Nel primo capitolo vedremo come gli utilitaristi rispondono a questa obiezione
degli egualitari legando la massimizzazione dell’utilità collettiva all’eguaglianza
di risorse attraverso la teoria dell’utilità marginale decrescente. «La mia utilità
“marginale” è quella quantità di utilità che viene aggiunta al mio totale di utilità
quando acquisisco un’unità di risorse in più. E’ noto che la grandezza di questo
guadagno decresce con l’aumentare di consumo delle risorse».
4
L’Uguaglianza liberale
“Salve. Lavoro per il ministero dell’Eguaglianza. Ti senti, per caso, insolitamente
felice oggi?”
Così G. A. Cohen esprime il suo sconcerto di fronte all’idea che lo stato possa
legittimamente cercare di egualizzare il benessere delle persone.
Se è vero che tutte le teorie, compresi l’utilitarismo e il liberismo, possono
essere considerate favorevoli all’eguaglianza di “qualche cosa” al livello delle
prescrizioni politiche, cioè tutte condividono l’idea dell’eguaglianza
fondamentale tra gli esseri umani, allora «condividono l’idea di egualizzare una
qualche dimensione della vita umana».
5
Il problema può essere sintetizzato da questa domanda di Amartya Sen:
“eguaglianza di che cosa”? Il dibattito all’interno della corrente egualitaria si
articola proprio intorno a questa domanda. Per Rawls la risposta è
nell’eguaglianza dei “beni primari” (ad esempio la libertà e il reddito), cioè di
quei beni che sono mezzi per altri scopi.
Secondo A. Sen ciò che una società dovrebbe egualizzare sono le “capacità
fondamentali”, cioè la capacità delle persone di fare determinate cose
fondamentali, come quella di circolare, di soddisfare la richiesta di nutrizione o
di vestiario, la possibilità di partecipare alla vita sociale. «La nozione di urgenza
connessa a quest’impostazione non è pienamente catturata né dall’utilità né dai
beni primari né da qualche combinazione dei due. […] L’attenzione per le
capacità fondamentali può essere interpretata come un’estensione
dell’interesse di Rawls per i beni primari, con l’avvertenza di spostare
l’attenzione dai beni a ciò che i beni fanno agli esseri umani».
6
R. Arneson si concentra sulle uguali “opportunità di benessere”. L’opportunità è
la possibilità di accedere ad un bene scarso qualora lo si cercasse; eguali
opportunità di benessere si hanno quando ogni persona dispone di una gamma
di opzioni equivalente a quelle di tutti gli altri in termini delle prospettive che tale
gamma offre per la soddisfazione delle preferenze, cioè quando le persone si
trovano di fronte ad alberi decisionali equivalenti. Supponiamo che il Lunedì
Smith e Jones si trovino di fronte a ventagli di opzioni equivalenti; se il Martedì
Smith comincia a fare scelte negligenti in modo che Jones ottiene maggiori
opportunità, questa non è un’ingiustizia perché possiamo rintracciare almeno un
momento in cui i due avevano uguali opportunità.
R. Dworkin aderisce invece alla tesi dell’eguaglianza di “risorse”. Una divisione
egualitaria delle risorse prevede una qualche forma di mercato, sia come
strumento analitico che come istituzione politica reale. Supponiamo che dopo
un naufragio un discreto numero di persone si trovi disperso su un’isola
deserta; si decide di creare una nuova società e si incarica una persona di
distribuire le risorse. Questa incontrerà delle difficoltà, ma immaginiamo che,
tramite degli scambi con le isole vicine, riesca a creare un numero X di panieri
uguali pari alla popolazione. Le risorse sono distribuite in modo uguale se, ad
esempio, esiste anche una sola persona che detesta i beni di quel paniere? La
soluzione sembra allora quella di stabilire che una merce diventi moneta
affinché ognuno possa comprare il paniere che preferisce. Come possiamo
però risolvere il problema delle diseguaglianze future? Infatti Dworkin non
condivide il principio secondo cui, una volta assicurata la parità della
distribuzione iniziale, la diseguaglianza non ci interessa più.
Dobbiamo prima di tutto distinguere tra “sorte bruta” e “sorte opzionale”, in
modo da poter stabilire quali sono i danni provocati coscientemente attraverso
dei rischi calcolati. Chi soffre di un handicap dalla nascita, infatti, deve avere la
possibilità di vivere come gli altri. A questo punto Dworkin propone un
complicato sistema di aste iniziali combinate all’imposizione di tasse sul reddito
come premi assicurativi; ci si potrà cioè assicurare contro la sorte bruta.
Infine, l’ideale di B. Williams è quello della “comune umanità”. Egli fa della
formulazione filosofica kantiana secondo cui gli uomini sono agenti morali una
capacità empirica, non più una caratteristica trascendentale. “Tratta ogni uomo
come fine a sé stesso e non semplicemente come mezzo”, ma si deve ad
ognuno anche uno sforzo di identificazione: ci si deve impegnare a vedere il
mondo dal punto di vista di ciascuno; dobbiamo ad ogni uomo lo sforzo di
comprenderlo, e dobbiamo farlo astraendo da certe vistose strutture di
ineguaglianza in cui lo incontriamo. Considerati questo ideale e alcune
distinzioni fondamentali, come quella tra la diseguaglianza relativa al bisogno e
quella relativa al merito, Williams è favorevole ad una versione “umana” (non
esasperata) dell’equa eguaglianza delle opportunità.
Il Liberismo
Consideriamo come esempio la Teoria del titolo valido di Robert Nozick. Essa
consta di tre principi fondamentali:
1. principio di giustizia nei trasferimenti (tutto ciò che si è acquisito
giustamente si può liberamente trasferire);
2. principio di giustizia nell’acquisizione iniziale, che spiega il processo
attraverso il quale le persone possono giungere a possedere le cose che
poi possono trasferire in armonia con 1;
3. principio di rettificazione dell’ingiustizia, che riguarda il problema di come
trattare i beni ingiustamente acquisiti o trasferiti.
Se possiedo un appezzamento di terreno il primo principio mi dice che,
relativamente ad esso, posso procedere a qualunque trasferimento; il secondo
spiega il modo in cui quel terreno è diventato proprietà di qualcuno; il terzo ci
suggerisce cosa fare in caso di violazione dei primi due principi. Secondo
Nozick, se le proprietà attuali delle persone sono state giustamente acquisite, la
formula della distribuzione giusta è la seguente: «da ciascuno secondo come
sceglie, a ciascuno secondo come viene scelto».
7
Dunque per Nozick è giustificato solo uno stato minimo, ridotto alle funzioni di
protezione contro il furto o la frode, di esecuzione dei contratti ecc.. Si
escludono quindi una scuola pubblica o un servizio pubblico di trasporti o
sanitario in quanto presuppongono la tassazione di certe persone contro la loro
volontà.
Il Comunitarismo
Tutte le teorie fin qui esaminate condividono un assunto importante; pur
divergendo nell’indicazione dei modi in cui si deve mostrare uguale sollecitudine
per gli interessi delle persone, esse concordano sul modo di caratterizzare
quegli interessi: promuoverli vuol dire lasciare che le persone scelgano il tipo di
vita che desiderano vivere. Il comunitarismo contesta l’idea liberale di
autodeterminazione che trascura le precondizioni sociali necessarie a
consentire un esercizio pieno di questa capacità. Infatti alcuni non sono “bene
equipaggiati” per affrontare le scelte che hanno di fronte e concedergli la piena
autodeterminazione, nel senso liberale, vuol dire lasciarli (consapevolmente)
sbagliare.
I comunitaristi contestano inoltre il concetto di “neutralità dello stato”. Se per i
liberali promuovere il bene comune vuol dire lasciare che gli interessi personali
si combinino in una funzione di scelta sociale (combinazione delle preferenze),
in una società comunitaristica il bene comune è una concezione sostantiva
della vita buona che definisce lo stile di vita della comunità. Esso non si
armonizza con le preferenze della gente ma è il criterio di riferimento in base al
quale queste preferenze vengono adottate.
Uno stato comunitarista può, e deve, incoraggiare i cittadini ad adottare
concezioni del bene in armonia con lo stile di vita della comunità.
Infine i comunitaristi contestano la concezione liberale dell’Io. M. J. Sandel
sostiene che l’Io, lungi dal venir prima dei suoi fini, ne è costituito; La vera
libertà è inevitabilmente situata. La nostra vita andrà meglio non se avremo le
condizioni necessarie per scegliere e rivedere i nostri progetti, ma solo se
avremo le condizioni necessarie per diventarne consapevoli.
Nel capitolo I esporrò tre teorie normative della giustizia: la teoria di John
Rawls, l’utilitarismo delle regole di J. C. Harsanyi e la concezione delle Sfere di
giustizia di Michael Walzer. Quest’ultima rappresenta un’interessante
prospettiva pluralista che, rispetto alle correnti di pensiero già elencate, è
maggiormente orientata all’uso dei dati empirici. E’ proprio questa caratteristica
di maggiore aderenza alla concreta realtà delle distribuzioni ad avvicinare
Walzer all’approccio empirico allo studio della giustizia locale di Jon Elster, di
cui parlerò diffusamente nel capitolo II.
Nel capitolo III esaminerò due temi che possono essere considerati di
importanza “vitale” dal punto di vista della giustizia distributiva: l’immigrazione e
i trapianti di organi; traccerò una breve “storia” dell’allocazione, in Italia e negli
Stati Uniti, di questi beni scarsi. Infine tenterò di dimostrare come nessuna delle
teorie normative esposte offra delle soluzioni accettabili per questi problemi. Ma
“accettabili” secondo quali parametri di giudizio, e per chi?
Si può provare a rispondere con queste considerazioni di W. Kymlicka: «Quanto
ai criteri con cui valutare il successo della filosofia politica nell’espletamento del
suo compito, credo che per una teoria della giustizia il test decisivo sia
rappresentato dalla sua capacità di collimare con le nostre convinzioni
ponderate sulla giustizia e di contribuire a illuminarle. Se la riflessione ci porta a
far nostra l’intuizione che la schiavitù è ingiusta, il fatto che una teoria della
giustizia che ci viene proposta giustifichi la schiavitù costituisce un’obiezione
molto forte contro di essa. […] Naturalmente è possibile che queste intuizioni
siano prive di fondamento […] Ma secondo me non esiste nessun altro modo
plausibile di procedere. A ogni buon conto, sta di fatto che noi abbiamo un
senso intuitivo del giusto e dell'ingiusto, ed è naturale, anzi inevitabile, che
cerchiamo di svolgerne le implicazioni»
8
Elster condivide con Kymlicka (e con Rawls) la convinzione che abbiamo un
senso intuitivo del giusto e dell’ingiusto; la differenza è che l’autore norvegese
intende sottolineare che queste intuizioni sono fondate su dati empirici. Le
proposte delle teorie normative della giustizia dovrebbero essere accettabili
secondo il “senso comune”, inteso come le «concezioni della giustizia sostenute
dalle persone addette alle decisioni e alla risoluzione dei problemi collocate in
posizioni centrali»
9
. Per posizioni centrali si intende il fatto che esse «sono a un
livello medio di generalità e di astrattezza. Non si tratta di intuizioni su casi
particolari, come l’immoralità della tortura di bambini piccoli, ma “intuizioni di
alto livello”, come l’idea che la distribuzione dovrebbe essere sensibile alle
ambizioni ma non alle dotazioni individuali. Non so come sia possibile derivarle
da una singola, generale, concezione della giustizia; è invece possibile che
esse siano tutt’altro che pienamente coerenti tra loro».
10
Credo che la “distanza” tra le teorie politiche normative coinvolte nel dibattito
contemporaneo, le esigenze concrete delle istituzioni allocatrici e le nostre
intuizioni sulla giustizia distributiva possa essere colmata (almeno in parte) dallo
studio empirico proposto da Elster.
Un esempio molto significativo del suo metodo di analisi dei problemi distributivi
si trova in un articolo del 1995, The idea of equality revisited, in cui l’autore
critica L’idea di eguaglianza di Bernard Williams in quanto priva di fondamenti
empirici.
Gli unici riferimenti concreti nell’opera di Williams riguardano i temi della salute
e dell’educazione. Egli sostiene che il principio distributivo appropriato in campo
medico sia la gravità della malattia: questa è una verità necessaria.
Al contrario Elster non crede nell’autonomia interna alle sfere di giustizia, né
all’esistenza di principi che regolino la distribuzione dei beni all’interno di queste
sfere. Egli procede alla dimostrazione dell’inadeguatezza dell’impostazione di
Williams lungo due livelli. In primo luogo supponiamo di dover distribuire un
bene X e di poter scegliere tra due individui I e II; stabiliamo inoltre che se il
bene X è costituito, ad esempio, da un rene per un trapianto, dobbiamo
considerare Y come l’aspettativa di vita dell’individuo. Secondo il principio del
“livellamento” dovremmo concedere il bene all’individuo I se YI < YII.
Se invece utilizziamo il principio dell’”incremento” dovremmo concedere il bene
a I solo se (YI¹ – YI) > (YII¹ – YII).
Dunque il primo principio ci suggerisce di dare la priorità a chi è nelle condizioni
peggiori; il secondo a chi “userà meglio” il bene. Questi due criteri spesso
coincidono, ma si possono verificare molte situazioni in cui il principio del
“livellamento” si rivelerà contrario a qualunque considerazione di efficienza (ad
esempio, nel caso dei trapianti; se il paziente più grave è anche quello con il
maggior rischio di rigetto).
In secondo luogo la tesi di Williams va incontro a tre difficoltà:
1. il problema degli incentivi (a volte le malattie sono causate dal
comportamento irresponsabile delle persone).
2. Il paternalismo: se è vero che alcuni individui potrebbero essere così
poveri e/o male informati da “vendere la propria salute”, ad esempio
rinunciando ad una cura in cambio di un risarcimento, dobbiamo
considerare prima di tutto che questo non è necessariamente un
comportamento miope o irrazionale; in secondo luogo che un tale
argomento empirico non può essere usato per dimostrare un principio
necessario come quello di Williams.
3. L’invidia: il principio del “livellamento” tende verso quello “tutti o
nessuno”.
Note
1
S., Veca, Introduzione a Giustizia e liberalismo politico, introduzione e cura di
Salvatore Veca, Milano, Feltrinelli, 1996, p. 5
2
Ibidem
3
I., Carter, Introduzione a L’idea di eguaglianza, introduzione e cura di Ian
Carter, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 9
4
Ivi, p. 10
5
Ivi, p. 14
6
A., Sen, Eguaglianza di che cosa?, in L’idea di eguaglianza, introduzione e
cura di Ian Carter, Milano, Feltrinelli, 2001, p. 89
7
R., Nozick, Anarchia, Stato, Utopia, Firenze, Le Monnier, 1981, p. 171
8
W., Kymlicka, Contemporary political philosophy. An introduction, Clarendon
Press, Oxford, 1990 (tr., it., Introduzione alla filosofia politica contemporanea,
Milano, Feltrinelli, 2000, pp. 15, 16)
9
J., Elster, Local justice. How institutions allocate scarce goods and necessary
burdens, New York, Russell Sage Foundation, 1992 (tr., it., Giustizia locale.
Come le istituzioni assegnano i beni scarsi e gli oneri necessari, Milano
Feltrinelli, 1995, p. 220)
10
Ibidem
John Rawls: Una teoria della giustizia
Giustizia come equità
«La giustizia è la prima virtù delle istituzioni sociali»
1
. Così come una teoria
deve essere abbandonata se non è vera, allo stesso modo un sistema di leggi e
istituzioni deve essere riformato o abolito se è ingiusto.
L’unico motivo che ci permette di conservare una teoria erronea è la mancanza
di una teoria migliore.
La società è un’impresa per il reciproco vantaggio ma in essa convivono
conflitto ed identità di interessi: c’è identità di interessi perché la cooperazione
consente a tutti una vita migliore; esiste un conflitto dal momento che le
persone sono direttamente interessate al modo in cui vengono distribuiti i
prodotti della loro collaborazione. Serve quindi un insieme di principi per
scegliere tra i vari assetti sociali che determinano questa divisione dei vantaggi.
Questi principi sono i principi della giustizia sociale: essi forniscono un metodo
di divisione dei diritti e dei doveri fondamentali all’interno delle istituzioni sociali,
e definiscono la distribuzione dei benefici e degli oneri della cooperazione.
Diciamo che una società è bene-ordinata quando: 1) ognuno accetta e sa che
gli altri accettano i medesimi principi di giustizia e 2) le istituzioni fondamentali
della società soddisfano generalmente, e in modo riconosciuto, questi principi.
Si può considerare il concetto di giustizia come ciò che le diverse concezioni di
giustizia hanno in comune: coloro che sostengono diverse concezioni di
giustizia possono ancora essere d’accordo sulla necessità di uno specifico
insieme di principi che assegnino diritti e doveri fondamentali. La struttura
fondamentale della società, cioè il modo in cui le istituzioni maggiori
distribuiscono i diritti e i doveri fondamentali e suddividono i benefici della
cooperazione, è l’oggetto principale della giustizia. La struttura include differenti
posizioni sociali, cioè porta inevitabilmente con sé un certo grado di
ineguaglianza; poiché uomini nati in differenti posizioni sociali hanno differenti
aspettative di vita, è a queste ineguaglianze che devono essere applicati i
principi della giustizia sociale. Questi principi regolano anche la scelta di una
costituzione politica e di un sistema economico. Un concetto di giustizia viene
quindi definito dal ruolo che i suoi principi hanno nell’assegnazione di diritti e
doveri e nella distribuzione dei benefici sociali; una concezione della giustizia è
un’interpretazione di questo ruolo. Lo scopo di Rawls è quello di presentare una
concezione della giustizia che porta ad un livello più alto di astrazione la teoria
del contratto sociale quale si presenta in Locke, Kant e Rousseau. L’idea guida
non è quella che il contratto originario dia luogo ad una qualche forma
particolare di governo, ma quella che i principi di giustizia per la struttura
fondamentale della società siano l’oggetto dell’accordo originario. Questi sono i
principi che persone libere e razionali, preoccupate di perseguire i propri
interessi, sceglierebbero in una posizione iniziale di eguaglianza per definire i
termini fondamentali della loro associazione; questi principi devono regolare
tutti gli accordi successivi. Rawls chiama giustizia come equità questo modo di
considerare i principi di giustizia e da questo punto di vista la posizione
originaria di eguaglianza corrisponde allo stato di natura della teoria tradizionale
del contratto sociale. Naturalmente la posizione originaria non è considerata
uno stato di cose storicamente reale, ma una condizione puramente ipotetica
caratterizzata in modo da condurre ad una particolare concezione della
giustizia. Una delle sue caratteristiche essenziali è che nessuno conosce il suo
posto nella società, la sua posizione di classe, il suo status sociale, la sua
intelligenza o forza; nessuno sa nulla neanche sulle proprie concezioni del bene
e del male e sulle proprie propensioni psicologiche. I principi di giustizia
vengono scelti sotto un velo di ignoranza che assicura che nessuno venga
avvantaggiato o svantaggiato dal caso naturale o dalle circostanze sociali. I
principi di giustizia sono il risultato di un accordo o contrattazione equa, per
questo motivo il termine giustizia come equità è appropriato, senza che esso
comporti un’identità tra i concetti di giustizia e di equità. La nostra presente
situazione sociale è giusta se, attraverso uno schema generale di accordi
ipotetici, accetteremmo lo stesso sistema generale di norme che la determinano
ora. Inoltre, ogniqualvolta che le istituzioni sociali soddisfano questi principi,
coloro che vi sono impegnati possono affermare che stanno cooperando nella
forma che avrebbero concordato se essi fossero persone libere e eguali le cui
relazioni reciproche fossero eque. Il riconoscimento generale di questo fatto
fornisce una base per un’accettazione pubblica dei corrispondenti principi di
giustizia. La giustizia come equità considera le scelte iniziali di persone razionali
reciprocamente disinteressate; ciò non vuol dire che le persone siano egoiste,
ma semplicemente che sono indifferenti agli interessi altrui. Un argomento
molto caro a Rawls è il fatto che nella posizione originaria nessuno
sceglierebbe il principio di utilità ma altri due principi: 1) l’eguaglianza
nell’assegnazione dei diritti e dei doveri fondamentali; 2) le ineguaglianze
economiche e sociali sono tollerabili solo se producono benefici compensativi
per ciascuno, in particolare per i membri meno avvantaggiati della società. La
teoria della giustizia è la parte più significativa della teoria della scelta razionale.
Le concezioni di giustizia devono essere ordinate secondo la loro accettabilità
per persone che si trovano nelle circostanze della posizione originaria: questo è
il problema della giustificazione, ovvero un problema di deliberazione in cui
bisogna determinare quali principi sarebbe razionale adottare data la situazione
contrattuale. Un modo per giustificare una particolare descrizione della
posizione originaria è quello di vedere se i principi che verrebbero scelti si
accordano con le nostre convinzioni ponderate di giustizia. Nella descrizione di
questa situazione procediamo dai due estremi: iniziamo descrivendola in modo
che rappresenti condizioni molto largamente condivise e deboli. Poi
controlliamo se queste condizioni sono abbastanza forti da generare un insieme
di principi; se ciò non accade cerchiamo ulteriori premesse, e se i principi così
nati si accordano con le nostre opinioni ponderate va tutto bene. Probabilmente
però ci saranno delle discrepanze. Possiamo in questo caso scegliere tra due
vie: 1) modificare la nostra descrizione della situazione iniziale; 2) modificare i
nostri giudizi presenti, perché anch’essi sono soggetti a revisione. Rawls
chiama questo stato di cose equilibrio riflessivo: è un equilibrio perché, alla fine,
i nostri principi corrispondono ai nostri giudizi; è riflessivo perché sappiamo a
quali principi si conformano i nostri giudizi e conosciamo le premesse della loro
derivazione. Il fatto che questo procedimento non comporti necessariamente la
stabilità non gli impedisce di pensare alla sua interpretazione della posizione
originaria come al risultato di un’ipotetica serie di riflessioni di questo tipo.
Rawls considera molto importante esporre la sua critica alle tesi dell’utilitarismo,
in particolare di quello classico di cui Sidgwick ha dato la formulazione più
chiara e comprensibile. L’idea guida dell’utilitarismo è quella che una società è
giusta quando le sue istituzioni maggiori sono in grado di raggiungere il livello
più alto di utilità possibile ottenuto sommando quello di tutti gli individui
appartenenti ad essa. Secondo Rawls questa idea nasce dall’applicazione di un
ragionamento valido per i singoli ad un’associazione di uomini: una persona si
comporta in modo naturale se, fatti salvi gli interessi altrui, cerca di ottenere per
sé il massimo vantaggio, di realizzare i suoi scopi; dunque perché una società
non dovrebbe agire sulla base dello stesso principio? Come il benessere di una
persona deriva dal soddisfacimento dei suoi desideri nel corso della sua vita,
così il benessere di una società deriva dal soddisfacimento dei sistemi di
desideri degli individui che la compongono. Per gli utilitaristi la giustizia sociale
è il principio della scelta razionale applicato a una concezione aggregata del
benessere del gruppo. C’è un’ulteriore considerazione che rende questa teoria
ancora più attraente. I due concetti principali dell’etica sono quelli di giusto e di
bene; le teorie teleologiche definiscono il bene indipendentemente dal giusto, e
questo è successivamente definito come ciò che massimizza il bene: sono
giusti quegli atti o quelle istituzioni che, in un insieme di alternative disponibili,
ottengano il maggior bene. Le teorie teleologiche si differenziano quindi per il
modo in cui specificano la concezione del bene; esse rendono possibili giudizi
sul bene senza riferimento a ciò che è giusto: se ad esempio il piacere viene
considerato l’unico bene, non possediamo alcun criterio di giusto per
distribuirlo; se invece la distribuzione dei beni è essa stessa un bene, allora non
abbiamo più una definizione indipendente del bene, essendo la distribuzione un
problema che cade direttamente sotto il concetto di giusto.
Il metodo più naturale per giungere all’utilitarismo è quello di adottare per la
società nel suo complesso il principio della scelta razionale per un solo uomo:
questo è possibile tramite la figura dell’osservatore imparziale e l’uso
dell’identificazione simpatetica nel guidare la nostra immaginazione.
L’osservatore imparziale, dotato di immaginazione simpatetica, è l’individuo
razionale che si identifica con i desideri degli altri come se fossero i suoi; egli
determina così l’intensità dei desideri e gli attribuisce il peso appropriato in un
unico sistema che dovrà essere massimizzato. «Questa concezione della
società considera gli individui separati come tante linee diverse lungo le quali
devono essere assegnati diritti e doveri e allocati mezzi scarsi di soddisfazione
in accordo con norme per ottenere appagamento massimo dei bisogni […].
L’utilitarismo non prende sul serio la distinzione tra le persone»
2
.
La giustizia nega la possibilità che la perdita di libertà per qualcuno possa
essere compensata da un maggior bene condiviso da altri; la giustizia come
equità vuole rendere conto di queste convinzioni del senso comune mostrando
che esse sono la conseguenza di principi che verrebbero scelti nella posizione
originaria, mentre l’utilitarismo è in contrasto con questi sentimenti. Inoltre,
mentre il secondo estende il principio di scelta per un solo uomo all’intera
società, il primo assume che i principi di scelta sociale siano essi stessi oggetto
di un accordo originario: ciò vuol dire che la teoria della giustizia come equità
assume che il corretto principio regolativo di una cosa dipende dalla sua natura.
Un ultimo contrasto è dovuto al fatto che l’utilitarismo è una teoria teleologica
mentre la giustizia come equità è una teoria deontologica, cioè una teoria che o
definisce il bene indipendentemente dal giusto, o non interpreta il giusto come
massimizzazione del bene; la teoria della giustizia come equità è deontologica
nel secondo senso. Infine, bisogna notare che secondo l’utilitarismo qualsiasi
desiderio ha qualche valore in sé, così che i desideri antisociali devono essere
valutati come gli altri, mentre nella giustizia come equità la priorità del concetto
di giusto rispetto a quello di bene fornisce una struttura di diritti e di opportunità
tale che gli interessi che conducono alla violazione della giustizia sono privi di
valore.
Le teorie intuizioniste vengono prese in maggior considerazione da Rawls: esse
infatti sollevano l’importante problema della priorità, negando che si possa dare
una risposta costruttiva al problema di valutare reciprocamente principi di
giustizia concorrenti, e proponendo di fare appello unicamente alle nostre
capacità intuitive o, secondo la terminologia rawlsiana, ai nostri giudizi
ponderati. Non vi è niente di irrazionale in questo appello all’intuizione: bisogna
infatti riconoscere che non si può andare oltre una pluralità di principi.
Nonostante ciò dobbiamo fare il possibile per ridurre l’appello ai nostri giudizi
ponderati, perché se gli uomini valutano diversamente i propri principi ultimi
allora sono differenti anche le loro concezioni di giustizia.
La giustizia come equità limita il ruolo dell’intuizione in diversi modi. In primo
luogo i principi di giustizia sono frutto di una scelta: gli uomini riconoscono cioè
che dovrebbero prendere in considerazione la priorità di questi principi; infatti
con il loro accordo essi intendevano stabilire standard condivisi per giudicare le
loro reciproche pretese.
Una seconda possibilità potrebbe essere quella di trovare una serie di principi
che possano essere messi in un ordine seriale o lessicale.
Questo ordinamento richiede che sia soddisfatto il primo principio della serie
per poter passare al secondo, il secondo prima di poter prendere in
considerazione il terzo e così via.
In questo modo i principi che precedono possiedono una priorità rispetto a quelli
che seguono.
Se supponiamo che il principio di eguale libertà sia prioritario rispetto a quelli
che regolano le ineguaglianze economiche, la struttura fondamentale della
società deve regolare le diseguaglianze in modo compatibile con questo
principio. Nella giustizia come equità, date certe assunzioni, le ineguaglianze
economiche e sociali devono essere giudicate nei termini delle aspettative di
lungo periodo dei gruppi socialmente più svantaggiati. In questo modo il ricorso
all’intuizione è limitato.
Il nostro scopo non è quello di eliminare questo ricorso ai giudizi ponderati, ma
quello di raggiungere un accordo su di essi di cui ci si possa ragionevolmente
fidare, al fine ottenere una comune concezione della giustizia; dobbiamo tentare
di far convergere i giudizi (contrastanti) ponderati di giustizia.