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proprio per questo finisce per creare una discriminazione e una disparità di
trattamento all'interno di un confine in cui si dovrebbe osservare
l'uniformità; queste disparità di trattamento creano difficoltà di attrazione
per quanto riguarda le attività economiche operative, nonché
incomprensioni e lacune legislative.
Prima di arrivare dunque agli aspetti peculiari, è bene analizzare uno ad uno
gli aspetti normativi che sanciscono le quattro libertà, per poi capire il
motivo al quale ricondurre tutte le fattispecie del commercio, proprio a
quelle che sono denominate “le quattro libertà fondamentali” (la libera
circolazione delle merci, del lavoro, dello stabilimento/prestazione dei
servizi e la libera circolazione dei capitali) e l’importanza che esse rivestono
per la concorrenza del mercato.
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CAPITOLO 1
NOZIONI DI CARATTERE GENERALE
1.1 GLI SCOPI DELLA COMUNITA’ EUROPEA E
I PRINCIPI CHE LA GOVERNANO
Prima di analizzare una ad una le cosiddette “libertà fondamentali, è giusto
ricordare alcuni aspetti, che ci consentano di chiarire la ragione e lo scopo di
questi quattro principi cardine del commercio all’interno della Comunità
Europea.
Innanzitutto nel Trattato istitutivo della Comunità Europea (Trattato o
TCE), all’art.2 si recita:
“la comunità ha il compito di promuovere nell’insieme della Comunità, mediante
l’instaurazione di un mercato comune e di un’unione economica e monetaria e mediante
l’attuazione delle politiche e delle azioni comuni di cui agli articoli 3 e 4, uno sviluppo
armonioso, equilibrato e sostenibile delle attività economiche, un elevato livello di
occupazione di protezione sociale, la parità tra gli uomini e le donne, una crescita
sostenibile e non inflazionistica, un alto grado di competitività e convergenza di risultati
economici, un elevato livello di protezione dell’ambiente e il miglioramento del tenore e della
qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà tra gli Stati membri”.
Gli obiettivi della Comunità, che nella precedente versione erano cinque,
sono passati a nove dopo le modifiche introdotte prima dal Trattato
sull’Unione Europea (TUE) e poi dal Trattato di Amsterdam; queste hanno
portato alla ridefinizione degli obiettivi di tipo economico già presenti nelle
precedenti versioni nonché alla loro sostenibilità, infatti si parla
esplicitamente di una crescita che non deve avere carattere inflazionistico.
Inoltre si è insistito molto su obiettivi di carattere non economico,
riguardanti la sfera ambientale e sociale: la Comunità è impegnata nella
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promozione di un livello elevato di protezione dell’ambiente e ad un
miglioramento della sua qualità.
Gli obiettivi di carattere più marcatamente sociale consistono invece nella
promozione di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale,
nonché nella qualità della vita.
Per mettere in atto questi obiettivi, con il Trattato sul’Unione Europea, sono
aumentati gli strumenti a disposizione, infatti nella versione originaria erano
solo due: l’instaurazione di un mercato comune e l’armonizzazione delle politiche
interne; proprio quest’ultimo è stato sostituito col TUE, da un nuovo ed
avanzato strumento, consistente nell’instaurazione di un’unione economica e
monetaria.
Nello stesso articolo 2 è stato introdotto un quarto strumento, l’attuazione
delle politiche e azioni comuni che ritrovo ai successivi artt. 3 e 4. L’elenco delle
politiche ed azioni comuni previste da questi articoli si è ampliato, come
risultato dell’ampliamento, disposto dall’Atto Unico Europeo (AUE), nel
campo di applicazione di intervento comunitario. Nell’attuale parte terza del
Trattato intitolata “politiche della Comunità” si trovano titoli dedicati a ciascuna
delle azioni politiche elencate negli artt. 3 e 4; queste azioni e politiche
previste fin dall’inizio, avevano carattere ampliamente economico e
comportavano in particolare, la libera circolazione delle merci, delle persone,
dei servizi e dei capitali [lett. a) e c)], tre “politiche comuni” (la politica
commerciale comune, la politica comune nei settori dell’agricoltura e della
pesca, la politica comune nei settori dei trasporti: lett b), e) ed f), un regime di
libera concorrenza [lett.g)] e il ravvicinamento delle legislazioni nazionali
[lett.h)]).
L’accento però, anche in questo caso, va sull’aumento della sensibilità verso
problematiche che interessano i cittadini in quanto tali e non nella loro
qualità di lavoratori o operatori economici; sotto questo profilo infatti
sottolineo le misure relative all’entrata e alla circolazione delle persone
[lett.d)], che prescindono dall’attività svolta e si riferiscono alla generalità degli
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individui. Completano poi, il quadro delle azioni e politiche di tipo
economico, il rafforzamento della competitività dell’industria comunitaria
[lett.m)], la promozione della ricerca e dello sviluppo tecnologico [lett.n)] e
l’incentivazione della creazione e dello sviluppo di reti transeuropee [lett.o)].
Guardando invece il tema delle competenze comunitarie, l’art. 5 del
Trattato, dà una rappresentazione dell’area di possibile intervento della
Comunità:
“la Comunità agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite e degli obiettivi che le
sono assegnati nel presente trattato”.
La Comunità è un ente che può intervenire solo nei settori in cui è
autorizzato nel Trattato e solo per perseguire gli obiettivi che questo
stabilisce. Questo principio sembra rigido in applicazione, ma la Corte di
giustizia ha ammesso che la Comunità possa essere considerata competente
quando l’esercizio di un potere risulti indispensabile per l’esercizio di un
potere espressamente previsto oppure per il raggiungimento degli obiettivi
dell’ente
1
.
C’è è una distinzione, inoltre, tra competenze esclusive e competenze
concorrenti. Questa distinzione riguarda i rapporti tra competenza
comunitaria e competenza degli stati membri: nei settori di competenza
esclusiva, la competenza degli Stati membri è negata, anche quando la
competenza comunitaria non è esercitata pienamente; nei settori di
competenza concorrente, invece, almeno inizialmente, Comunità e Stati membri
possono ciascuno esercitare i propri poteri.
Inoltre il Trattato prevede una parziale deroga al principio della competenza,
e questo si può capire dall’articolo 308:
1
Ricordo tra i casi più importanti, l’affermazione della competenza comunitaria a stipulare accordi
internazionali in materia di trasporti, nonostante la mancanza di una previsione a riguardo, ma sfruttando il
principio del parallelismo dei poteri: la Comunità può concludere accordi internazionali in tutte le materie
per le quali disponga il potere di adottare atti sul piano interno.
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“Quando un’azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento
del mercato comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il Trattato abbia previsto
poteri d’azione a tal uopo richiesti, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta
della Commissione e dopo aver consultato il Parlamento europeo, prende le disposizioni del
caso”.
Questa previsione, ci fa capire come gli stessi autori del trattato avessero
capito l’impossibilità di definire in anticipo e con esattezza i poteri di cui la
Comunità avrebbe avuto bisogno per raggiungere i fini complessi dell’art. 2.
Da qui nasce quindi l’esigenza di consentire autonoma assunzione (quindi
senza l’intervento degli Stati membri) di nuovi poteri.
Al secondo comma dell’art. 5 si prevede il principio di sussidiarietà:
“nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene, secondo il
principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione
prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono
dunque, a motivo delle dimensioni e degli effetti dell’azione in questione, essere realizzati
meglio a livello comunitario”.
Questo principio è diventato molto importante nell’economia dell’intero
Trattato e costituisce un punto di riferimento obbligato quando si affronta il
problema dei rapporti tra Comunità e Stati membri; si specifica anche il
campo di applicazione del principio di sussidiarietà: vale solo nei settori che
non sono di competenza esclusiva comunitaria (quindi la maggioranza, visto
che i settori di competenza esclusiva sono pochissimi).
Considerando che, nei settori di competenza concorrente, la sopravvivenza
della competenza statale dipende dalla maniera con cui la competenza
comunitaria viene esercitata, il principio di sussidiarietà costituisce una
garanzia per gli Stati membri, che le loro competenze in settori di
competenza concorrente non vengano limitate o addirittura cancellate.
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Il principio probabilmente potrebbe essere considerato come “neutrale”, nel
senso che consente di dare preferenza all’azione statale oppure a quella
comunitaria, sulla base di un giudizio di efficienza relativa; la scelta tra l’una
e l’altra dovrebbe dipendere da un esame che valuta quale delle due azioni
assicura migliori risultati
2
.
Queste difficoltà di tipo concettuale, fanno capire perché il principio di
sussidiarietà abbia dato un po’ di problemi in fase di applicazione. Le
istituzioni si sono preoccupate di stabilire delle garanzie procedurali che
favoriscano il rispetto di questo principio in fase di approvazione dei vari
atti: la Commissione deve infatti procedere a una serie di consultazioni a
riguardo, prima di proporre atti legislativi.
In un primo tempo, la violazione del principio di sussidiarietà è stato
invocato dalle parti come vizio della motivazione.
Successivamente, la Corte ha dovuto verificare l’esistenza della violazione di
questo principio, perché considerato vizio autonomo.
Questo ha dato alla Corte la possibilità di precisare che la verifica del
rispetto del principio di sussidiarietà va effettuata sotto due profili; si deve
esaminare: a)”se l’obiettivo dell’azione progettata potesse essere meglio realizzato a livello
comunitario”, e in secondo luogo b) che l’azione comunitaria non abbia
“oltrepassato la misura necessaria per realizzare l’obiettivo cui tale azione è diretta”.
L’ultimo dei principi richiamati dall’art.5, è noto come principio di
proporzionalità. Al terzo comma infatti si recita:
“l’azione della Comunità non va al di la di quanto necessario per il raggiungimento degli
obiettivi del Trattato”.
2
Per come risulta formulato e per come viene inteso dagli Stati membri, il principio di sussidiarietà sembra
esprimere un favor per l’azione statale. L’art.5 secondo comma infatti, non pone l’azione statale e l’azione
comunitaria sullo stesso piano, ma esige che, prima di decidere se e come esercitare la propria competenza,
la Comunità valuti se gli obiettivi dell’azione prevista possano essere realizzati sufficientemente tramite
un’azione degli stati membri oppure possano essere realizzato meglio a livello comunitario. I termini del
confronto quindi non sono identici; l’azione statale è preferita se assicura il raggiungimento degli obiettivi
in modo sufficiente, mentre l’azione comunitaria può essere scelta solo se ne garantisce il raggiungimento
di un livello superiore.
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Anche qui ci si concentra sulle modalità di esercizio delle competenze
comunitarie, infatti, sia nei settori di competenza esclusiva che in quelli di
competenza concorrente, l’intervento della comunità deve essere limitato a
“quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi del trattato”. Il principio di
proporzionalità ha quindi la funzione di tutelare gli Stati membri da
interventi comunitari di portata più ampia del normale.
L’esigenza di rispettare la proporzionalità, comporta una scelta definita per
quanto riguarda il tipo di atto da adottare e naturalmente il suo contenuto.
Circa al primo aspetto, “a parità di condizioni”, le direttive dovrebbero essere
preferite ai regolamenti e le direttive quadro a misure dettagliate.
In quanto al contenuto dell’atto, “le misure comunitarie dovrebbero lasciar spazio
alle decisioni nazionali, purché sia garantito lo scopo della misura e siano soddisfatte le
prescrizioni del Trattato”.
1.2 LA CITTADINANZA NELL’UNIONE
Nella parte seconda del Trattato (artt. Da 17 a 22), in linea con una
prospettiva di Comunità attenta ai bisogni dei cittadini, si enuncia
l’istituzione della cittadinanza; con più precisione, all’art 17, par.1, si dice
che:
“è cittadino dell’unione chi abbia la cittadinanza di uno Stato membro”.
Il Trattato quindi non vincola gli Stati membri a seguire determinati criteri
per l’attribuzione della cittadinanza nazionale, ma rinvia ai criteri dello Stato
membro. Quindi salvo il rispetto del diritto comunitario, ciascuno Stato
membro è libero di fissare i criteri in autonomia.
Dalla cittadinanza nazionale di uno Stato membro deriva quella dell’Unione.
Al cittadino dell’Unione spettano diritti e doveri previsti dal trattato, che
comunque, non annuncia doveri che gravano sui cittadini dell’Unione.
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Quanto ai diritti, questi sono stabiliti negli articoli da n° 18 al 23; alcuni
diritti conferiscono diritti di mobilità, perché legati alla circolazione del
cittadino all’interno dell’Unione o in paesi terzi; altri invece si riferiscono a
diritti politici poiché attengono alla partecipazione del cittadino alla vita
politica dell’Unione e degli Stati membri ed ai suoi rapporti con le istituzioni.
Tra i diritti di mobilità vanno esaminati il diritto di circolazione e il diritto di
soggiorno, previsti dall’art. 18; il paragrafo 1 dell’articolo dispone che:
“ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente sul
territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dal Trattato
e dalle disposizioni adottate in applicazione dello stesso”.
Il primo problema applicativo consiste nello stabilire se è dotato di efficacia
diretta, ossia se produce effetti diretti a favore dei soggetti che sono
interessati ad invocarla. La Corte, dopo aver evitato di prendere posizione su
questo punto, si è orientata in senso affermativo nella sentenza 17 settembre
2002, Baumbast, causa C-413/99, in Racc. p. I-7091, la Corte ha rilevato che
il diritto di soggiorno è riconosciuto direttamente ad ogni cittadino
dell’Unione, da una disposizione chiara e precisa del Trattato. Per effetto del
solo status di cittadino di Stato membro e quindi di cittadino dell’Unione, il
sig. Baumbast può legittimamente invocare l’art.18, c.1.
In quanto alle limitazioni e condizioni cui l’esercizio del diritto di circolazione
e il diritto di soggiorno è sottoposto, dipendono dalla situazione particolare
del soggetto interessato. Se si tratta di persone rientranti nel campo
dell’applicazione della libera circolazione dei lavoratori (art.39) o in quello di
stabilimento o della libera prestazione di servizi (artt 43 e 49), assumeranno
rilievo le disposizioni del Trattato o del diritto derivato adottate per
l’attuazione di queste norme; se invece si tratta di persone non rientranti in
alcuna delle categorie elencate, le condizioni e i limiti del diritto di soggiorno
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vanno ricavati da alcuni atti adottati dalle istituzioni per disciplinare le
specifiche situazioni
3
.
Più rilevante invece, è la portata del diritto di soggiorno, che va visto in
combinazione col divieto di discriminazione in base alla nazionalità, previsto
dall’art.12, 1°c; la norma stabilisce che:
“nel campo di applicazione del Trattato e senza pregiudizio delle disposizioni dallo stesso
previste, è vietata ogni discriminazione effettuata in base alla nazionalità”.
In effetti, a partire dall’entrata in vigore del TUE e dell’art.18 par.1, i
cittadini dell’unione che soggiornano legittimamente in uno Stato membro
diverso dal proprio, esercitano un diritto che deriva dall’art.18 par.1 e
rientrano quindi nel campo di applicazione del Trattato; da questo, segue
che gli Stati membri non possono discriminare soggetti del genere rispetto ai
propri cittadini, altrimenti violerebbero l’art.12 del Trattato; questo è il
pensiero che è stato espresso da una larga parte della giurisprudenza.
Ai sensi del paragrafo 2 dell’art.18:
“quando un’azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere questo obiettivo
[diritto della circolazione e di soggiorno] e salvo che il Trattato non abbia previsto poteri
di azione a tal fine, il Consiglio può adottare disposizioni intese a facilitare l’esercizio dei
diritti di cui al par.1”.
Lo scopo della norma è autorizzare il Consiglio a prendere provvedimenti
volti a facilitare l’esercizio dei diritti di cui al Par.1; si tratta chiaramente di
un potere funzionale, in quanto limitato all’obiettivo prefisso dal par. 1
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In particolare: la Dir 99/364/CEE del Consiglio, del 28 giugno 1999 sul diritto di soggiorno dei cittadini
degli Stati membri “che non beneficiano di questo diritto in virtù di altre disposizioni del diritto
comunitario”; la Dir 90/365/CEE di stessa data, relativa al diritto di soggiorno dei lavoratori salariati e non
salariati che hanno terminato le loro attività professionali.