violato
1
. La teoria della guerra come male minore può essere formulata in questi
termini: in quanto male, la guerra si contrappone ad un bene; il bene cui la guerra
si contrappone è la pace; ma la pace può, sempre e comunque, essere considerata
come il bene supremo? Se questa viene considerata non il bene supremo, ma un
bene tra altri beni quali possono essere la libertà, l’onore nazionale, la religione o
anche il benessere, e come tale non è un fine assoluto, ma subisce a seconda delle
diverse aspirazioni soggettive, la concorrenza con altri fini, si pone la premessa
per sostenere che la guerra, essendo il contrario della pace, non è un male
assoluto, ma è un male la cui gravità deve essere di volta in volta valutata e messa
a raffronto con la gravità dei mali concorrenti. Non si può escludere che attraverso
questa valutazione una guerra possa essere considerata preferibile, o persino
desiderabile, quando si ritenga che il ricorso ad essa, malgrado comporti la perdita
del bene considerato in tale circostanza minore (la pace) serva ad evitare la perdita
del bene in quella circostanza ritenuto maggiore (libertà, onore nazionale e via
dicendo).
Considerando invece la guerra come male necessario, essa è sì un male, ma un
male da cui nasce un bene. L’interdipendenza tra questi due valori è tale che senza
quel male non ci potrebbe essere quel bene. Siffatta teoria della guerra è un
aspetto di tutte quelle concezioni del progresso storico, per le quali il progresso è
il prodotto di un movimento dialettico di affermazione e negazione e, più in
generale, di ogni filosofia della storia che concepisce ogni forma di antagonismo e
di conflitto, anche armato, anche l’antagonismo che degenera in guerra, come un
elemento indispensabile del progresso umano. Riguardo ai vantaggi che la guerra
reca all’umanità, le opinioni sono diversissime: ora è nuova fonte di energie vitali,
ora è una sferzata dell’ingegno, ora uno stimolo della virtù.
Chi non si accontenta di vedere nella guerra un male da cui nasce un bene, esalta
la guerra stessa come un bene, come un valore positivo, il valore per eccellenza,
spingendosi addirittura a qualificarla divina. Una simile concezione della guerra è
1
Il discorso relativo alle principali teorie elaborate per giustificare il ricorso alle armi è tratto da
Norberto Bobbio, Il Terzo assente: saggi e discorsi sulla pace e la guerra, a cura di Pietro Polito,
edizioni Sonda, Milano 1989, ved. Introduzione; si veda anche, sempre di Bobbio, Il problema
della guerra e le vie della pace, II, saggio diritto e guerra, pp. 99-118.
7
stata sostenuta da più parti; sentiamo ad esempio, alcuni versi di De Maistre: « la
guerra è divina in sé, perché è una legge del mondo[…] La guerra è divina nella
gloria misteriosa che la circonda, e nell’azione inspiegabile che ci spinge verso di
essa ». Si può anche citare il democratico Proudhon: « Viva la guerra! È per essa
che l’uomo, appena uscito dal fango che gli fa da matrice, si erge nella sua maestà
e nel suo valore…»; ma si consideri anche l’inquietante inno lanciato dal Papini,
all’avvicinarsi della prima guerra mondiale: «L’avvenire, come gli antichi dei
delle foreste, ha bisogno di sangue sulla sua strada. Ha bisogno di vittime umane,
di carneficine […]. Il sangue è il vino dei popoli forti […]. Abbiamo bisogno di
cadaveri per lastricare le strade di tutti i trionfi». Per ultima prendo in
considerazione la teoria prescelta come oggetto di discussione del presente lavoro,
ossia la teoria della guerra giusta. Si tratta di una delle più celebri giustificazioni
della guerra, che si fonda sulla distinzione tra guerre giuste e ingiuste, per secoli
accolta dai teorici del diritto internazionale. Il procedimento logico sotteso alla
teoria è la distinzione tra due classi di guerre: non tutte le guerre sono eguali, e
quindi non sono tutte egualmente condannabili; ma vi sono guerre ingiuste, e
quindi condannabili, e guerre giuste, e quindi approvabili. Ad esempio giuste, e di
conseguenza lecite, sono considerate le guerre sostenute per legittima difesa;
ingiuste, e di conseguenza illecite, sono considerate quelle di aggressione o di
conquista. Il criterio della distinzione è dettato dal diritto naturale, del quale è
regola fondamentale quella che prescrive la conservazione della vita, e prima
regola derivata quella che, autorizzando gli uomini a fare tutto ciò che è in loro
potere per la conservazione della loro vita, giustifica l’uso della forza per
rispondere alla forza (vim vi repellere licet). E poiché ovunque si introducono
regole, si stabiliscono criteri di qualificazione dei fatti come leciti o illeciti, dalla
regola che autorizza l’uso della forza per rispondere alla forza deriva la possibilità
di qualificare normativamente la forza ora come lecita, ora come illecita
secondochè sia volta a violare un diritto o a restaurarlo. Possiamo considerare il
problema anche da un altro punto di vista, ossia quello del rapporto della guerra
col diritto. Parlando di guerra giusta dovremmo considerare la guerra come mezzo
del diritto, dove il termine diritto viene considerato nell’accezione di giusta
8
pretesa da far valere contro il recalcitrante, anche ricorrendo alla forza, quindi si
parla di diritto soggettivo. Il diritto, nella sua accezione più lata, può essere
definito come l’insieme delle regole per l’ordinamento pacifico di un gruppo
sociale. Ma la società umana è composta (ancora?) da molti gruppi umani. Questi,
venendo in contrasto tra loro si trovano spesso ad avanzare pretese gli uni verso
gli altri; uno dei modi per far valere una pretesa, una volta che siano stati
inutilmente esperiti mezzi di pressione psicologica o trattative, è la violenza
organizzata, cioè la guerra. Quando la pretesa che un gruppo fa valere nei
confronti dell’altro è una legittima pretesa, una giusta pretesa (dove giusto e
legittimo sono sinonimi) la guerra condotta allo scopo di farla valere diventa un
mezzo per realizzare il diritto. Vi sono due modi per risolvere i conflitti: o la
persuasione o la forza. Quando un conflitto sorge tra due gruppi organizzati, la
forza risolutiva è la guerra. Dunque la guerra, come strumento di risoluzione di
una controversia, diventa uno dei mezzi per raggiungere il risultato cui tende il
diritto. Nella prospettiva della guerra-mezzo il problema di fondo è stabilire se vi
siano giuste pretese di uno stato verso l’altro, pretese cioè la cui soddisfazione ha
per risultato la restaurazione o l’instaurazione di un diritto, e quali siano. Alla
discussione di questo problema è stata appunto rivolta la teoria della guerra giusta,
che ha rappresentato per secoli uno dei principali capitoli della teoria del diritto
internazionale e che, abbandonata nel XIX secolo, fece la sua riapparizione, senza
più diventare tuttavia communis opinio, dopo la fine della prima guerra mondiale.
Di fronte al problema della giustificazione della guerra, la teoria della guerra
giusta costituisce una posizione intermedia tra le teorie pacifiste che considerano
ogni guerra, in quanto atto di violenza, illecita, e le teorie bellicistiche, che
considerano ogni guerra, come atto di un potere sovrano, lecita. Storicamente
questa teoria è stata sostenuta, in un primo tempo, in polemica con il pacifismo
cristiano delle origini, per cui bellare era semper illicitum. In seguito, dopo la
prima guerra mondiale, ha cambiato avversario, ergendosi contro le teorie
bellicistiche, derivanti dalla glorificazione dello stato-potenza e che avevano
trovato il loro naturale alleato nel positivismo giuridico esteso da ultimo anche al
diritto internazionale: In questo suo duplice impiego polemico la teoria della
9
guerra giusta mostra la sua natura di teoria intermedia tra due estremi. Non
sempre i sostenitori di tale teoria furono concordi nell’elenco delle iustae causae
di guerra, cioè di quelle cause che rendevano la guerra giusta o legittima: vi
furono i più rigoristi, che lambivano le sponde del pacifismo, e i più lassisti che
invece finivano per confondersi con i bellicisti. Ma la communis opinio si venne
precisando e consolidando sostanzialmente su tre tipi di guerra: 1) la guerra di
difesa; 2) la guerra di riparazione di un torto; 3) la guerra punitiva: questi
avevano, tutti e tre, un carattere comune specifico, quello di essere una risposta ad
un torto altrui cioè un atto sanzionatorio. La guerra fu concepita alla stregua di
una procedura giudiziaria, cioè un procedimento che, analogamente a quanto
avviene nel processo all’interno di un ordinamento giuridico, ha lo scopo di
ristabilire un diritto offeso o di punire un colpevole. Lo scopo della teoria della
guerra giusta era di stabilire i criteri di legittimità della guerra. Ma si ritenne che
non bastasse che una guerra fosse legittima per essere giusta: a tal fine doveva
esser condotta secondo certe regole che generalmente tendevano a limitarne gli
effetti nocivi. Quindi affinché la guerra fosse giusta non bastava che il suo titolo
fosse legittimo, ma era anche necessario che il suo esercizio fosse legale, cioè
conforme a regole stabilite. Si rendeva così applicabile alla guerra la celebre
distinzione tra ius ad bellum (diritto alla guerra) e ius in bello (diritto in guerra).
Scopo di questo lavoro è quindi quello di analizzare la teoria della guerra giusta a
partire dalla sua prima apparizione, seguirne l’evoluzione attraverso l’analisi del
pensiero dei suoi principali sostenitori (e detrattori), ed infine cercare di stabilire
se, ed in quale misura, si sia fatto ricorso ad essa nel giudizio che gli osservatori
contemporanei hanno formulato in merito ai principali conflitti scoppiati
all’indomani della fine del mondo bipolare. In particolare ho concentrato
l’attenzione sulla prima guerra del Golfo, innescata dall’aggressione irachena nei
confronti del Kuwait, e sull’intervento della NATO nella regione del Kosovo,
effettuato nel marzo del 1999, al fine di impedire che il dittatore serbo, Slobodan
Milosevic, portasse a compimento la sua opera di pulizia etnica. Ma occorre
preliminarmente sgombrare il campo da una possibile confusione; data la
preponderanza, almeno nelle fasi iniziali, del contributo teorico fornito dal
10
pensiero religioso alla teoria della guerra giusta, occorre operare una distinzione
che consenta di meglio individuare il prescelto campo d’indagine: Guerra santa e
guerra giusta non sono affatto espressioni equivalenti, poiché appartengono a due
distinte, ancorché contigue, sfere concettuali. Prova ne sia il fatto che una guerra
ben può essere considerata giusta, anche se combattuta per motivi totalmente
estranei a qualsiasi contesto di natura religiosa, mentre non necessariamente la
guerra santa deve rispondere ai criteri legittimanti una guerra giusta. La guerra
santa, sia essa lo jihad islamico piuttosto che una crociata combattuta in nome di
Cristo, trova la sua naturale giustificazione nell’imperscrutabilità del disegno
divino, e ciò è abbastanza ovvio: quello che Dio ordina non necessita di alcuna
procedura giustificatoria. La guerra santa, in ultima analisi, si combatte sempre
per proteggere o diffondere la religione, perciò si riterrà sempre giustificata.
Quindi, prima di raggiungere il cuore del discorso, è opportuno analizzare, seppur
a grandi linee, l’origine e l’interpretazione della guerra santa fornita dalla
religione cristiana e dal profeta Muhammad.
11
CAPITOLO 1
ORIGINI DELLA GUERRA GIUSTA E DELLA GUERRA SANTA.
1.1LE ORIGINI CLASSICHE.
Le radici della teoria della guerra giusta affondano nel pensiero religioso
medioevale, anche se hanno illustri precedenti nel pensiero greco classico.
Aristotele, sulle orme di Platone, coniò nella Politica l’espressione “guerra
giusta”, ispirandosi ad una sorta di equilibrio tra mutamento e stabilità. Rispettare
i confini, non rovinare i raccolti, tenere ognuno al suo posto, erano elementi
classici «di questa sorta di diritto naturale in nuce
2
» sottesa alla concezione
aristotelica. In epoca romana, la teoria necessitava di alcuni accorgimenti, così da
poter meglio prestarsi alla causa di uno Stato, come quello di Roma, espansionista
ed imperialista, che aveva bisogno della guerra per accrescere il suo potere e
mantenerlo. Se ne incaricò Cicerone: dalla lettura e combinazione di alcuni passi
tratti da due delle sue opere più mature, il De republica e il De officiis, si
apprende che si aveva bellum justum quando i romani muovevano guerra, secondo
l’antico rituale posto in essere dai sacerdoti feziali, ad un popolo straniero qualora
esso non avesse provveduto, entro trenta giorni, alla richiesta di soddisfazione
dell’eventuale danno subito o temuto. La “guerra giusta” consisteva quindi per il
popolo romano in una procedura rigorosamente fissata dal diritto a cui bisognava
attenersi per il buon esito del conflitto. L’aggettivo justum richiamava, in quel
contesto, non un valore etico di giustizia quanto piuttosto rigorosi criteri giuridici.
L’espressione bellum justum indicava quindi la guerra secondo le regole del
diritto: una guerra giuridicamente legittima si direbbe oggi. Ma ai fini delle
presente trattazione sarà opportuno citare un passo, tratto da una delle sue opere
2
Sebastiano Maffettone, La pensabilità del mondo, Feltrinelli, Milano 2006.
12
più famose, il “Dei doveri”, in cui Cicerone compie la più antica e chiara
formulazione della teoria in questione, dedicando ad essa l’intero capitolo 11 del
primo libro, nel quale spiega:
«soprattutto nei rapporti tra stato e stato si debbono osservare le leggi di guerra.
Ci sono due maniere di contendere: con la ragione e con la forza; e poiché la
ragione è propria dell’uomo e la forza è propria delle bestie, bisogna ricorrere alla
seconda soltanto quando non ci si può valere della prima. Si devono perciò
intraprendere le guerre al solo scopo di vivere in sicura e tranquilla pace; ma
conseguita la vittoria, si devono risparmiare coloro che durante la guerra non
furono crudeli né spietati…non è guerra giusta se non quella che si combatte o
dopo aver chiesto riparazione dell’offesa o dopo averla minacciata e dichiarata»
(Dei doveri I, IX, pp. 49-51).
Tutti gli elementi del dibattito successivo sono presenti: la necessità che la guerra
sia una extrema ratio, e non se ne abusi; che vi si ricorra solo per legittima difesa
o per ovviare a un torto; che sia annunciata e non consista dunque in
un’aggressione improvvisa; si devono evitare forme di crudeltà o efferatezza, e
che, infine, sia ritualmente dichiarata, implicando così la distinzione tra diritto alla
guerra(ius ad bellum) e diritto in guerra(ius in bello).
13
1.2 LA GUERRA GIUSTA NELLA RELIGIONE CRISTIANA: DA CICERONE A AGOSTINO.
Tale concezione venne poi ripresa e modellata dalla riflessione di Agostino:
ripresa e modellata poiché egli, nel tentativo (riuscito) di traghettare la cultura
classica romana nel pensiero cristiano, riportò l’elaborazione ciceroniana sulla
guerra nell’alveo della propria visione teologica del mondo. Scopo di Agostino
era principalmente quello di correggere la posizione di pacifismo assoluto propria
del cristianesimo delle origini, per i cui adepti nessuna guerra era condivisibile. Fu
così che egli presentò – seguendo in questo Sant’Ambrogio, morto nel 397 d. C.,
che prima di diventare vescovo di Milano fu un importante funzionario
dell’impero e non esitò a giustificare la partecipazione dei cristiani ad una guerra
di difesa – il paradigma della guerra giusta in chiave essenzialmente antipacifista.
Da allora in poi si può affermare che la teoria della guerra giusta serve a
determinare le condizioni morali per fare la guerra e non per evitarla. Il pacifismo
radicale che caratterizzava il cristianesimo ai suoi albori, si basava sulla centralità
dell’amore cristiano, e poteva vantare come origini il richiamo ai precetti di Gesù
Cristo relativi alla necessità di non resistere con la forza all’ingiustizia, il celebre
invito al porgere l’altra guancia(il sermone della montagna). Con le invasioni
barbariche e la cristianizzazione dell’impero romano dopo Costantino, lo sfondo
storico, nel momento in cui scrive Agostino, era però sostanzialmente diverso. La
comunità cristiana non poteva più considerare l’impero romano totalmente ostile,
e la romanità stessa sembrava certo essere più coerente col cristianesimo di quanto
non lo fosse lo spirito pagano e bellicoso dei barbari. Su questo sfondo
Sant’Agostino, vescovo di Ippona dal 396 al 430, concepì la teoria della guerra
giusta come un insieme di condizioni necessarie che servivano nel loro insieme a
rendere la guerra moralmente accettabile in alcuni casi piuttosto che
assolutamente inaccettabile. Prima di ogni altra cosa, scopo di una guerra giusta
doveva essere la pace, una pace non certo perfetta ma relativa come quella che si
poteva avere in terra e non nel regno dei cieli. In secondo luogo, oggetto della
guerra giusta era la giustizia, basata sulla riparazione dei torti. Infine, il cristiano
in guerra doveva ispirarsi all’amore cristiano. Giustizia, pace e amore dettavano
14
anche le principali regole dello ius in bello dal rispetto dei trattati e della parola
data ai divieti in tema di massacro, atrocità e vendetta. Quindi la tesi centrale,
rimasta quasi inalterata nei secoli nell’ambito di un importante filone della
tradizione cattolica e cristiana, vede un primato della giustizia, quest’ultima intesa
in senso inclusivo e comprendente anche carità e amore, sulla pace. In altre
parole, nella sua versione iniziale la guerra giusta privilegia il valore della
giustizia rispetto a quello della pace, caratteristica questa che rappresenta il vero
elemento di novità rispetto alla tradizione pacifista neotestamentaria. Volendo
condensare la tesi di Agostino sulla guerra giusta in un passaggio simbolico tratto
da un suo scritto possiamo riferirci alla seguente citazione:
«Si sogliono definire giuste quelle guerre che vendicano le ingiustizie, nel caso in
cui il popolo o lo stato a cui si deve fare la guerra abbia trascurato o di punire le
malefatte dei suoi cittadini ovvero di restituire ciò che sia stato sottratto
ingiustamente. È poi certamente giusta quella guerra che è stata comandata da
Dio» (Quaestiones in Heptateucum, VI, X).
Secondo Agostino quindi, la guerra giusta doveva essere improntata a un codice
di moderazione e di minima violenza, che aveva i suoi antecedenti nella filosofia
stoica e nel tardo diritto romano. Ma, aggiunge, è giusta al di là di ogni dubbio
quella guerra che è stata direttamente comandata da Dio: era infatti opinione di
Agostino che agli uomini non dovesse essere consentito vagliare le ragioni per le
quali la divina provvidenza permetteva una guerra la quale, in sé e per sé, poteva
essere tanto un bene quanto un male. In ultima istanza quindi si può affermare che
con i precetti agostiniani entrò a far parte del modo di pensare cristiano-latino
quella tradizione latina e greca della guerra giusta che autorizzava ad usare la
guerra come rappresaglia o deterrente nei confronti di un aggressore e, a partire
dal IV e V secolo, i cristiani cominciarono a sostenere che una dichiarazione di
guerra giusta poteva quantomeno sospendere l’efficacia del precetto di Gesù
relativo al porgere l’altra guancia nei confronti di chi commetteva un’ingiustizia.
15
1.3 NASCITA DELLO JIHAD NEL PENSIERO DI MUHAMMAD.
Come si è visto, Agostino formula la teoria della guerra giusta per legittimare un
seppur limitato uso della forza anche da parte dei cristiani, esortandoli a non
rimanere arroccati su posizioni di pacifismo assoluto. Ma egli era anche convinto
che la guerra fosse una dimensione sostanzialmente inevitabile della «città
terrena», e che la pace sarebbe stata finalmente goduta in quella di Dio. Questo
stesso dualismo che egli descriveva tra città terrena e città di Dio sarà poi
riproposto, meno di tre secoli dopo, dal magistero di Muhammad, secondo il
quale, come si vedrà più avanti, il mondo si divide essenzialmente nel regno
dell’islam e in quello in cui la “religione verace” non si è ancora diffusa, cioè il
regno della guerra. Prima di arrivare a questo aspetto, che verrà chiarito più
avanti, ritengo opportuno illustrare brevemente lo sviluppo del pensiero del
Profeta sin dalle sue origini. Agli inizi del settimo secolo, nella città della Mecca,
Muhammad, membro di una famiglia di mercanti, cominciò a ricevere messaggi
divini: doveva levarsi e avvertire coloro che lo circondavano affinché cambiassero
la loro vita, in accordo alle rivelazioni che riceveva da Allah. Col suo
insegnamento egli non diffondeva un codice di leggi rivelate, piuttosto dichiarava,
come Gesù Cristo e i profeti del Vecchio Testamento, quale fosse la posizione
dell’uomo nel mondo, e quale la sua responsabilità verso Dio
3
. Non ripudiava né
le rivelazioni ebraiche né quelle cristiane, ma insisteva sul carattere definitivo
delle sue rivelazioni rispetto alle altre, negando la proclamata divinità di Cristo. A
causa del suo rifiuto degli Dei venerati presso il tempio sacro della Mecca, la sua
condanna dell’infanticidio e della faida di sangue tradizionale, Muhammad
costituiva una minaccia all’andamento della società locale. Con questo
atteggiamento attirò su di sé una tale impopolarità che, perso anche il sostegno
della sua famiglia, nel 622 stipulò un patto con alcuni suoi sostenitori dell’oasi di
Yathrib (Medina) e là fuggì con i suoi discepoli. Fu così che chi lo ascoltava e lo
sosteneva formò attorno ad esso il partito di Dio (Hezbullah).Totale sottomissione
3
Il materiale sulla vita e il pensiero di Muhammad è stato tratto da Peter Partner, Il Dio degli
eserciti, trad. it. A cura di Valentina Prosperi, Einaudi, gennaio 2002.
16
ad Allah a parte, la virtù essenziale che si richiedeva ai seguaci di Muhammad era
la volontà di “sforzarsi sulla via di Dio”(jihad fi sabil Allah). La lotta da sostenere
era in primo luogo quella personale e morale di ognuno per fare la volontà del
signore, ma era anche una lotta contro i detrattori della fede, che con la loro ostile
e persecutoria derisione (fitna) ostacolavano la ricezione del messaggio di
Muhammad. Alla Mecca istruì i suoi sostenitori a combattere accanitamente i
miscredenti e a non arrendersi; ma una volta trasferita la comunità islamica a
Medina la lotta acquisì una nuova dimensione politica e infine anche militare.
Da quel momento Muhammad si convinse che la guerra santa dovesse rientrare tra
i doveri sacri della comunità islamica; la causa ultima di questa sua decisione fu il
suo orrore per la fitna, termine non privo di una certa ambiguità, che in tale
contesto possiamo rendere come il tradimento dei legami sociali primari
attraverso la persecuzione o altro.
Fu rivelato a Muhammad che uccidere è male ma che la fitna è peggio, e che
pertanto la lotta armata può essere un dovere sacro per la comunità islamica. I
credenti dovevano perciò superare ogni riluttanza verso lo scontro armato:
«Combattete per la causa di Allah contro coloro che vi combattono, ma senza
eccessi, che Allah non ama coloro che eccedono…..uccideteli ovunque li
incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione (fitna) è
peggiore dell’omicidio…….; se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa
dei miscredenti…..se però cessano allora Allah è perdonatore, misericordioso
4
» .
Come si può notare da questa sommaria ricostruzione, allo jihad possono
ricondursi tre diversi significati: sforzo personale per il perfezionamento e
l’avvicinamento a Dio; lotta per la realizzazione di una società rispondente ai
dettami dell’islam, ma anche lotta, questa volta armata, per la difesa e la
diffusione dell’islam. In sostanza, dal Corano è lecito desumere significati dello
jihad che si prestano a delle interpretazioni contraddittorie: da una parte troviamo
il grido di guerra: «combattete coloro che non credono in Allah e nell’ultimo
giorno, che non vietano quello che Allah e che il suo messaggero hanno vietato, e
4
Corano, II, sure 190-193.
17
quelli, tra la gente della scrittura, che non la scelgono siano soggiogati
5
»,
dall’altra troviamo riferimenti al significato spirituale di jihad, o per lo meno ad
un significato non militare: «Non obbedire ai miscredenti; lotta con esso (il
Corano) vigorosamente
6
». Durante il periodo in cui regna la dinastia Abbaside, la
seconda delle dinastie califfali, fu data forma organica alla divisione del mondo in
dar al-islam (territorio dell’islam), detto anche dar as-salam territorio della pace)
e dar al-harb, (territorio della guerra). Il dar al-islam è formato da tutti i territori
in cui in cui vigono i principi e le leggi islamiche sia dal punto di vista religioso
che dal punto di vista politico; in esso giudei e cristiani erano tenuti a versare il
jizya (tributo) con il quale ottenevano il diritto di vivere in pace e in sicurezza
nello stato islamico. Il pagamento di tale tributo di capitolazione conferiva loro lo
status di «dhimmî», cioè protetti. Il dar al-harb è per contro formato da tutti quei
territori non soggetti alla legge islamica. Una terza possibilità, prevista da alcune
scuole legali dell’islam, è il dar al-sullh (territorio della tregua). In esso,
governanti e popoli non musulmani accettano di essere posti sotto la dipendenza
di un potere musulmano
7
. Secondo il pensiero di Maometto quindi, due case
dividono il mondo, quella dell’islam (dar al-islam) e quella della guerra (dar al-
harb). La condizione conflittuale che tra esse si determina non è tanto effettiva
quanto ideale: fin tanto che l’islam non si sarà diffuso in tutto il mondo la pace
non sarà raggiunta. Così la condizione di jihad si riferisce prevalentemente al
tentativo o alla lotta che il credente è tenuto a compiere in nome della difesa o
della diffusione della vera fede, senza che ciò comporti necessariamente uno
spirito di conquista. La guerra contro gli infedeli è perpetua e inevitabile a causa
del loro rifiuto ad accettare la rivelazione (quindi la guerra contro essi sarà anche
giusta). Si ricordi però che questa è solo una delle possibili interpretazioni
coraniche, fatta propria in particolare da alcuni fondamentalisti, ma sempre
bisogna tener presente il precetto coranico secondo cui non ci può essere
conversione con la violenza. Comunque, da questa condizione ormai sappiamo
che si originò una sorta di guerra fredda – che, purtroppo possiamo considerare a
5
Corano, IX, sura 29.
6
Corano, XXXV, sura 52.
18
tutt’oggi esistente – tra le due «case
8
»; un conflitto destinato a diventare, di tanto
in tanto, caldo come sarà dimostrato dalla successiva espansione europea
dell’islam, contrastata dalla versione cristiana della guerra santa, ossia le crociate,
passando per Lepanto, dove nel 1571 l’avanzata turca sarà fermata sul mare,
prima di essere definitivamente respinta nel 1683 alle porte di Vienna.
1.4 TOMMASO D’AQUINO.
All’epoca in cui il giovane imperatore tedesco Federico II di Svevia si trovò
costretto ad intraprendere l’ennesima crociata in Terra Santa, in base ad un
accordo siglato col papa Onorio III (quindi uno dei tanti momenti «caldi» del
conflitto tra cristiani e musulmani) sta per ergersi su tutte l’interpretazione della
teoria della guerra giusta che, secondo il Bonanate, può essere considerata la
meno teocratica delle concezioni del problema, alla quale ogni trattazione
successiva, anche quelle laiche, dovrà comunque riferirsi. Stiamo parlando della
concezione propria di Tommaso d’Aquino (1225-1274), che apre la strada ad una
progressiva legalizzazione della teoria della guerra giusta, una concezione che
privilegia sempre più l’ermeneutica del diritto naturale e la tradizione giuridica
canonistica rispetto all’eredità testamentaria, e sempre entro i confini della
dottrina cattolica. Così, la dottrina della guerra giusta diviene, con l’opera di
Tommaso d’Aquino, «più etica e giuridica e meno teologica rispetto alle origini
9
».
Un posto speciale al suo interno, come si vedrà più oltre, prende in particolare la
tutela della sovranità. Nella celebrata Quaestio 40 Secunda Secundae, Tommaso
presenta la sua teoria della guerra giusta, che, si può dire semplificando, «media
tra la concezione naturalistico-aristotelica e la visione agostiniana
10
». Come nel
caso di Aristotele, anche per Tommaso la struttura dell’etica è fondata sulla virtù.
Come per Agostino, la virtù fondamentale è la virtù cristiana della carità. Si può
7
R. Ragionieri, Lezioni di Relazioni Internazionali, A. A. 2003-2004.
8
Luigi Bonanate, La guerra, Laterza, Bari 2005, cit. p. 96.
9
Sebastiano Maffettone, La pensabilità del mondo, Feltrinelli, Milano 2006, cit. p. 155
10
Ibidem
19
addirittura dire che nessuna delle virtù della guerra sia praticabile senza la carità.
Così Tommaso, in questa sede, pone le sue condizioni per una guerra giusta: dopo
essersi chiesto se ci sia una guerra lecita; se anche ai chierici sia lecito combattere;
se i belligeranti possano servirsi delle imboscate; se sia lecito combattere nei
giorni festivi, e chiestosi infine se la guerra sia sempre peccato (questione di
estrema importanza nella polemica cristiana tra pacifisti assoluti e pacifisti solo
relativi), Tommaso d’aquino mostra di essere d’accordo con questi ultimi,
ponendo tre condizioni:1) che la guerra sia proclamata dall’autorità legale; 2) che
derivi da una giusta causa, vale a dire «da una colpa di coloro contro cui si fa la
guerra» ; 3) «che l’intenzione di chi combatte sia retta: e cioè che si miri a
promuovere il bene e a evitare il male». Si può anche aggiungere che
probabilmente l’ordine in cui le condizioni si succedono nel suo elenco non è
casuale: per prima c’è l’autorità appropriata del sovrano che è l’unico titolato ad
impugnare la spada secondo giustizia; seconda c’è la giusta causa, secondo cui
bisogna impugnare la spada in nome di qualche torto commesso dalla controparte
(qui il richiamo ad Agostino è evidente, dato che la lista dei torti e pressappoco
quella agostiniana: vendicarsi di un torto subito, punire una nazione colpevole,
rimettere in ordine quello che è stato ingiustamente preso); per terza c’è la recta
intentio, che richiama la teoria della virtù sottostante e il perseguimento del bene,
e tende sostanzialmente a rafforzare il requisito della giusta causa. Maffetone
sostiene che l’ordine tra questi criteri non è casuale proprio in quanto Tommaso
mette al primo posto l’autorità appropriata, affermando senza mezzi termini che
senza l’avvallo della sovranità non si può sostenere che una guerra sia condotta in
maniera moralmente accettabile. In questo modo, egli enfatizza con forza la
distinzione tra l’aspetto privato e quello pubblico della guerra, tra duellum da una
parte e bellum dall’altra. Dove appare chiaro che solo nel secondo caso ci si può
porre ragionevolmente le domande successive, quelle sulla giusta causa e sulla
recta intentio. Senza l’avvallo della sovranità quindi, non si è neppure in presenza
di una guerra, ma ci si muove in uno stato di confusione in cui la questione della
guerra giusta non può neanche essere presa in considerazione. In conclusione,
possiamo dire che per Tommaso l’idea stessa di guerra giusta presuppone che non
20