6
CAPITOLO 1 - LA GESTIONE DELLE OPERATIONS E DELLA SUPPLY
CHAIN: DAL FORDISMO AL MODELLO AGILE
I.1 LE OPERATIONS
Ogni impresa sviluppa processi produttivi per rispondere alla domanda dei
consumatori trasformando fattori produttivi (input) e offrendo beni o servizi richiesti
(output).
Nei processi di trasformazione si sviluppano una serie di attività che
costituiscono il cuore dell’impresa: le Operations (D.Waters, 1996.
Le imprese ricevono una grande varietà di inputs e pertanto devono gestire le
Operations in modo tale da convertirle negli outputs richiesti.
Le Operations devono essere gestite e organizzate con una progettualità
finalizzata all’ottenimento ottimale del prodotto finale (output). (D. Waters 1996); per
tale ragione, per rispondere a questo bisogno delle imprese, si è sviluppato l’Operations
Management. Gli uomini gestiscono le loro attività produttive da sempre, ma è solo
dopo le rivoluzioni industriali e a seguito del primo boom economico che il tema ha
cominciato a svilupparsi in modo (D. Waters 1996).
Molti studiosi si sono infatti occupati dell’argomento: negli anni ‘60 e ‘70
viene introdotto da Bowman e Fetter il termine “Operations management” con il fine di
evidenziare da un lato che alcune tecniche potevano essere utilizzate anche per
l’erogazione dei servizi, e dall’altro che la disciplina può essere applicata a tutto ciò che
ruota attorno alla produzione in senso stretto come gli acquisti, la distribuzione etc.
(Aquilano N.J. and Chase R.B., 1991).
La letteratura offre diverse definizioni di Operations management: secondo D.
Waters (1996), la funzione di Operations management è responsabile di tutte le attività
direttamente connesse alla produzione dell’azienda. Spetta all’Operations management
acquisire i vari inputs e trasformarli nell’outpt desiderato.
Altri autori definiscono l’ “Operations management” come la gestione dei
processi di progettazione, realizzazione e miglioramento dei sistemi e delle metodologie
che creano prodotti od erogano servizi (Crespi, 2009).
Vonderembse and White (2011) sottolineano che tutte le funzioni aziendali,
incluse il Marketing e la Finanza, abbiano come principale finalità quella di produrre un
mix di beni e servizi. Per tale ragione tutte le funzioni hanno delle Operations da gestire.
7
In conclusione le Operations si occupano di tutte le attività che riguardano
principalmente la realizzazione dei prodotti (anche intermedi) dell'impresa: nello
specifico si occupano: dell’acquisto delle materie prime e del loro utilizzo nell’attività
produttiva, della previsione della domanda, della organizzazione delle risorse per
soddisfare la domanda; sono inoltre molto coinvolte nella gestione del cash flow e delle
risorse umane (Waters 1996).
Nel corso del tempo il ruolo delle Operations e quindi della loro gestione è
profondamente cambiato.
Nell’’800 le imprese incrementano la propria produttività migliorando la
tecnologia utilizzata. Nel secolo seguente ci si comincia a chiedere come migliorare la
produttività attraverso la tecnologia. Emergono infatti due importanti evidenze:
A) la produttività di un’azienda dipende sia dalla tecnologia che dalla capacità
di utilizzarla al meglio;
B) la conoscenza diviene un fattore fondamentale per la gestione dell’impresa.
E’ in questa fase che l’Operations management si sviluppa notevolmente,
soprattutto negli Stati Uniti, dove, alcune imprese divengono presto leader mondiali nei
rispettivi settori, Ford e General Motors nella produzione di automobili, Esso per le
compagnie petrolifere, IBM per la produzione dei computer etc.
Nel 1980 la leadership dell’Operations management passa alle imprese
giapponesi, che a partire dalle innovazioni di processo introdotte da Ford creano il
modello lean. L’industria giapponese si concentra su tre obiettivi: 1) Alta qualità; 2)
Dare soddisfazione al cliente rispondendo alle sue domande, ritirando e cambiando il
prodotto difettoso; 3) Alta produttività. In breve il Giappone si espande enormemente,
fino a dominare i mercati di moto, componenti elettronici, macchine fotografiche,
ricambi per auto, chips per computer, automobili, banche, marina mercantile. A titolo
di esempio basti pensare come la quota giapponese della produzione mondiale di
automobili sia passata dal 3% del 1960 a oltre il 30% del 1990.
Le imprese giapponesi hanno anche cominciato a prendere il controllo delle
fabbriche delle imprese concorrenti. Significatico il caso di Motorola che nel 1977, nel
suo impianto di Chicago impiegava mille dipendenti e produceva circa mille televisori
8
marchio Quasar al giorno. Matsushita compra il brand televisivo e la fabbrica e nel giro
di due anni riduce del 95% le riparazioni di assemblaggio, raddoppia la produzione
giornaliera, mantenendo invariato il numero di lavoratori impiegati.
L’industria giapponese ha ottenuto questi risultati grazie ad un modello di
Operations management innovativo, che è stato imitato in tutto il mondo, dimostrando
come l’Operations Management costituisca una insostituibile fonte di vantaggio
competitivo (Waters 1996).
I.2 OPERATIONS STRATEGY
Il senior manager di ogni impresa, una volta delineata con precisione la
mission della stessa, deve prendere una serie di ulteriori decisioni il cui scopo è quello
di definire la struttura dell’azienda, la sua logistica, le relazioni con le altre imprese, il
rapporto con i clienti. L’insieme di queste decisioni costituisce la business strategy
(Waters 1996).
Poiché ruolo fondamentale delle Operations è implementare e supportare la
strategia aziendale (Slacket et al., 2007), dalla business strategy si sviluppa direttamente
l’Operations strategy.
Anche nel campo delle Operations la letteratura individua tre livelli decisionali
(Rispoli, 1984; Nahmias, 2009):
• Decisioni strategiche: hanno per fine la determinazione di una struttura
produttiva “ottimale” (Bonnel, 1984). Sono decisioni di lungo periodo
(orizzonte temporale di più anni), relative alla creazione di capacità produttiva
o a un suo adeguamento. Sono quindi decisioni concernenti il portafoglio di
attività che l’impresa vuole gestire e le risorse produttive, da intendersi anche
come investimenti fissi, dei quali ci si intende dotare per il raggiungimento di
determinati obiettivi. In sostanza si tratta di scelte di progettazione, che si
traducono poi in decisioni inerenti la tipologia dei processi produttivi, il grado
di integrazione e di specializzazione degli stessi, le dimensioni e la capacità
produttiva di ogni impianto ed il sistema produttivo nel suo complesso.
• Decisioni tattiche: sono scelte di medio periodo che si sviluppano in un arco
temporale di 6-12 mesi. Tali decisioni derivano dalle scelte strategiche
9
adottate, infatti il loro scopo principale è quello di ottimizzare l’utilizzo dei
fattori produttivi fissi di cui si è dotati in fase di progettazione del sistema
produttivo (Waters 2016).
• Decisioni operative: determinano la flessibilità necessaria ad un’impresa per
fronteggiare ogni giorno la domanda e per rispettare le decisioni tattiche. Tra
le decisioni operative riguardanti la pianificazione e la gestione della
produzione assume particolare rilievo la gestione dei materiali (Stevenson,
2013).
La strategia delle Operations deve essere coerente (Chase et al., 2008) con le
performance prioritarie definite dai bisogni del cliente e con il set di risorse e
competenze di cui l’impresa dispone: partendo dai bisogni del cliente vengono declinate
le dimensioni competitive e, da queste, la struttura operativa dell’impresa (Abell, 1986).
Dal momento che il principale obiettivo assegnato alla strategia produttiva è
individuato genericamente nella capacità di tradurre i bisogni dei clienti in specifiche
produttive e di realizzarle, l’Operations strategy, declinata nelle forme suddette, è
correlata ai rifornimenti delle materie prime necessarie alla produzione.
Possiamo pensare alle Operations come l’insieme dei processi che, in un’ottica
di supply chain integrata, contribuiscono a realizzare e consegnare il valore al cliente,
indipendentemente dal fatto che questo sia veicolato tramite un prodotto, un servizio o,
come accade sempre più di frequente, tramite un mix di prodotti e servizi.
Inoltre un’azienda che adotta una prospettiva orientata ai processi non si
concepisce tanto come un’organizzazione articolata in business unit o funzioni separate,
quanto come un sistema di processi interconnessi in grado di contribuire al
conseguimento delle finalità strategiche perseguite.
Questo approccio appare coerente con un approccio che si è sviluppato negli
anni ’80 del secolo scorso e si è affiancato a quello funzionale tradizionale, basato sulla
organizzazione gerarchica: l’approccio per processi. Questo è un approccio a 360°, che
si ispira da quello sistemico, che considera tutto l’insieme di attività, interconnesse fra
loro e in relazione con l’esterno, per concorrere alla produzione dell’output finale.
Uno degli aspetti più importanti dei questo tipo di approccio è la capacità di
valorizzare la value chain, cioè la catena lungo cui si sviluppano le interconnessioni
10
funzionali in grado di procurare dei vantaggi importanti sul piano della competitività e
quindi di creare valore (Crespi, 2009).
Diversi autori hanno studiato l’importante relazione fra strategia e produzione
(Skinner, 1969, 1974); alcuni, come Wheelwright e Hayes (1985) hanno esaminato la
relazione dal punto di vista della sua realizzazione attraverso gli investimenti strutturali
e infrastrutturali, altri dal punto di vista della capacità di prevenire situazioni, tendenze,
problemi futuri (Hill, 1994); altri ancora sotto il profili della necessaria coerenza fra
strategie di business e attività di produzione (Berry et al. 1999; Deveray et al. 2001;
Hausman et al. 2002; Ward et al. 2007).
Tutti in modo comune hanno evidenziato l’imprescindibile coesione fra
Operations strategy e Business strategy, dove la prima ha la funzione di implementare e
supportare la strategia aziendale (Slack et al.,2007).
I.3 LA SUPPLY CHAIN
Le Operations di ogni azienda non possono essere gestite solo in una
prospettiva interna, perché agiscono in stretta relazione con le operations delle altre
aziende clienti e fornitrici che si collocano lungo la supply chain. I risultati delle
Operations di ogni azienda sono infatti strettamente interrelati alle Operations
dell’intera Supply Chain.
Il dizionario APICS
1
definisce una catena di fornitura come "Un sistema di
organizzazioni, persone, attività, informazioni e risorse coinvolte nel processo atto a
trasferire o fornire un prodotto o un servizio dal fornitore al cliente" (Blackstone 2013).
Forrester (1961) per primo comprese l’importanza del coordinamento e della
collaborazione lungo la Supply chain. L’autore evidenziò i problemi che derivano alla
gestione della Supply Chain a causa della assenza di condivisione delle informazioni,
individuando l’effetto “frusta” o effetto Forrester. L’effetto frusta evidenzia le
distorsioni nella domanda che si generano lungo la Supply Chain a causa del fatto che
ogni azienda della catena gestisce le proprie scorte in base alle informazioni ricevute
dall’azienda che la segue, senza disporre di informazioni su tutte le altri parti della
catena.
1
APICS è l’Associazione statunitense che dal 1957 riunisce i manager della produzione e delle
operations. L'organizzazione conta oltre 45.000 membri ed opera su scala globale 100 paesi.
11
L’effetto frusta evidenzia l’importanza dello scambio continuo ed efficace di
informazioni lungo tutta la supply chain, reso oggi possibile in “tempo reale” dalla
tecnologia. Lo scambio di informazioni è infatti fondamentale per avvicinare quanto più
possibile la produzione lungo la catena alla domanda del cliente finale.
Riguardo alla definizione di supply chain la letteratura offre una vasta gamma
di definizioni, da Christopher (1992) che la descrive come “una rete di organizzazioni
coinvolte, mediante relazioni a monte (di fornitura) e a valle (di distribuzione), nei
diversi processi che conferiscono valore a prodotti e servizi destinati al consumatore
finale” (Crespi, 2009, pag. 22), a Ganeshan e Harrison (1992) ”(R. Crespi, 2009, pag.
22), che la definiscono come “network di risorse e punti di distribuzione costituito da
aziende autonome aventi obiettivi comuni, che svolge le funzioni di approvvigionamento
dei materiali, trasformazione di questi in prodotti intermedi e finiti, distribuzione e
consegna dei prodotti finiti ai clienti”; infine Cavalieri e Pinto (2015), per i quali la
supply chain è “Una rete di aziende coinvolte, direttamente o indirettamente, nella
soddisfazione dei fabbisogni del mercato attraverso attività di acquisizione,
trasformazione e trasferimento di beni e servizi volti a garantire al cliente finale la
piena fruibilità di un prodotto in modo conforme o superiore alle sue esigenze e
aspettative”.
Queste definizioni sottolineano le strette relazioni che intercorrono fra
l’impresa e le aziende che formano la supply chain tanto a monte della produzione
quanto a valle della stessa, nonché alle relazioni esistenti fra le stesse aziende che
compongono la supply chain.
Infatti l’impresa deve continuamente risolvere un problema fondamentale:
coniugare le forniture di input con le richieste dei clienti. Si tratta di comprendere in
quale punto della supply chain domanda finale e inizio della produzione si incontrano;
tale punto è definito decoupling point, punto di disaccoppiamento (Cristopher, 2005).
Le conseguenze della posizione a monte o a valle del punto di
disaccoppiamento sono determinanti per l’operatività dell’impresa. Infatti quando la
produzione, in base alle previsioni, comincia a monte, si formano delle scorte che
creeranno una spinta (push) dall’interno dell’impresa verso il cliente. Invece se il punto
di inizio della produzione è situato vicino alla domanda, quindi a valle della catena, la
12
situazione sarà contraria, cioè la produzione sarà “tirata” (pull) dalla domanda esterna
all’organizzazione.(Crespi, 2009).
Secondo Christopher (2005), l’impresa dovrebbe “informare il proprio sistema
di funzionamento relazionandosi direttamente con la domanda”, (R. Crespi, 2009, pag.
30), quindi anche la supply chain sarà molto più efficiente se “demand driven”.
I.4 I MODELLI DI GESTIONE DELLE OPERATIONS
I.4.1 IL FORDISMO: CENNI
Principale ispiratore del fordismo è stato l’ingegnere Fredrich Taylor, che,
vissuto fra la seconda metà dell’800 e l’inizio del XX secolo, rielaborò, adattandola al
mondo contemporaneo, la teoria della divisione del lavoro di Adam Smith. Egli infatti,
basandosi sull’osservazione del sistema produttivo utilizzato nelle fabbriche di prodotti
meccanici in cui lavorava, mise a punto un processo produttivo basato su due principi
fondamentali: “one best way” e “ operaio bue” (Treccani, Friedrch Taylor).
Il primo principio esprimeva il concetto secondo cui ogni impresa poteva avere
uno solo modo ideale per risolvere con efficacia tutte le difficoltà tecnico-organizzative
che poteva incontrare nella attività produttiva.
Conseguenza naturale di questo assunto era la necessità che gli operai non
fossero costretti ad occuparsi d’altro che non fosse il compito loro affidato, da svolgere
con meccanica ripetitività, in tempi esattamente calcolati e standardizzati. Il principio
definito “operaio bue” significava che l’operaio doveva preoccuparsi esclusivamente di
eseguire il lavoro di cui era stato incaricato, nel rispetto dei tempi che gli erano stati
assegnati, con precisione e puntualità.
Henry Ford, un industriale americano che fabbricava autovetture, comprese il
potenziale produttivo del metodo di Taylor e non esitò ad applicarlo nelle proprie
fabbriche, creando la catena di montaggio (Cassese, 2016). Ford riuscì addirittura a
migliorare l’idea di Taylor: compensava lo stressante lavoro degli operai retribuendoli
con salari decisamente elevati per l’epoca, in seguito ai quali essi non solo migliorarono
notevolmente la propria qualità di vita, ma addirittura divennero essi stessi consumatori,
essendo in grado di acquistare le automobili che costruivano.
13
Il modello fordista cui Ford aspirava si fondava sull’accentramento dell’intera
catena di approvvigionamento.
Il minerale di ferro veniva trasportato dalle miniere di proprietà dell'azienda
attraverso il lago Michigan, quindi passava attraverso le fonderie e le officine di
lavorazione dei metalli e fino alla linea di montaggio finale mobile, tutto nel giro di 2-3
giorni (Hounshell 1985).
I vantaggi erano il controllo diretto di tutte le operations, la riduzione degli
inventari e la riduzione del tempo di produzione dalla fase della materia prima alla fase
della produzione di prodotti finiti.
Anche le altre aziende cercavano di avere vicino i loro fornitori per ridurre i
tempi di consegna richiesti per ottenere beni e per averli facilmente accessibili in caso
di problemi. In alcuni settori, i fornitori tendevano a raggrupparsi attorno ai loro
principali clienti; questo è ciò che avvenne a Detroit che in breve divenne il più
importante cluster automobilistico dell’epoca.
Nonostante il grande successo ottenuto per decenni, però, anche il fordismo
dovette far fronte al cambiamento del contesto storico, politico e sociale. Sotto il profilo
economico la produzione di massa limitata ad unico o a pochi prodotti standardizzati ha
portato all’eccesso di rimanenze che sempre più difficili da smaltire a fronte di una
domanda in fase di rallentamento. Le prime difficoltà nacquero con il New Deal del
presidente F.D. Roosvelt, che ha portato a breve all’aumentato potere dei sindacati. Fy
però con la saturazione del mercato degli anni ’70 che il fordismo entro in fase di
declino.
I.4.2 TOYOTISMO E LEAN PRODUCTION
Così come in America aveva fatto Taylor nell’800, nel secolo scorso dall’altra
parte del mondo, in Giappone, un altro ingegnere, Taiichi Ohno, progettò un nuovo
processo produttivo che pur ispirato dal modello fordista se ne distaccava
profondamente. L’ing. Ohno infatti aveva praticamente sovvertito il tipo di produzione
push adottata non solo da Ford ma, sia pure con le modifiche richieste dal cambiamento
dei tempi, dall’industria automobilistica in generale. Tahiichi Ohno ripensa totalmente il
processo produttivo e lo “rivolta”. Ohno parte dal punto di vista di un mercato
considerato nei suoi singoli componenti, cioè i clienti, i quali scelgono l’automobile