economica americana. Giappone, Germania Ovest e Italia si erano
collocate più o meno stabilmente nel campo occidentale e avevano
raggiunto livelli di sviluppo senza precedenti per questi tre Paesi; inoltre
alcuni Paesi europei (Francia, Italia, Germania Ovest, Belgio, Olanda e
Lussemburgo, raggiunti nel 1973 da Gran Bretagna, Danimarca e Irlanda)
avevano deciso di andare oltre i tradizionali egoismi e le diffidenze
reciproche per costruire una comunità europea capace di unire i mercati e
gli interessi nazionali, rendendo ben presto l’Europa uno dei poli
economici più importanti del pianeta assieme agli USA e al Giappone.
Questa situazione di accresciuta interdipendenza economica non si
risolveva però in una maggiore dipendenza dagli USA: molte nazioni, pur
essendo schierate al fianco di una delle due superpotenze, erano riuscite a
mantenere ampi margini di autonomia e critica, come la Francia e la
Iugoslavia sui rispettivi fronti. Anche la Repubblica Popolare Cinese era
emersa ormai come forza indipendente e spesso in contrasto con l’Unione
Sovietica, mettendo in crisi l’egemonia ideologica del Cremlino
all’interno del campo comunista. Questo rafforzava notevolmente il
multipolarismo che andava imponendosi al posto del rigido bipolarismo
degli anni Cinquanta; era diventato praticamente impossibile interpretare
gli eventi internazionali secondo le vecchie logiche “a somma zero” della
Guerra Fredda, mentre era sempre più evidente quanto fosse diventato
difficile escludere dal processo decisionale le potenze emergenti del nuovo
scenario mondiale.
L’egemonia americana era stata messa in discussione anche da una
serie di episodi che avevano direttamente o indirettamente avvantaggiato
l’avversario sovietico: il successo della rivoluzione castrista a Cuba era
stato un vero e proprio shock per Washington. La presenza di un regime
nemico a poche centinaia di chilometri dai confini degli USA per la prima
volta minacciava la sicurezza della superpotenza occidentale; l’isola
caraibica rappresentava una palese eccezione alla “Dottrina Monroe” e
4
apriva una breccia in una regione tradizionalmente considerata sfera
d’influenza esclusiva degli Stati Uniti; infine Fidel Castro si poneva come
punto di riferimento per i movimenti rivoluzionari in Sud America e nel
Terzo Mondo in generale, aggiungendo un ulteriore elemento di
destabilizzazione all’ordine americano in Africa e in Medio Oriente.
Probabilmente però l’evento più significativo nel declino
dell’egemonia americana fu il disastroso esito del coinvolgimento militare
in Vietnam. Dal 1964, anno in cui il Congresso approvò la celebre
Risoluzione del Golfo del Tonchino, fino al 1973, quando furono firmati
gli Accordi di Parigi che ponevano ufficialmente termine all’impegno
bellico statunitense in Indocina, l’immagine degli USA passò attraverso
un duro ridimensionamento internazionale. La crescente contestazione
interna, i costi umani della guerra, l’impossibilità di vincere il conflitto
contro un avversario decisamente inferiore sul piano strategico: tutto
questo contribuì al fallimento dell’avventura militare e alla fine di un
periodo in cui Congresso ed Esecutivo avevano gestito la politica estera
senza divergenze né dissensi. Gli USA uscirono cambiati da questa
esperienza: le spese per la difesa, i coinvolgimenti militari all’estero e il
ruolo della superpotenza occidentale nel mondo vennero aspramente
criticati e rimessi in discussione. Dall’altra parte invece la vittoria finale
delle forze comuniste con la caduta di Saigon nel 1975 rappresentò un
segnale di fiducia per i movimenti insurrezionali del Terzo Mondo:
sconfiggere il gigante americano era possibile se si avevano tattica e
mentalità rivoluzionarie. Il Vietnam divenne così un momento di gloria
per l’Unione Sovietica e per le forze che si ricollegavano a Mosca, mentre
per il campo occidentale era il simbolo della sconfitta e della necessità di
superare la politica di contenimento e contrapposizione nei confronti del
comunismo.
Così da una parte con l’ascesa al potere di Leonid Brezhnev in
URSS e la sua nuova politica di maggiori spese militari mirate ad
5
annullare il vantaggio strategico degli Stati Uniti in materia di armamenti
nucleari e ad ottenere in questo modo una parità dapprima militare e poi
politica con Washington; dall’altra parte con l’elezione di Richard Nixon
alla Presidenza degli USA e il suo realismo in politica estera volto a
deideologizzare l’approccio americano e a riconoscere le conseguenze
politiche del nuovo contesto internazionale, si fece strada l’idea di un
processo politico in grado di governare pacificamente le nuove dinamiche
emerse in questi anni. Si approfondì così un dialogo cominciato già sotto
la Presidenza Kennedy, dapprima incentrato principalmente sulla tematica
delle armi nucleari e poi sempre più ampio, fino al tentativo di stabilire un
codice comune di condotta al cui interno imbrigliare l’inevitabile
competizione ideologica fra le due superpotenze. Si usciva insomma da
una prospettiva in cui l’ipotesi di uno scontro armato era sempre in
agguato, come dimostrato dalla crisi dei missili del 1962, per entrare in
una nuova epoca diplomatica in cui Mosca e Washington si impegnavano
a trovare soluzioni condivise ai problemi che la realtà internazionale
sottoponeva in continuazione al bipolarismo USA-URSS.
I primi risultati della distensione furono appunto nel settore del
controllo delle armi nucleari: già nel 1963 Stati Uniti, Unione Sovietica e
Regno Unito avevano sottoscritto il Partial Test Ban Treaty (PTBT), che
però venne respinto da Francia e Cina; nel 1968 fu firmato il Trattato di
Non-Proliferazione nucleare (TNP); ma soprattutto nel 1972 fu concluso
l’accordo SALT (Strategic Armaments Limitation Talks) che poneva per la
prima volta dei limiti agli armamenti offensivi e difensivi di entrambe le
superpotenze. Subito dopo furono anche avviati i colloqui per un trattato
SALT II, mentre si moltiplicavano i gesti di distensione nelle relazioni
commerciali e culturali; nel frattempo però Nixon e il suo Consigliere alla
Sicurezza Henry Kissinger manovravano parallelamente preparando il
terreno per la storica apertura diplomatica alla Cina Popolare, che permise
agli USA di sfruttare la reciproca diffidenza fra Mosca e Pechino per
6
“triangolare” con i loro due avversari e tenere sotto controllo il processo di
détente in corso.
Negli stessi anni continuava l’erosione della posizione
internazionale degli Stati Uniti: la bilancia commerciale americana era in
passivo ormai da anni e il dollaro, incardinato nel sistema costruito dagli
accordi di Bretton Woods nel 1944, non poteva essere svalutato
liberamente per riequilibrare importazioni ed esportazioni così come era
stato fatto in passato dai Paesi europei per finanziare la propria
ricostruzione economica. In questo modo gli USA, che avevano sostenuto
negli anni la rinascita economica di Europa e Giappone dall’alto della loro
posizione egemonica nell’economia mondiale, erano stretti fra l’ipotesi di
una svalutazione del dollaro e una politica deflazionistica che avrebbe
potuto causare una recessione globale. Alla fine Nixon optò con decisione
per la prima idea, ma le ondate speculative e il terremoto finanziario che
seguirono costrinsero gli Stati del blocco occidentale ad abbandonare
l’intero sistema di Bretton Woods nel 1971 in favore di un regime di
cambi flessibili.
Tuttavia questa non fu l’unica scossa politico-economica che colpì
l’egemonia americana e gli alleati occidentali in quegli anni. Nell’ottobre
1973 Egitto e Siria, sconfitti 6 anni prima da Israele nella famosa ed
umiliante “Guerra dei Sei Giorni”, decisero di attaccare a sorpresa lo Stato
ebraico durante la festività religiosa dello Yom Kippur. Il conflitto
inizialmente volse inaspettatamente a favore dei due Paesi arabi,
innescando un meccanismo di alleanze e di forniture di armi che vide gli
USA intervenire trasferendo equipaggiamento militare ad Israele, mentre
l’URSS faceva la stessa cosa a vantaggio di Egitto e Siria. La guerra
terminò poco tempo dopo ristabilendo di fatto lo status quo ante (non
senza una crisi grave, il 24 e 25 ottobre, che mostrò i limiti della
distensione), ma le conseguenze del conflitto si fecero sentire per lungo
tempo: dapprima gli Stati arabi produttori di petrolio decisero un embargo
7
petrolifero contro USA ed Olanda; in seguito l’OPEC (Organization of the
Petroleum Exporting Countries) optò per un rialzo dei prezzi del petrolio
che ne portò ben presto il costo alle stelle, generando una vera e propria
crisi che colpì duramente i Paesi industrializzati. L’Europa Occidentale e
gli Stati Uniti erano infatti fortemente dipendenti dall’oro nero: la crisi
petrolifera provocò una combinazione fra stagnazione ed inflazione che
divenne meglio nota come “stagflazione” e che paralizzò per anni le
economie degli Stati capitalisti.
L’ultimo colpo al prestigio internazionale degli USA venne dallo
scandalo “Watergate”, che coinvolse il Presidente Nixon all’inizio del suo
secondo mandato. A causa di una serie di attività illegali ai danni del
Partito Democratico e dei tentativi di ostruzione della giustizia compiuti
dal leader repubblicano, Nixon fu costretto a dimettersi travolto dallo
scandalo che ne conseguì, dando un duro colpo alle istituzioni americane e
screditando l’Amministrazione guidata da Ford che gli succedette.
L’insieme di questi fattori generò così un notevole indebolimento
della posizione americana nel mondo e della fiducia dell’elettorato
statunitense nelle istituzioni del Paese. Nel 1976 il candidato democratico
Jimmy Carter fu il più abile a sfruttare il malessere generalizzato e la
volontà di ridimensionare gli impegni della superpotenza americana
all’estero; cominciava così un quadriennio atipico per la politica estera
degli USA, incentrato su temi come i diritti umani, il principio di non-
intervento e la riduzione delle spese militari che avrebbero alla fine
destabilizzato l’architettura della détente.
8
Capitolo 1. Cronologia della crisi
L’Ogaden è oggi una vasta regione semiarida dell’Etiopia a ridosso
della Somalia abitata prevalentemente da una popolazione di lingua
somala. Fu annessa all’Impero di Addis Abeba alla fine dell’Ottocento, in
una mossa che dal lato etiope veniva giustificata dalla necessità di agire
preventivamente rispetto all’espansionismo delle potenze europee, mentre
dal lato somalo veniva vista come espressione del “colonialismo nero” di
Addis Abeba
1
. Tuttavia l’Etiopia non riuscì mai ad avere il controllo
effettivo della regione: solo i trattati stipulati con l’Italia nel 1897 e nel
1908 riconoscevano di fronte alla comunità internazionale la sovranità
etiope sull’area
2
. Con l’occupazione italiana dell’Etiopia nel 1936 però
l’Ogaden venne assegnato amministrativamente alla Somalia Italiana
all’interno del Governatorato Generale dell’Africa Orientale Italiana per
un periodo di 5 anni, fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e la
rapida vittoria delle truppe britanniche nel Corno d’Africa nel novembre
1941
3
.
1.1 Le origini della questione dell’Ogaden
Con la fine della Seconda Guerra Mondiale il problema
dell’attribuzione del territorio dell’Ogaden andò ad incrociarsi con il
processo di decolonizzazione nel Corno d’Africa: mentre l’imperatore
etiope Haile Selassie faceva ritorno ad Addis Abeba ripristinando la
sovranità sui territori persi nel 1936, la Somalia Italiana era stata occupata
dagli inglesi sotto la dizione Occupied Enemy Territory Administration,
1
CALCHI NOVATI G., Il Corno d’Africa nella Storia e nella Politica: Etiopia, Somalia ed Eritrea fra
Nazionalismi, Sottosviluppo e Guerra, Torino, 1994, pp. 127-128.
2
LEWIS I. M., A Modern History of the Somali: Nation and State in the Horn of Africa, Oxford, 2002, p.
131.
3
CALCHI NOVATI G., Il Corno d’Africa nella Storia e nella Politica: Etiopia, Somalia ed Eritrea fra
Nazionalismi, Sottosviluppo e Guerra, Torino, 1994, p. 79.
9
affidata al Ministero della Guerra
4
. In un certo senso l’Ogaden finì col
trovarsi in una posizione intermedia fra la restaurazione imperiale di Haile
Selassie e l’occupazione britannica in Somalia: due trattati anglo-etiopici,
uno del 31 gennaio 1942 e l’altro del 19 dicembre 1944, sancivano sì il
ritorno all’indipendenza dell’Impero Etiope (sebbene sotto la stretta
supervisione di Londra), ma stabilivano anche il controllo inglese di alcuni
territori periferici per necessità belliche. Si trattava appunto dell’Eritrea e
dell’Ogaden: cominciò così una lunga battaglia diplomatica fra Addis
Abeba e Londra per la restituzione di questi territori
5
.
Nel 1945 la Conferenza di Londra vide gli Alleati rifiutare la
restituzione di Eritrea ed Ogaden; solo nel 1948 i britannici si ritirarono
parzialmente dalla regione, mantenendo ancora il controllo sull’Haud, nel
Nord-Est dell’area. In realtà l’obiettivo della Gran Bretagna era di creare
una Grande Somalia che realizzasse le aspirazioni nazionalistiche che
emergevano proprio in quegli anni nella regione unendo il Somaliland
britannico, la Somalia Italiana, Gibuti, l’Ogaden e i territori etnicamente
somali del North Frontier District in Kenya; questa idea si scontrava
ovviamente con la strategia di Haile Selassie, che mirava invece a
ristabilire lo status quo precedente l’invasione italiana
6
.
Proprio per contrastare i progetti britannici di smembramento
dell’Etiopia e per bloccare le velleità dell’Italia di rientrare in possesso
delle sue ex colonie, l’Imperatore decise di puntare tutto sulla potenza
emergente degli Stati Uniti, usciti vittoriosi dal conflitto mondiale e punto
di riferimento sufficientemente distante ed autorevole per servire gli
interessi di Addis Abeba. I primi contatti con Washington risalivano al
1903, quando Skinner, inviato del Governo americano nel Corno d’Africa,
aprì la strada ad un trattato commerciale fra i due Paesi. Ma fu solo con la
4
Ivi, pp. 80-90.
5
CALCHI NOVATI G., Il Corno d’Africa nella Storia e nella Politica: Etiopia, Somalia ed Eritrea fra
Nazionalismi, Sottosviluppo e Guerra, Torino, 1994, p. 80; BAHRU ZEWDE, A History of Modern
Ethiopia, 1855-1991, Oxford, 2001, pp. 179-180.
6
BAHRU ZEWDE, A History of Modern Ethiopia, 1855-1991, Oxford, 2001, pp. 179-183.
10
Seconda Guerra Mondiale che Haile Selassie, alla ricerca di un
contrappeso all’influenza della Gran Bretagna nella regione, scelse gli
USA come alleato principale, vincolando la propria sopravvivenza politica
al legame con Washington. Nel 1944 l’Etiopia entrò a far parte del novero
di Stati eleggibili per prestiti finanziari secondo i termini del celebre Lend-
Lease Act; ma l’incontro decisivo avvenne nel 1945 a bordo di una nave
da guerra americana nel Canale di Suez. Lì il Presidente americano
Roosevelt e l’Imperatore etiope Haile Selassie gettarono le basi
dell’alleanza fra i due Paesi, benché l’incontro in sé non avesse molte
conseguenze pratiche. Solo nel 1950 però gli Stati Uniti cominciarono a
considerare l’Etiopia come un alleato fondamentale, inquadrando il Paese
più in un’ottica mediorientale che africana: fu soprattutto il golpe degli
Ufficiali Liberi nel 1952 in Egitto a costringere Washington ad un
ripensamento delle priorità strategiche nell’area. Così nel 1953 veniva
firmato il trattato di alleanza fra USA ed Etiopia, all’origine di una
strettissima collaborazione militare (nel 1970 Addis Abeba riceveva il 60
% degli aiuti militari che gli Stati Uniti riservavano all’Africa) e della
collocazione del Paese nel campo occidentale durante la Guerra Fredda
fino agli anni Settanta
7
.
La Somalia era al centro di un’altra battaglia diplomatica, che
vedeva protagonisti l’Italia e le potenze vincitrici. Il Governo di Roma
rappresentava un Paese uscito sconfitto dalla guerra e che nel trattato di
pace del 1947 aveva di fatto perso il controllo di tutte le colonie, rinviando
la questione dello status di Libia, Eritrea, Somalia ed Etiopia all’ONU: di
fronte alle nuove priorità della Guerra Fredda, era molto più importante
per l’Italia stabilire da quale parte schierarsi, prima ancora di discutere di
eventuali mandati. Così solo dopo il 1948 fu possibile una schiarita fra
Roma e Londra, che portò dapprima al fallimentare accordo Bevin-Sforza
7
CALCHI NOVATI G., Il Corno d’Africa nella Storia e nella Politica: Etiopia, Somalia ed Eritrea fra
Nazionalismi, Sottosviluppo e Guerra, Torino, 1994, pp. 81-82; BAHRU ZEWDE, A History of Modern
Ethiopia, 1855-1991, Oxford, 2001, pp. 184-189.
11
per la spartizione di fatto delle colonie e poi produsse l’assegnazione del
mandato sulla Somalia all’Italia nel 1949, col beneplacito degli Stati Uniti
e il consenso britannico frustrato nei suoi progetti di Grande Somalia. Il
processo decisionale che aveva partorito la scelta del mandato all’Italia
causò dei drammatici scontri fra la Lega dei Giovani Somali,
un’agguerrita fazione nazionalista, e i gruppi pro-italiani. Nonostante la
tensione fra l’organizzazione anti-coloniale somala e la comunità italiana
locale, nel 1950 cominciò l’Amministrazione Fiduciaria Italiana in
Somalia (AFIS), che subito si avvalse della collaborazione della Lega,
cooptandone sempre più estensivamente i membri nell’amministrazione
locale
8
.
Durante i 10 anni di questo mandato vi furono diversi tentativi di
stabilire una volta per tutte il confine fra Somalia ed Etiopia. Dietro
pressione delle Nazioni Unite, l’Etiopia e l’AFIS tentarono inutilmente di
trovare un compromesso fra il rigido legalismo di Addis Abeba, che si
faceva forte dei trattati internazionali del 1897 e del 1908, e le aspirazioni
pansomale espresse a Mogadiscio e in particolare nell’Ogaden
9
. Infatti già
durante l’occupazione britannica la popolazione somala di questa regione
aveva indirizzato agli inglesi petizioni e proteste contro l’idea di una
restituzione all’Etiopia; a queste iniziative aveva risposto il Governo di
Addis Abeba finanziando un movimento locale pro-etiope di scarso
successo. Col declino del progetto britannico di creare una Grande
Somalia, la popolazione cominciò a rassegnarsi al passaggio all’Etiopia,
benché ci verificassero alcune violente rivolte al momento dell’annuncio
del trasferimento
10
.
Nel 1960 terminò il mandato italiano in Somalia e il 1 luglio di
quell’anno fu proclamata la Repubblica di Somalia, organizzata secondo il
8
CALCHI NOVATI G., Il Corno d’Africa nella Storia e nella Politica: Etiopia, Somalia ed Eritrea fra
Nazionalismi, Sottosviluppo e Guerra, Torino, 1994, pp. 83-96.
9
Ivi, p. 97.
10
LEWIS I. M., A Modern History of the Somali: Nation and State in the Horn of Africa, Oxford, 2002,
pp. 129-131.
12
principio della rappresentanza parlamentare con metodo proporzionale.
L’unificazione fra Somaliland britannico e AFIS non placò i desideri del
pansomalismo: la bandiera del nuovo Stato recava al centro una stella a
cinque punte, tanti quanti i territori abitati dalla nazione somala; la stessa
Costituzione recitava all’articolo 4: “La Repubblica di Somalia
promuoverà, con mezzi legali e pacifici, l’unione di tutti i territori
somali”
11
.
La repubblica parlamentare somala non sopravvisse a lungo:
nell’ottobre 1969 una banale transizione politica all’interno delle
istituzioni divenne l’occasione per un colpo di stato organizzato
dall’esercito che portò al potere un Consiglio Supremo della Rivoluzione
guidato da Siad Barre. Da questo momento in poi la Somalia si avviò sul
sentiero del socialismo, avvicinandosi diplomaticamente all’Unione
Sovietica e concentrando tutte le risorse verso la modernizzazione
dall’alto del Paese
12
.
Con quest’ultimo episodio la disputa territoriale fra Etiopia e
Somalia sull’Ogaden acquisiva un ulteriore elemento di contrapposizione:
da una parte c’era l’impero multietnico di Addis Abeba, strenuo difensore
degli equilibri politici usciti dalla Seconda Guerra Mondiale, cristiano,
alleato degli Stati Uniti e di Israele, pedina essenziale degli interessi
occidentali sul Mar Rosso e in Medio Oriente e impegnato nella difesa
dello status quo regionale sulla base dei trattati internazionali del 1897 e
del 1908 che definivano i confini dell’Impero; dall’altra parte c’era uno
Stato di recente indipendenza la cui legittimità si basava su un
nazionalismo culturalmente e linguisticamente omogeneo, membro della
Lega Araba dal 1974, musulmano, revisionista in termini di trattati e
confini e dal 1969, dopo il golpe militare di Siad Barre, schierato
fedelmente con l’Unione Sovietica.
11
CALCHI NOVATI G., Il Corno d’Africa nella Storia e nella Politica: Etiopia, Somalia ed Eritrea fra
Nazionalismi, Sottosviluppo e Guerra, Torino, 1994, p. 98.
12
Ivi, pp. 132-141.
13
1.2 La svolta filo-sovietica di Addis Abeba
Nel settembre 1974 l’Imperatore etiope Hailé Selassié fu costretto
ad abdicare da un golpe organizzato dai quadri dell’esercito. Il governo
militare che prese il potere ad Addis Abeba, il Derg, si caratterizzò subito
per le numerose spaccature interne, tanto che già a novembre il Generale
Aman, esponente moderato della nuova autorità del Paese, fu ucciso,
aprendo così la strada ad una crescente ed inesorabile radicalizzazione a
sinistra dell’Etiopia.
Tuttavia ancora nel 1975 questa tendenza socialisteggiante non si
era palesata completamente: infatti, nonostante l’annunciata riforma
agraria e le dichiarazioni degli esponenti del nuovo regime, gli Stati Uniti
avevano portato gli aiuti di carattere militare dai 23,9 milioni di dollari del
1974 a 37,6 milioni nel 1975, fino a toccare l’apice nel 1976 con 40
milioni di dollari
13
, confermando così la tradizionale alleanza fra i due
Paesi.
Fu solo nel 1976 che cominciò ad emergere con chiarezza la netta
inclinazione marxista del Derg, soprattutto nei primi veri documenti
programmatici pubblicati ad Addis Abeba e in seguito al viaggio a Mosca
dal 6 al 12 luglio di una delegazione etiope di alto profilo guidata dal
Capitano Moges Wolde, Presidente del Comitato Economico del Derg.
Nel corso della visita si stabilì che l’URSS avrebbe fornito esperti
all’Etiopia per esplorare le possibilità di una cooperazione tecnica ed
economica fra i due Paesi
14
. Già alla fine di quell’anno, in seguito ad un
accordo segreto firmato a Mosca da una delegazione dell’esercito etiope,
13
GORMAN R., Political Conflict on the Horn of Africa, New York, 1981, p. 52; PATMAN R., The Soviet
Union in the Horn of Africa: the Diplomacy of Intervention and Disengagement, Cambridge, 1990, p.
196.
14
PATMAN R., The Soviet Union in the Horn of Africa: the Diplomacy of Intervention and
Disengagement, Cambridge, 1990, p. 191.
Il Capo della delegazione etiope, lasciando presagire futuri sviluppi nella relazione con l’Unione
Sovietica, disse: “Ethiopia finds in the USSR the necessary support in the progressive transformation of
its society”.
14
la stessa Unione Sovietica provvide a fornire armamenti ad Addis Abeba
per circa 100 milioni di dollari
15
.
Proprio in quegli anni, dal 1974 al 1977, si consolidava il potere
personale del Maggiore Menghistu Haile Mariam, attraverso ripetuti
regolamenti dei conti in seno al Derg e grazie all’appoggio garantito dalla
dirigenza sovietica in termini di formazione, sostegno verbale e assistenza
da parte dell’intelligence di Mosca nella lotta contro i propri avversari
politici
16
.
Così ancora nel 1976 il Derg era al centro di sconvolgimenti
politici derivanti dallo scarso controllo del territorio esercitato dalla nuova
autorità e dalle feroci lotte di potere in seno all’élite dirigente emersa dal
golpe. Nel luglio 1976 fu la volta del Maggiore Sisay Hable, numero tre
del regime, condannato a morte assieme a 18 complici per “attività anti-
rivoluzionarie”: la sua posizione di marxista pragmatico disposto a
mantenere aperti i canali diplomatici con gli Stati Uniti e contrario ad un
eccessivo avvicinamento a Mosca lo rendevano sospetto agli occhi di
Menghistu; la scoperta della congiura ordita da Sisay e la sua fazione e la
conseguente durissima punizione furono salutate positivamente
dall’Unione Sovietica
17
, poiché considerate un altro passo avanti verso il
consolidamento del potere di Menghistu, che giorno dopo giorno
diventava sempre più l’uomo del Cremlino ad Addis Abeba.
Di ben altra portata fu invece il vero e proprio “terrore rosso”
instaurato dal Derg alla fine dell’anno contro l’insurrezione anti-
governativa proclamata dall’EPRP (Ethiopian People’s Revolutionary
Party), formazione di estrema sinistra: questo bagno di sangue permise a
15
GORMAN R., Political Conflict on the Horn of Africa, New York, 1981, p. 52.
16
PATMAN R., The Soviet Union in the Horn of Africa: the Diplomacy of Intervention and
Disengagement, Cambridge, 1990, p. 193.
Sempre Patman, riportando le tesi di Paul Henze, sostiene che l’Unione Sovietica avrebbe cominciato a
prendere contatti con diversi ufficiali dell’esercito etiope già all’inizio degli anni 70; tesi peraltro
implicitamente smentite da Ermias Abebe in “The Horn, The Cold War, and Documents from the Former
East-Bloc: an Ethiopian View”, in Bulletin n. 8/9, Cold War International History Project (CWIHP), in
cui l’Autore sostiene che il Derg fu caratterizzato da una totale assenza di indirizzo ideologico e al
contrario da un pragmatismo ai limiti della confusione.
15
Menghistu di eliminare l’opposizione esterna al Derg, lasciando sul
campo migliaia di morti. Tuttavia, i regolamenti dei conti in seno al
governo militare non erano ancora terminati: restava ancora da estirpare
l’opposizione interna al suo potere personale e alla sua strategia di
avvicinamento a Mosca. Così il 3 febbraio 1977 Teferi Bante, Capo di
Stato, venne ucciso assieme ad altri 6 esponenti del Derg in uno scontro a
fuoco, aprendo la via della Presidenza del Paese a Menghistu.
Questi violenti scontri politici in Etiopia non passarono inosservati
a Washington, dove l’Amministrazione Carter si era insediata da poco,
portando con sé una nuova sensibilità nei confronti dell’Africa e del tema
del rispetto dei diritti umani. Infatti il 23 febbraio gli Stati Uniti
annunciarono la revoca del prestito di 6 miliardi di dollari che era stato
promesso all’interno del quadro di cooperazione militare fra i due Paesi,
nonostante ancora il 2 febbraio il Consigliere dell’Ambasciata americana
ad Addis Abeba, Herbert Malin, in un colloquio con un diplomatico
sovietico prevedesse che la svolta socialista etiope non avrebbe
influenzato la normale continuazione della fornitura di materiale bellico da
parte statunitense
18
.
A questa decisione americana il Derg rispose chiudendo le sedi di
quattro organizzazioni americane che operavano in Etiopia ed espellendo
più di 300 ufficiali statunitensi
19
. A questa mossa etiope seguì un’ulteriore
reazione americana, con cui fu deciso l’arresto di ogni fornitura militare
ad Addis Abeba.
17
Ivi, pp. 191-192.
18
Memorandum of Conversation between Soviet Counselor-Minister in Ethiopia S. Sinitsin with Political
Counselor of the U.S. Embassy in Ethiopia Herbet Malin, 2 February 1977, in Bulletin n. 8/9, Cold War
International History Project (CWIHP).
Proprio dal confronto fra questo documento e la successiva decisione americana emerge la propensione
dell’Amministrazione Carter a gestire le questioni di politica africana non nell’ottica di uno scontro
bipolare ma secondo i criteri del rispetto dei diritti umani e dell’interesse nazionale. Infatti, poco dopo
sempre Malin afferma che “the USA, it is understood, is interested in the guarantee of stability in that
region and freedom of navigation in the Red Sea”.
19
PATMAN R., The Soviet Union in the Horn of Africa: the Diplomacy of Intervention and
Disengagement, Cambridge, 1990, p. 206.
16
In realtà si trattava di una serie di scelte ben ponderate da parte
etiope: Menghistu aveva già avuto garanzie da Mosca riguardo
l’assistenza militare, così da potersi permettere di prendere le distanze da
Washington e soddisfare in questo modo la dirigenza sovietica. Infatti già
a marzo cominciarono ad arrivare i primi carri armati russi e le prime
batterie antiaeree, mentre veniva segnalata la presenza in Etiopia del
Generale Arnaldo Ochoa, vice Ministro cubano della Difesa,
accompagnato da circa 200 consiglieri militari. Quest’alleanza in fieri
venne suggellata il 3 maggio dalla visita di Menghistu a Mosca, dove fu
firmata una “Dichiarazione di Principi sulle Relazioni Amichevoli e la
Cooperazione” fra Etiopia e URSS e furono gettate le basi per una
collaborazione ancora più stretta, soprattutto con un secondo accordo di
fornitura di armi ad Addis Abeba di circa 385 milioni di dollari e con la
graduale estensione a tutti i campi della cooperazione bilaterale.
Non bisogna però lasciarsi trarre in inganno da questa serie di
episodi e attribuire a Menghistu una strategia filo-sovietica tanto chiara e
netta, frutto di un presunto rigore marxista: furono principalmente il
pragmatismo e il realismo politico di questo ufficiale del vecchio esercito
imperiale di Addis Abeba a condurlo gradualmente verso un’alleanza
inscindibile con l’URSS in cui entrambe le parti avevano forti interessi a
collaborare. Infatti sia Menghistu sia il Cremlino si trovarono legati a
doppio filo da una relazione in cui Mosca poteva fare affidamento soltanto
su lui, mentre Menghistu aveva bisogno dell’appoggio incondizionato
sovietico per riuscire a sconfiggere le varie opposizioni al consolidamento
del suo potere e così assicurarsi una posizione di relativa sicurezza. Per
ottenere tutto ciò, per Menghistu era necessario ostentare una lealtà ferrea
nei confronti dell’alleato sovietico e dei suoi dogmi, fino a convincere
anche personaggi esperti e scaltri come Fidel Castro
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Transcript of Meeting between East German leader Erich Honecker and Cuban leader Fidel Castro,
East Berlin, 3 April 1977 (excerpts); ERMIAS ABEBE, “The Horn, The Cold War, and Documents from
the Former East-Bloc: an Ethiopian View”, in Bulletin n. 8/9, CWIHP.
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