4
sarebbe rimasto quello del gregario, non avendo il Vecchio Continente – secondo
Samuelson – la capacità di assumere il ruolo di locomotiva.
Economisti e storici dell’economia si interrogavano sulla portata delle conseguenze dell’11
Settembre. Chi, da un lato, affermava che quell’evento avrebbe rallentato la
globalizzazione o, addirittura, che avrebbe avviato un processo di segno contrario – su
tutti il teorico dello “scontro tra civiltà” Samuel Huntington . Huntington è uno dei politologi
americani più famosi, e nel suo libro The clash of civilization, analizzando la situazione
creatasi dopo la caduta del muro di Berlino, sostiene che al sistema bipolare è seguita
una situazione in cui l’interazione tra Occidente e resto del mondo emerge come
problema centrale del nostro tempo.
“con la vittoria nella Guerra Fredda, l’Occidente si presenta come l’unico soggetto in grado
di stabilire regole sul piano internazionale. Però non è affatto pacifico che le altre civiltà
accettino questa egemonia.”3
Altri invece – Giovanni Vigo ad esempio – ponevano l’accento sul fatto che la
globalizzazione è un processo irreversibile. “Eventi come quello accaduto l’11 Settembre
possono frenarlo o ostacolarlo, ma sonbo temporanei.” 4
Secondo alcuni storici la globalizzazione sarebbe un processo di lungo periodo,
discendente addirittura dalla rivoluzione scientifica, accelerata dalla rivoluzione dei
trasporti e delle comunicazioni del secolo scorso ed esplosa letteralmente con la
rivoluzione tecnologica degli ultimi cinquant’anni. Si tratterebbe, quindi, di un processo
lento e irreversibile che, nonostante sia balzato all’attenzione di tutti ed entrato nella
terminologia quotidiana solo negli ultimi anni, affonda le sue radici nella storia.
3
Samuel Huntington, The Clash of Civilizations, 2000
4
Giovanni Vigo, intervita rilasciata al Corriere Economia del 17 Settembre 2001.
5
Diametralmente opposte sono invece le conclusioni a cui giunge Samuel Huntington,
secondo il quale l’11 Settembre sarebbe l’ulteriore tragica conferma del fatto che esistono
profonde e incolmabili differenze tra civiltà e che ciò inevitabilmente comporterà la fine
dell’illusione globale.
Al di là di questi estremismi, ciò che comunque emerge chiaramente è che le economie
dei paesi sviluppati sono fortemente integrate ed inevitabilmente le conseguenze di
recessioni e riprese economiche fanno sentire i loro effetti sulle economie di diverse
nazioni. Emettere un verdetto sul futuro della globalizzazione può risultare imprudente.
Sicuramente la globalizzazione dell’economia mondiale influisce ed influenzerà qualsiasi
aspetto degli affari interni ed internazionali. La crescita del commercio con l’estero, gli
enormi flussi finanziari internazionali, la crescente importanza delle attività delle imprese
multinazionali stanno creando legami sempre più stretti tra le varie economie. Ma ciò
potrebbe rappresentare una criticità più che un’opportunità offerta dalla globalizzazione.
L’attacco terroristico dell’11 Settembre 2001 ha impietosamente messo a nudo la fragilità
degli equilibri internazionali, minando pericolosamente la fiducia nei benefici che un alto
grado di integrazione internazionale potrebbe apportare alle singole economie nazionali.
Alle ormai note difficoltà che il processo di globalizzazione deve affrontare – il dibattito sui
labour standards, i timori che la crescita degli scambi, degli investimenti esteri e dei flussi
finanziari producano conseguenze negative per quelle economie considerate più deboli, le
inevitabili spinte protezioniste che ne conseguono - si aggiunse l’inevitabile, prevedibile
desiderio di chiusura, di protezione dall’esterno degli Stati Uniti. Le voci allarmistiche dei
detrattori della globalizzazione li levarono prepotenti. E l’interrogativo più discusso fu:
quale futuro per la globalizzazione?
6
Per azzardare una risposta e cercare di scrutare nel futuro, perché non dare uno sguardo
al passato? La storia economica ci fornisce un esempio importante di come l’economia
mondiale ha reagito in occasione di un altro grave momento di crisi e di certezze infrante:
la Grande Crisi del 1929. Strutturalmente diverso come evento e quindi non propriamente
assimilabile a quanto viviamo oggi, è però sicuramente indicativo dei meccanismi
attraverso i quali una grande crisi si propaga da un’economia ad un’altra, soprattutto
quando queste sono intergrate fra loro.
E sicuramente è possibile imparare qualcosa dal modo in cui quella crisi fu gestita, ed è
possibile trarre indicazioni importanti dalle conseguenze di quel fenomeno per caercare di
intuire in che modo evolverà quello attuale: se cioè dobbiamo aspettarci un ritorno alla
frammentazione nazionale o riconoscere in quest’evento una svolta che produca una
spinta verso un nuovo ciclo di integrazione internazionale. L’esperienza del passato,
soprattutto quella degli anni immediatamente successivi alla fine della Crisi e ai due
Conflitti Mondiali, ci racconta che è possibile uscire da profonde crisi forti
dell’insegnamento che queste ci lasciano: allora, la lezione che si trasse fu che i mercati
non possono essere lasciati a loro stessi e che l’intervento dello Stato nell’economia può
essere risolutivo in momenti particolarmente critici, per superare la congiuntura
sfavorevole.
Ma, dopo qualche tempo di inevitabile chiusura, rinacque la spinta verso l’integrazione e
l’apertura, con la consapevolezza della necessità di strutturare un sistema internazionale
di gestione dell’economia e dei rapporti commerciali tra i paesi.
L’eredità che dopo tanti anni ci lascia quell’esperienza è un sistema di organizzazioni
internazionali creato apposta per prevenire un nuovo, grande Crollo, ed è proprio attorno a
queste istituzioni che si concentrano malumori e dibattiti sulla sostenibilità nel lungo
periodo della globalizzazione. L’attenzione è focalizzata sul modo in cui queste istituzioni
7
rispondono alle istanze più urgenti dei nostri tempi: la povertà, lo sviluppo economico, la
concorrenza sleale, gli standard di vita e di lavoro. Questi temi sembrano essere i veri
scogli capaci di far naufragare la nave della globalizzazione.
Dunque: un momento di forte tensione, un periodo di profonda incertezza e instabilità
economica e politica può determinare la fine della globalizzazione? Se così fosse
dovremmo considerare questo fenomeno come transitorio, caratterizzato da maggiore
integrazione e maggiore mobilità di fattori, popoli e flussi finanziari, ma comunque soltanto
un fenomeno passeggero, non destinato ad affermarsi come tendenza di lungo periodo.
Oppure la storia economica, neppure troppo lontana nel passato, può suggerirci
considerazioni diverse, diverse conclusioni? Se in passato, come dimostra il periodo
successivo alla Grande Crisi, si è riusciti a superare il momento di stallo e si è riaffermata
la tendenza ad una crescente integrazione, cosa impedisce che ciò possa ancora
accadere? E se, come in passato, la globalizzazione dimostrasse di essere più forte di
una crisi economica e finanziaria, questa sarebbe la prova definitiva del fatto che non si
tratta di un fenomeno transitorio o, invece, le cause che potrebbero determinarne la fine
andrebbero semplicemente ricercate altrove?
Alla risoluzione di questi quesiti probabilmente sarà dedicato il dibattito economico per i
prossimi anni. In questo lavoro, attraverso uno sguardo approfondito al passato e
un’analisi il più attenta possibile al presente, si cerca solo di fornire un quadro d’insieme di
quello che la globalizzazione è stata in passato, di ciò che significa oggi, del perché se ne
discuta tanto. Del destino della globalizzazione deciderà la globalizzazione stessa,
attraverso le organizzazioni e le istituzioni che la governano: il suo percorso non è già
segnato, come vorrebbero Minsky o Huntington ad esempio, ma è ancora da scrivere, e
dipenderà fondamentalmente da come quelle istituzioni sapranno rispondere a quanti
chiedono che la globalizzazione riduca davvero le distanze, e non solo quelle geografiche.
8
I
GLOBALIZZAZIONE TRA PASSATO E
PRESENTE: CRONACA DI UN LUNGO
PERCORSO AD OSTACOLI
“La globalizzazione è la grande sfida della fine del secolo perché, a differenza di quanto è
accaduto nel 1900, la velocità di integrazione dell’economia è incredibilmente aumentata.”
Rudi Dornbush, Le chiavi della prosperità, EGEA, 2001, pag.9.
9
1. Globalizzazione oggi
Il termine “globalizzazione” è, probabilmente, uno dei più utilizzati, a volte impropriamente,
negli ultimi tempi. Lo utilizziamo quando parliamo di economia e di investimenti; ne
sentiamo parlare, a volte con preoccupazione, a proposito di mercati del lavoro e
ambiente; apprendiamo dai media delle contestazioni contro questa “idea” da parte dei
cosiddetti no-global. Ed è un termine che in fin dei conti non è molto lontano
dall’esperienza quotidiana di ognuno di noi: c’è chi dice infatti, a ragione, che siamo
“globalizzati” anche nella spesa al supermercato o nell’abbigliamento. Quasi ogni cosa
sembra permeata da una dimensione globale. Molto spesso sentiamo affremare che la
globalizzazione ha reso il nostro pianeta, le economie nazionali e i popoli, elementi di un
grande villaggio, il villaggio globale appunto. Ma sappiamo davvero cos’è la
globalizzazione?
In realtà siamo ben lontani dall’aver raggiunto un simile grado di integrazione mondiale.
Accantonando definizioni suggestive, ma alquanto generiche, possiamo accogliere la
definizione in termini economici proposta da Pollin, Baker ed Epstein 5, ad esempio:
“La globalizzazione può essere descritta come il crescente indice o, per
meglio dire, il più alto livello di interazioni economiche tra popoli e paesi
diversi, accompagnato da un cambiamento in termini qualitativi nei rapporti
esistenti tra nazioni ed economie nazionali”.
Per darne una definizione più completa è necessario analizzare i cambiamenti occorsi,
negli ultimi decenni, agli aspetti più significativi dell’economia mondiale – il commercio
5
R. Pollin, D. Baker, G. Epstein, Globalization and progressive economic policy, CUP 1998, pag.
5.
10
internazionale, i flussi finanziari e gli investimenti, i flussi migratori ad esempio.
Consideriamo il commercio mondiale.
Consultando i dati delle esportazioni in rapporto al PIL nel periodo cha va dal 1820 al
1992, è possibile osservare che l’intensità dei commerci internazionali – espressa appunto
dal rapporto esportazioni/PIL in percentuale – nel 1992 era pari al 13,5%, all’11,2% nel
1973 e pari al 7% nel 19506. Questo indubbiamente significa che negli ultimi cinquant’anni
l’intensità dei commerci a livello internazionale è aumentata in modo impressionante. Ma
non è altrettanto corretto affermare che si sono raggiunti livelli mai registrati prima. E’
significativo infatti che il tasso nel 1950 era più basso rispetto a quello registrato nel 1913,
l’8,7% e più basso del 9% registrato nel 1929, come possiamo osservare nella tabella 1.
Il commercio mondiale è rapidamente cresciuto nel corso del ventesimo secolo: il periodo
di crescita più intenso si è avuto tra il 1950 ed il 1973, ad una media annua pari all’1,7%.
La crescita ha però rallentato il suo cammino tra il 1973 ed il 1992, fermandosi attorno
all’1,1%. Questo è stato l’andamento medio di quasi tutti i grandi paesi, con un’unica
6
Ibidem, pag. 5.
11
importante eccezione, gli USA, in cui la crescita del commercio ha subito un’accelerazione
nel periodo tra il 1973 ed il 1992 pari al 3,4% annuo7.
Nel corso degli ultimi anni, il volume del commercio mondiale è cresciuto più velocemente
rispetto al PIL mondiale; ciò significa che una parte crescente della produzione mondiale
ha oltrepassato i confini nazionali. Durante lo stesso periodo le barriere commerciali si
sono ridotte notevolmente, in conseguenza dei cicli di negoziazione commerciale –
fortemente incoraggiati da GATT e WTO –, di atti di liberalizzazione commerciale
unilaterali e di accordi commerciali regionali. Uno sguardo più attento ai dati rivela che già
fin dagli anni ’60 le tariffe commerciali sulla produzione manifatturiera dei maggiori paesi
sono diminuite dell’1,1%, mentre le esportazioni in percentuale del PIL sono cresciute solo
del 3,4%8.
Sicuramente la diminuzione delle tariffe commerciali è avvenuta prima della grande
crescita del commercio internazionale. Sembra comunque che la riduzione delle tariffe da
sola, non possa spiegare l’accelerazione nella crescita del commercio mondiale. In un
recentissimo studio, Nordàs mostra come, in realtà, non possa affermarsi che
l’intensificazione dei commerci a livello internazionale sia dovuta solo a minori barriere
commerciali rispetto al passato.
studiando l’elasticità delle esportazioni rispetto alle tariffe commerciali, Nordàs mostra che
nel periodo compreso tra il 1962 ed il 1985 il dato era pari al 7%, mentre nel periodo
compreso tra il 1986 ed il 1999 si attestava intorno al 50%. Questo dato è molto al di
sopra rispetto ai livelli normali: perciò, evidentemente, secondo Nordàs, devono esserci
7
R. Pollin, D. Baker, G. Epstein, Globalization and progressive economic policy, CUP 1998, pag.
5-6.
8
Nordàs, Hildegunn Kyvik, Fragmented production: regionalization of trade? WTO Eorking
Paper, Agosto 2003
12
altri fattori, accanto indubbiamente alla diminuzione delle barriere commerciali, che
possono spiegare l’aumento del volume dei commerci internazionali.
Altri ricercatori sostengono che almeno la metà dell’incremento osservato nel commercio
mondiale può essere spiegato attraverso l’impiego di modelli che comprendono il concetto
di specializzazione verticale. Esiste, cioè, un processo dinamico attraverso il quale le
innovazioni tecnologiche e organizzative hanno reso possibile la frammentazione del
processo produttivo, mentre l’abbassamento delle barriere commerciali crea incentivi
economici per l’allocazione di diversi stadi produttivi in diversi paesi. Alcuni stadi produttivi
possono essere ad alta intensità di capitalei, altri ad alta intensità di lavoro, specializzato o
non specializzato.
Quando le barriere commerciali sono minori, ci sono incentivi per allocare gli stadi
produttivi labour-intensive in quei paesi in cui c’è abbondanza di manodopera a basso
costo, mentre per gli stadi capital-intensive si cercano paesi in cui il costo del capitale è
più basso. La specializzazione verticale consente dunque ad un paese di sfruttare il suo
vantaggio comparato, a condizione però che le tariffe commerciali e gli altri costi di natura
commerciale siano sufficientemente bassi.
L’aumento del volume dei commerci internazionali quindi non può essere spiegato solo in
funzione di un unico fattore determinante – la diminuzione delle tariffe – mava spiegato
alla luce di più fattori, tra loro strettamente correlati.
Accanto alla crescita del commercio internazionale, l’ondata attuale di globalizzazione è
caratterizzata in modo netto dall’espansione dei mercati globali e degli investimenti diretti
all’estero. Questi ultimi, in particolare, sono aumentati enormemente dalla fine degli anni
Ottanta, superando anche la crescita della produzione economica mondiale. Tuttavia, uno
sguardo più attento ai dati del periodo 1913-1995 ci regala un quadro ambiguo: è indubbio
13
che gli investimenti esteri diretti sono cresciuti in maniera sostanziale rispetto agli anni ’60,
ma si tratta di una crescita non particolarmente eclatante se paragonata a quanto
accaduto alla fine del diciannovesimo secolo9 e agli inizi del ventesimo, periodo a cui
alcuni storici fanno risalire la “prima globalizzazione”10.
Fin dai primi anni ’80 gli investimenti esteri diretti hanno raggiunto un tasso di crescita
quattro volte maggiore rispetto a quello del commercio internazionale11. Si è verificato
anche un largo incremento nel flusso degli investimenti diretti verso i paesi in via di
sviluppo, con un cambiamento nella composizione degli investimenti, prima orientati
soprattutto nel settore estrattivo ed ora orientati al settore manifatturiero e dei servizi.
L’importanza delle multinazionali in questo campo è evidente, se consideriamo inoltre che,
secondo i dati raccolti da Ha-joon Chang12, l’output complessivo delle multinazionali fin
dagli anni ’70 ha superato ormai il volume globale del commercio internazionale. e proprio
sul ruolo delle multinazionali si concentrano dibattiti e polemiche tra quanti vedono in
queste imprese la forza trainante della globalizzazione e quanti vi scorgono pericoli di
speculazioni destabilizzanti per l’intera economia mondiale.
“Globalizzazione” quindi non significa solo avere sulla nostra tavola cibi esotici, o poter
volare dall’altra parte del mondo a costi sempre più bassi. Si tratta di un fenomeno di
vasta portata, non recentissimo, bensì definibile come un trend ormai consolidato, dalle
implicazioni importanti – sul mercato del lavoro, sulle politiche economiche nazionali, sulle
possibilità di sviluppo delle economie emergenti e sull’assetto attuale degli equilibri politici
e commerciali a livello mondiale. Ci si interroga sul suo percorso futuro: nulla di più
complicato a cui dare risposta, in un mondo in continuo evolversi. Ma l’economista può
9
R. Pollin, D. Baker, G. Epstein, Globalization and progressive economic policy, CUP 1998, pag.
10-11.
10
Cfr. Gianni Toniolo – Così finì la prima globalizzazione – Il Sole 24 Ore, 2002.
11
R. Pollin, D. Baker, G. Epstein, Globalization, transnational corporations, economics
development, pag. 98.
14
cercare risposte, indizi, nel passato per guardare al futuro. Capire come e perché questo
fenomeno si è sviluppato, e come ha reagito agli inevitabili momenti di crisi è forse, in
mancanza di una palla di cristallo, l’unico modo per capire in che modo governarlo al
meglio nel futuro.
2. Un viaggio a ritroso nel tempo: quando è cominciata?
Se è vero che il termine “globalizzazione” è entrato nel linguaggio quotidiano solo da
alcuni anni, è altrettanto innegabile che si tratti di un fenomeno o, per meglio dire, di una
tendenza, di cui si possono trovare tracce scavando a ritroso nel tempo.
La questione relativa alla data a cui può farsi risalire l’inizio della globalizzazione è oggetto
di dibattito intenso ed affascinante. Mentre alcuni storici mondiali risalgono addirittura fino
al 1492, anno della scoperta dell’America, attribuendo quindi a Cristoforo Colombo il
merito di aver dato inizio al processo di “rimpicciolimento” del mondo, altri sottolineano
12
Ibidem, pag. 98.
15
come la data realmente importante nella storia dell’umanità sia il 27 Luglio 1866, giorno in
cui fu inaugurato il servizio telegrafico transatlantico tra Londra e New York. Questa
piccola ma importantissima rivoluzione ridusse i tempi di esecuzione e il costo sia dei
trasporti che delle comunicazioni più di quanto, in termini marginali, non avrebbe fatto il
web, più di un secolo dopo13.
Accanto a datazioni simboliche, proposte per sottolineare l’importanza di eventi storici che
a posteriori ci sembrano quasi decisivi, un tentativo approfondito di dare soluzione al
quesito su quando sia cominciato il processo di globalizzazione è stato compiuto dai
sociologi dell’Università Johns Hopkins di Baltimora, C. Chase-Dunn, Y. Kawano e B.
Brewer14, con risultati interessanti.
Innanzitutto, per condurre al meglio qualsiasi tipo di ricerca è necessario definirne con
precisione l’oggetto: Dunn, Kawano e Brewer distinguono prima di tutto tra globalizzazione
strutturale e globalizzazione economica.
- Per “globalizzazione strutturale” intendiamo sia l’integrazione tra i mercati e le
istituzioni preposte al loro governo (quindi delle strutture che definiscono il
sistema globale), sia le interdipendenze che si creano in conseguenza
dell’integrazione.
- Quando parliamo di “globalizzazione economica” invece, facciamo riferimento
all’integrazione nell’organizzazione della produzione, distribuzione e consumo di
beni nell’economia mondiale.
Lo studio condotto dagli autori citati è incentrato sul concetto di “apertura media” - agli
scambi con l’estero – di un paese come misura della globalizzazione commerciale, in
13
Cfr. Gianni Toniolo, op.cit.
16
modo da porre in evidenza quali sono stati i cambiamenti nell’organizzazione del sistema
mondiale considerato nel suo complesso.
Generalmente la globalizzazione commerciale viene misurata considerando il totale di
tutte le esportazioni internazionali rapportato in percentuale alla produzione globale, che a
sua volta è la somma dei PIL nazionali. Nei calcoli è preferibile utilizzare le somme relative
alle importazioni poiché i dati statistici disponibili sono più accurati. Questa metodologia di
calcolo presenta numerosi inconvenienti, primo dei quali la necessità di rivalutare gli
importi relativi ad operazioni risalenti ad oltre un secolo fa; inoltre è necessario convertire
secondo un’opportuna parità tutti gli importi per ottenere dati in dollari USA, introducendo
quindi un ulteriore elemento discrezionale.
Nonostante ciò, i dati così trasformati15 mostrano che già a partire dal 1820 si era in
presenza di un certo grado di integrazione commerciale. L’economia mondiale crebbe
rapidamente fino a raggiungere un picco nel 1929, per poi arrestarsi durante la
Depressione e durante il periodo coincidente con la seconda Guerra Mondiale. Da quel
momento in poi ebbe inizio un recupero e il trend positivo di crescita, che si intensificò
prima lentamente tra il 1980 e il 1985, per poi esplodere fino agli anni ’90, quando si
raggiunge un livello di integrazione mai raggiunto prima16. La ricerca condotta utilizzando i
dati di Maddison ci consente di stabilire almeno un punto fermo: la globalizzazione non è
un fenomeno recente ed isolato.
Partendo da questa considerazione gli autori hanno elaborato un approccio differente, che
consenta di aggirare gli ostacoli relativi ai tassi di cambio e alle correzioni per l’inflazione.
si tratta del calcolo dell’apertura media (Average Openness), ottenuta determinando il
14
C. Chase-Dunn, Y. Kawano, B.Brewer, Economic globalization since 1795: structures and
cycles in the modern world-system, 1999.
15
Cfr. Maddison’s World Totals.
16
C. Chase-Dunn, Y. Kawano, B. Brewer, op. cit.