a legittimare la politica imperialista
delle nazioni occidentali, “creando” il necessario consenso
dell’opinione pubblica.
Inizio la mia indagine andando ad approfondire le cause reali,
economiche e strategiche, che soggiacciono all’aggressione
imperialista contro l’Iraq e il contesto storico nel quale questa si
inserisce; successivamente, passo ad una riflessione sulle modalità e
le funzioni del pensiero razzista per poi arrivare ad indagare le
strategie propagandistiche dei mezzi di informazione. La parte più
corposa di questo lavoro, invece, è costituita da una sorta di
“rassegna stampa” dei quotidiani esaminati.
Il lavoro da me svolto non ha assolutamente la pretesa di essere
esaustivo (dato che purtroppo il “materiale” tratto dai quotidiani
certamente non manca), spero, invece, di poter offrire un umile e
limitato punto di partenza per quanti vogliano affrontare uno studio
più approfondito.
L’analisi che presento è di tipo qualitativo, non pongo l’attenzione
sugli aspetti quantitativi della questione (quanti articoli vengono
pubblicati su un determinato argomento, alcune ricorrenze, etc.),
quanto sulle modalità rappresentative e lo “stile” con cui vengono
raccontate le notizie, i punti di vista che vengono assunti, il
linguaggio utilizzato ed altri aspetti che rendano possibile una lettura
critica del testo mediatico, che decostruisca e denunci una
rappresentazione preconfezionata e della realtà
1
.
1
“La critica non è una passione del cervello, essa è il cervello della passione. Essa non è un coltello
anatomico, è un'arme. Il suo oggetto è il suo nemico, che essa non vuole confutare bensì annientare.
(…)Essa non si pone più come fine a se stessa, ma ormai soltanto come mezzo. Il suo pathos essenziale
è l'indignazione, il suo compito essenziale è la denuncia.” K. Marx in Per la critica della filosofia del
diritto di Hegel. (Introduzione)
3
1. L’Iraq nell’orbita statunitense
1.1 Così era allora…
Durante le amministrazioni dei presidenti Truman ed Eisenhower, gli
Stati Uniti erano impegnati in una diffusa campagna di propaganda
in Medio Oriente
1
atta ad inglobare la regione in un’alleanza
antisovietica.
L’operato della politica degli U.S.A. svolgeva una duplice funzione:
mantenere il controllo sulle risorse petrolifere della regione e limitare
l’insorgere del movimento nazionalista arabo e delle simpatie
comuniste che spingevano molti paesi arabi ed ex coloniali ad
appoggiare l’Unione Sovietica.
Per concretizzare questi obbiettivi la CIA appoggiò nel 1953 un
colpo di stato in Iran rovesciando un presidente democraticamente
eletto, Mohammed Mossadegh, che ebbe la malaugurata idea di
nazionalizzare il petrolio del paese, andando ad intaccare gli interessi
economici dei gruppi petroliferi statunitensi.
2
Lo scià dell’Iran
instaurato al governo dagli Stati Uniti aveva, secondo i rapporti di
Amnesty International, “il tasso più alto di condanne a morte, nessun
sistema di giustizia efficiente ed una storia di torture incredibile.
L’intera popolazione è sottoposta ad un terrore continuo,
onnipresente
3
.”
L’allora presidente degli U.S.A., Jimmy Carter (nobel per la pace nel
2002), invece, condannando gli abusi sui diritti umani perpetrati dai
sovietici, lodava in pubblico l’Iran dello scià come “un’oasi di
stabilità in una delle zone più turbolente del mondo” ed incrementava
1
Le definizioni “Vicino, Medio ed Estremo Oriente” appartengono al lessico della tradizione
colonialista. Nonostante ciò, li adotterò nella mia trattazione perché non facilmente sostituibili.
I rapporti di tipo coloniale fra le Nazioni non sono mutati quindi, di conseguenza, nemmeno il
linguaggio della geografia coloniale, essendo il linguaggio il riflesso della realtà che rappresenta.
Cfr. E. W. Said, Orientalismo, l’immagine europea dell’Oriente, Bollati Boringhieri, Torino, 1991.
2
Cfr. S. Rampton-J. Stauber, Vendere la guerra. La propaganda come arma d’inganno di massa, Nuovi
Mondi Media, Bologna, 2004.
3
Cfr. Matchbox, pubblicazione di Amnesty International, Autunno 1976.
4
le forniture di armi “made in U.S.A.” all’Iran senza minimamente
condannare i suoi incredibili abusi.
La forte militarizzazione del regime iraniano ad opera del governo
statunitense, la spietata repressione e la corruzione interne al paese,
provocarono un’ondata di malcontento e una generale volontà di
riscatto economico-sociale che sfociarono nel 1979 in una
sollevazione popolare esplicitamente anti-statunitense che portò
all’occupazione, da parte degli studenti iraniani, di un’ambasciata
U.S.A.; i piani di controllo dell’area da parte delle forze statunitensi
vennero così stravolti.
Da questo momento in poi Washington inizierà a vedere Baghdad
sotto una diversa luce. Per gli Stati Uniti era di vitale importanza
riuscire a trovare un sostituto dello scià nella regione.
L’amministrazione statunitense vide in Saddam Hussein un prezioso
alleato contro “l’estremismo militante sciita”, l’espansionismo
sovietico e l’Iran di Khomeini, definito “nemico numero uno” nella
regione mediorientale. Si temeva infatti che il dissenso anti-
statunitense (fino a quel momento abilmente manovrato da Khomeini
in senso reazionario) potesse sfociare in una trasformazione sociale
più radicale, effettivamente rivoluzionaria ed anticapitalista, che
mettesse in discussione l’imperialismo a stelle e strisce. L’Islam
fungeva da collante sociale e centro di aggregazione popolare, per
questo motivo veniva visto come minaccia. Sin dall’instaurazione al
potere dello scià, nel 1953, infatti le moschee furono sempre state
centri di resistenza al regime, riuscendo a sfuggire alla repressione.
Al nuovo alleato non mancavano ambizione e ferocia, come ha
dimostrato a più riprese nel portare avanti la repressione interna
contro gli oppositori al regime, i comunisti, i partiti kurdi, i partiti
religiosi. D’altra parte, però, proprio questa sua ambizione lo rendeva
sospetto agli occhi degli americani. Egli infatti, mosso da desideri
contraddittori, voleva accattivarsi le simpatie e la fiducia di
Washington, ma allo stesso tempo perseguiva una propria
legittimazione innanzi al mondo arabo. Uno scudo contro l’Iran
avrebbe, infatti, fatto comodo anche all’Arabia Saudita ed agli altri
5
stati del Golfo, che vedevano la sollevazione iraniana come
un’infezione che avrebbe potuto propagarsi a danno delle èlites
economiche e dei governi della regione.
Washington e Baghdad si usavano reciprocamente per fare ciascuno i
propri interessi.
Saddam Hussein iniziò ad esigere l’accesso alla tecnologia
americana di cui godeva anche Israele e che garantì a questo paese
uno degli arsenali e degli eserciti meglio equipaggiati dell’intero
Medio Oriente. I tentativi dell’Iraq di aver accesso alle armi prodotte
negli Stati Uniti erano tuttavia ostacolati dal fatto che il regime di
Saddam risultava sulla lista dei paesi che “sostenevano il
terrorismo”. Con un capolavoro di diplomazia il presidente
statunitense Carter riuscì, nel luglio del 1980, ad aggirare
l’opposizione del congresso e quindi a vendere a Baghdad cinque
Boeing.
Ronald Regan vinse le elezioni del 1980 sconfiggendo Jimmy
Carter, e subito diede il pieno appoggio all’Iraq nel tentativo di
sottrarre all’Iran un importante canale nel golfo Persico per
l’esportazione di petrolio di entrambi i paesi. Successivamente lo
stesso Regan, nel 1982, cancellerà l’Iraq dalla lista dei paesi che
appoggiano il terrorismo. L’Iraq, nello stesso anno, acquistò con il
beneplacito della CIA elicotteri americani pagati con il petrolio
attraverso la mediazione di diverse società energetiche statunitensi.
Le industrie di materiale bellico statunitensi si ritroveranno unite nel
sostenere Saddam.
L’Iraq iniziò così una folle corsa agli armamenti che, come vedremo,
trascinerà l’intero paese nell’abisso
4
, acquistando la tecnologia più
sofisticata direttamente dai nuovi alleati americani. Nei mesi
precedenti il settembre del 1980 ci fu un contratto tra Iraq e Italia
riguardo la vendita di equipaggiamenti contenenti componenti
americani. Le maggiori potenze occidentali facevano a gara per avere
come partner commerciale privilegiato il regime di Saddam Hussein:
4
Cfr. S. Rampton-J. Stauber, op. cit.
6
tra i maggiori sostenitori di Baghdad figuravano U.S.A., Francia,
Cina, Brasile, Egitto, Italia e Sudafrica.
Khomeini dall’Iran, accusando l’Iraq di essere un “governo satanico”
che reprimeva gli sciiti, la maggioranza della popolazione irachena,
chiamava il popolo a prendere il potere con la forza, un’eventualità
che terrorizzava gli Stati Uniti, l’Iraq e gli altri paesi del Golfo.
Il 17 settembre del 1980 l’Iraq abrogò il patto sulle frontiere stipulato
con l’Iran nel 1975 e con il pretesto di rivendicare alcuni diritti
territoriali Saddam Hussein diede l’ordine di invadere l’Iran.
Le relazioni tra Washington e Baghdad migliorarono sensibilmente:
nella chiave di lettura statunitense del conflitto con l’Iran, l’Iraq non
figurava come aggressore; vennero concessi prestiti per miliardi di
dollari a favore di Baghdad.
Per gli U.S.A. l’Iraq passò così da nazione sostenitrice del terrorismo
a partner privilegiato contro il terrorismo. Il Pentagono e la CIA
premevano sugli alleati filo-statunitensi affinché sostenessero in
maniera sempre più consistente (il che significa con prestiti, armi e
risorse energetiche) Saddam e scoraggiarono qualsiasi appoggio a
Teheran, grave minaccia per gli Stati Uniti oltre che per le monarchie
petrolifere.
L’esercito di Saddam sferrò l’attacco all’Iran con truppe di terra e
tramite l’aviazione. Il governo iracheno immaginava di trovare un
Iran in balia del caos post-rivoluzionario; non fu così.
Khomeini sapeva che per difendere la rivoluzione doveva
riorganizzare l’esercito, e per questo l’Iran non si fece trovare
impreparato
5
.
La resistenza iraniana fece fallire le speranze di una vittoria irachena
rapida ed indolore. Entrambe le parti erano in possesso di arsenali
sofisticatissimi ed armi micidiali: l’Iraq disponeva ancora di armi
sovietiche oltre che, ovviamente, del supporto bellico statunitense;
l’Iran aveva ancora gli arsenali colmi di armi acquistate dal loro
precedente re dagli U.S.A.
5
Il Financial Times di Londra riportò che gli USA passarono informazioni segrete satellitari al regime
di Hussein tramite paesi terzi, portando l'Iraq a credere che le forze iraniane sarebbero velocemente
collassate se attaccate.
7
Ne scaturì uno scontro sanguinoso che durò otto anni, portando al
logoramento ed all’indebolimento di entrambi i paesi, conclusosi
nell’agosto del 1988 con grande rammarico dei mercanti d’armi e dei
paesi fornitori occidentali. Il numero delle vittime fu più di un
milione e le conseguenze economiche e sociali furono devastanti sia
per l’Iraq che per l’Iran.
6
Dietro le quinte di questo conflitto si intravedevano le mani degli
Stati Uniti e dell’Inghilterra a sostegno dell’Iraq, mentre Siria, Libia
e in parte Israele, appoggiavano l’Iran. Gli U.S.A., però, portavano
avanti una politica fatta di doppi giochi
7
: quando Teheran sembrava
soccombere, autorizzavano la vendita di armi all’Iran attraverso la
copertura di Israele; quando Baghdad pareva prossima alla sconfitta,
incoraggiavano la Francia a stipulare contratti riguardanti materiale
bellico con l’Iraq
8
. Gli Stati Uniti che avevano appoggiato ed armato
l’Iraq, segretamente spingevano i due paesi uno contro l’altro, con il
beneplacito delle maggiori potenze occidentali ed europee in primis
9
.
In questo modo, alla fine del conflitto, nessuno poteva dirsi vincitore
della guerra, ed entrambi i paesi risultarono indeboliti, le loro
economie erano in crisi, l’Iraq era sovrarmato ma indebitato con tutte
le maggiori potenze europee e con gli stessi Stati Uniti.
Questa situazione faceva comodo a molti, primi su tutti gli U.S.A.
che mettevano in pratica il vecchio, ma sempre valido ed efficace,
principio del divide et impera: Henry Kissinger, allora Segretario di
Stato U.S.A., dichiarò crudamente alla luce del sole: “vogliamo che
continuino ad ammazzarsi tra loro il più a lungo possibile”.
La fine della guerra non sembrò decretare anche la fine della luna di
miele tra Stati Uniti e Iraq, soprattutto quando Washington presentò
il conto a Baghdad. Saddam si sforzò di rassicurare i propri creditori
e gli americani non apparivano inquieti: dopo il conflitto le loro
esportazioni verso l’Iraq compirono un enorme balzo in avanti,
6
Cfr. T. Ali, Bush in Babilonia. La ricolonizzazione dell’Iraq, Fazi, Roma, 2004; P. J. Luizard, La
questione irachena, Feltrinelli, Milano, 2003.
7
Nel 1983, un ufficiale Usa dichiarò, “Non ce ne frega niente fintanto che la carneficina Iran-Iraq non
tocca i nostri alleati o altera l'equilibrio del potere.” (Cfr. Dilip Hiro, The Longest War: The Iraq-Iran
Military Conflict, Routledge, New York, 1991. p. 121).
8
Cfr. Nota 6.
9
Si vedano i siti http://www.zmag.org e www.rwor.org
8
facendo di questo paese il mercato più grosso; gli esportatori
industriali americani venivano incoraggiati dal loro governo a
stipulare nuovi contratti in Iraq, soprattutto per armi e prodotti di alta
tecnologia.
Alla fine del 1988 gli U.S.A. risultavano essere i maggiori acquirenti
del petrolio iracheno, i rapporti tra Iraq e U.S.A. erano ottimi, e nè
Regan, nè successivamente Bush, vollero rovinare tutto per qualche
dissidente al regime gassato o passato per le armi. Gli Stati Uniti
erano ben a conoscenza dei metodi sanguinari utilizzati da Saddam
Hussein nei confronti del suo popolo e durante la guerra con l’Iran, e
furono proprio loro a sostenerlo, anche materialmente ed
economicamente, nel suo operato.
Un piano segreto elaborato dal Pentagono, infatti, prevedeva che gli
ufficiali della Dia (Defense Intelligence Agency) fornissero al
comando iracheno foto satellitari delle forze iraniane con le
indicazioni degli obbiettivi da colpire attraverso l’aviazione
10
.
Questo supporto alla progettazione delle battaglie continuò, senza
problemi, anche dopo che il Pentagono accertò l’uso di armi
chimiche da parte di Baghdad
11
. Scomode verità per l’attuale
amministrazione Bush, soprattutto se si sottolinea che Colin Powell,
Segretario di Stato U.S.A. fino al 2004, era all’epoca consigliere per
la sicurezza nazionale e che l’allora presidente U.S.A., nonché padre
dell’attuale presidente George W. Bush, ne era vicepresidente.
Sotto le pressioni di Washington anche il Kuwait e l’Arabia Saudita
aiutarono Saddam Hussein nella guerra all’Iran di Khomeini,
10
Il Times del 18 agosto 2002, nell’articolo intitolato “Ufficiali affermano che gli Usa aiutarono l'Iraq
nella Guerra nonostante l'uso del gas”, ha riportato che, secondo alti ufficiali militari con conoscenza
diretta del programma segreto, gli ufficiali Usa "fornirono all'Iraq assistenza nella pianificazione critica
della battaglia al tempo quando le agenzie di intelligence americane sapevano che i comandanti iracheni
avrebbero usato armi chimiche per intraprendere le battaglie decisive della guerra Iran-Iraq. (…) Più di
60 ufficiali della Defense Intelligence Agency (DIA) fornivano segretamente all'Iraq informazioni
dettagliate sugli spiegamenti iraniani, pianificazione tattica per le battaglie, piani per attacchi aerei e
stime dei danni delle bombe”.
11
Questo programma del Pentagono continuò anche quando divenne chiaro che l'esercito iracheno
“aveva integrato armi chimiche nel suo arsenale e li stava aggiungendo ai piani di attacco che i
consiglieri americani avevano preparato o suggerito”. L'ovvia implicazione è che i piani Usa furono
disegnati essendo a conoscenza che l'Iraq avrebbe usato armi chimiche.
B. Woodward, sul Washington Post del 12 maggio 1986, riportò quanto segue: “nel 1984 la CIA
cominciò a fornire intelligence all'Iraq che la usò per ‘calibrare’ i suoi attacchi all'iprite contro le truppe
iraniane. E' stimato che 50.000 iraniani furono uccisi dalla guerra al gas degli iracheni.
9
soprattutto attraverso ingenti prestiti destinati all’acquisto di
materiale bellico
12
.
Washington, quindi, affondava sempre più l’Iraq nell’indebitamento
per poter tenere in pugno il regime; in questo modo gli affari
potevano durare più a lungo e Saddam Hussein risultava in pratica un
fantoccio nelle mani degli U.S.A., anche se, ora che il “pericolo
islamico” era stato ridimensionato dalla potenza militare irachena e
dal conflitto, proprio il fornitissimo esercito di Saddam poteva
diventare una minaccia per i piani degli U.S.A. nella regione.
Nel periodo che va dal 1958 al 1980 la ricchezza petrolifera aveva
consentito al regime iracheno di realizzare un fiorente stato
assistenziale e gli investimenti del governo nelle scuole, nella sanità,
nell’agricoltura, nell’irrigazione e in altri settori avevano contribuito
al costante innalzamento dello standard di vita dei cittadini
13
. Gli otto
anni di guerra contro l’Iran cominciarono però a mettere in
discussione tutte queste conquiste: le risorse economiche del paese
furono concentrate nell’espansione dell’organico militare prima,
nella ricostruzione poi
14
.
L’Iraq del dopoguerra presentava un enorme debito estero di 70
miliardi di dollari. Baghdad aveva bisogno di rilanciare la propria
economia, fare fronte alla crisi e pagare i suoi debiti con i paesi
dell’Occidente che avevano soffiato sul fuoco del conflitto. Avendo
necessità di entrate, Baghdad sollecitò il Kuwait al condono dei
prestiti ricevuti per condurre anche a suo nome la guerra contro
l’Iran; lo accusò inoltre di essersi collegato ad un giacimento
petrolifero iracheno e, soprattutto, di praticare una politica petrolifera
12
Un ufficiale della DIA ha detto al Times che il Pentagono “non era così impressionato dall'uso del gas
da parte dell'Iraq. Era solo un altro modo per uccidere la gente, se con un proiettile o il fosfogene, non
faceva nessuna differenza.” Un altro ufficiale dell'intelligence americana ha detto che “L'uso del gas sul
campo di battaglia da parte degli iracheni non fu una questione di profonda preoccupazione strategica”.
Il Times continua: “Ciò che preoccupava gli aiutanti del sig. Reagan, disse, era che l'Iran non superasse
la Penisola di Fao e allargasse la rivoluzione islamica al Kuwait ed all'Arabia Saudita”. (Cfr. Times, 18
agosto 2002)
13
Cfr. S. G. Brown-C. Toensing, Perchè un’altra guerra? Informazioni di base sulla crisi irachena, in
AA.VV., Iraq. Da una guerra all’altra. Sintesi storica con alcuni approfondimenti, Guerra&Pace
dossier, Milano, 2003.
14
Cfr. AA.VV., Iraq. Da una guerra all’altra. Sintesi storica con alcuni approfondimenti, Guerra&Pace
dossier, Milano, 2003.
www.mercatiesplosivi.com/guerrepace
10
al ribasso, giudicata un atto di guerra economica nei confronti
dell’Iraq, la cui ricchezza proveniva quasi interamente dal petrolio. Il
Kuwait, da parte sua, esigette invece l’immediato rimborso del debito
contratto da Baghdad nella sua corsa agli armamenti, sentendosi
protetto dal potente alleato americano.
Saddam, disponendo ancora di un arsenale sofisticatissimo, pensò
quindi di annettere il Kuwait per risollevare la propria economia; era
amico dell’Occidente ed avrebbe dimostrato al mondo arabo che era
il più forte.
Invitò quindi l’ambasciatore degli Stati Uniti in Iraq per un colloquio
in cui gli illustrò la situazione tra Iraq e Kuwait come ormai prossima
alla rottura a causa della politica petrolifera kuwaitiana. Evidenziò
come l’emirato vendesse il greggio imbrogliando l’OPEC, e come gli
iracheni soffrissero economicamente per questo modo di gestire gli
affari.
L’ambasciatore statunitense in Iraq, April Glaspie, che possedeva
un’ottima conoscenza dell’arabo e non necessitava di alcun aiuto da
parte di interpreti, diede una risposta quantomeno ambigua e
sibillina. Riferì, cioè, che le controversie interterritoriali del mondo
arabo non interessavano agli Stati Uniti e che queste dovevano essere
risolte dalle parti in causa: il problema era da regolare in ambito
arabo
15
.
Così come gli U.S.A. non hanno mai dato un via libera esplicito
all’Iraq per attaccare l’Iran, pur avendolo sostenuto in tutti i modi,
ugualmente non hanno permesso ufficialmente a Baghdad di
annettersi il Kuwait, ma nemmeno fatto intendere una loro posizione
contraria. Gli Stati Uniti e i loro ambasciatori tuttavia conoscevano
benissimo la situazione nella quale si trovava l’Iraq e le intenzioni di
Baghdad, ed il colloquio che ebbero Saddam Hussein e April Glaspie
lasciava pochi dubbi sui preparativi dell’attacco iracheno.
Bastava la mancanza di un segnale da parte degli U.S.A. perché
Saddam si sentisse legittimato o quantomeno non osteggiato nel suo
operare, perché, sicuramente, se ci fosse stato il benché minimo
15
Cfr. T. Ali, op. cit.
11
sentore di un’opposizione, Saddam avrebbe desistito e negoziato con
l’emirato piuttosto che gettarsi in un’impresa suicida contro gli
U.S.A.
Saddam Hussein stava per cadere nella trappola. Gli Stati Uniti,
infatti, iniziavano a temere la crescente potenza irachena che
ritenevano costituisse ormai una minaccia per i loro interessi e per
quelli dei loro alleati storici nel Medio Oriente. Volevano, quindi,
indurre Saddam ad un passo falso utilizzabile come pretesto per
affermare e ribadire con la forza l’egemonia occidentale, e
soprattutto statunitense, in una regione economicamente e
strategicamente importantissima.
Il 2 agosto 1990 centomila soldati di Saddam invasero il Kuwait ed
occuparono i giacimenti petroliferi nonostante la maggior parte della
popolazione irachena fosse profondamente contraria, come lo
dimostravano numerose ed imponenti manifestazioni
antigovernative
16
. Inoltre vi era un flusso crescente di disertori fra la
popolazione, tanto che numerose divisioni dell’esercito stanziate in
Kuwait furono circondate dal filo spinato perché non se ne andassero
dal fronte di una guerra che non sentivano propria
17
.
I media occidentali improvvisamente dipinsero un quadro terrificante
del regime iracheno; Saddam Hussein, fino a pochi mesi prima un
affidabile alleato (solo nove mesi prima dell’invasione irachena al
Kuwait, l’allora presidente Bush firmò una direttiva top-secret che
ordinava di ampliare i legami con Baghdad stanziando nuovi aiuti
per un miliardo di dollari) divenne “l’Hitler iracheno” e il corrotto
sceiccato obbediente alle politiche U.S.A. fu descritto come il
“piccolo e coraggioso Kuwait”
18
.
L’Iraq, secondo i mass media, avrebbe disposto del terzo esercito del
mondo, si sarebbe presto dotato dell’arma atomica, ci si ricordò di un
fantomatico “cannone gigante” capace di minacciare non solo
16
Cfr. I. Salucci, al-Wathbah (Il salto). Movimento comunista e lotta di classe in Iraq
(1924-2003), La Giovane Talpa, Milano, 2003.
17
ibidem.
18
Cfr.T. Ali, op. cit.
12