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I PARTE
“La computer mediated communication e la chat line”
«Il linguaggio non è un attributo esclusivo dell’uomo, bensì un carattere che egli
può condividere fino a un certo grado con le macchine da lui costruite (…)
Generalmente noi crediamo che la comunicazione e il linguaggio siano diretti da
persona a persona. È possibile tuttavia che una persona parli a una macchina,
una macchina a una persona e una macchina a una macchina (…). C’è un
linguaggio emesso dall’uomo e diretto alle macchine e c’è un linguaggio emesso
dalle macchine e diretto all’uomo»
(Wiener, 1950: 101 - 102)
1. Cos’è la CMC?
La CMC rappresenta un campo di studi relativamente nuovo, ma in anni recenti ha attirato
l’attenzione di ricercatori e studiosi di tutto il mondo, dato il continuo aumento degli utenti di
Internet e la rapida integrazione dei computer nella vita di tutti i giorni nelle società
industrializzate.
In passato sono stati condotti numerosi studi per quanto riguarda l’interazione uomo - computer,
ma questi hanno focalizzato la loro attenzione sulle caratteristiche della comunicazione tra uomo
e macchina, senza badare alla comunicazione tra uomo e uomo via computer.
1
Essa non costituisce niente di nuovo sul piano delle applicazioni. La creazione della tecnologia
che ha permesso a due elaboratori di comunicare attraverso la linea telefonica in realtà risale agli
anni ‘50 e comunque, le reti di computer, così come oggi le intendiamo, videro il loro reale
sviluppo a partire dal decennio successivo.
Al ‘64 risale infatti il primo progetto statunitense per la realizzazione di una rete di calcolatori e
al ‘69 la nascita della prima rete, ARPANET, destinata ad interconnettere i computer del
1
Murray 1991: 54.
3
Dipartimento della Difesa americano; secondariamente è stata poi utilizzata in campo accademico
nelle università statunitensi.
L’utilizzo delle reti di computer da allora è andato sempre più spostandosi nella direzione della
comunicazione propriamente detta: oggi cioè le reti sono in larga misura usate come veicolo
informativo e come mezzo per interagire socialmente; la sigla CMC raccoglie proprio questo tipo
di funzioni, ed è stata così definita:
“Computer-mediated communication is a process of human communication via computers,
involving people, situated in a particular context, engaging in processes to shape media for a
variety of purposes” (Computer-Mediated Communication Magazine, gennaio, 1997).
Nonostante la diversità tra la comunicazione face-to-face e la CMC, esistono chiaramente dei
fattori che sono alla base di qualsiasi processo comunicativo umano. Jakobson (1966) aggiunge a
quelle che sono le componenti classiche della comunicazione, le funzioni che esse svolgono:
1. Mittente = funzione espressiva
2. Messaggio = funzione poetica
3. Destinatario = funzione conativa
4. Codice = funzione metalinguistica
5. Canale = funzione fàtica
6. Contesto = funzione referenziale
Questo tipo di comunicazione si caratterizza soprattutto per il suo canale e, come per la
comunicazione faccia a faccia, nella CMC hanno fondamentale importanza il mittente, il
destinatario e il messaggio, che è l’elemento che caratterizza tutte le espressioni linguistiche.
Nonostante queste caratteristiche comuni, esistono tuttavia degli elementi di diversità, e uno di
questi è rappresentato dal contesto: nella comunicazione face-to-face il contenuto delle
interazioni normalmente si inserisce in una situazione e si riferisce a quest’ultima, perciò il
contesto in cui avviene l’interazione può esercitare una grande influenza sulle scelte linguistiche
e sull’aspetto comportamentale degli interlocutori.
La CMC (la chat in particolar modo) nasce invece ex-novo, senza essere inserita in un contesto
4
sociale e spazio-temporale concreto. Gli interlocutori non si possono vedere né tantomeno
toccare, tutto avviene tramite la scrittura; non si può contare su segnali paralinguistici, o su
aspetti non verbali della comunicazione quali i gesti e la mimica facciale che tolgano ogni
ambiguità al significato del messaggio, e quindi si corre spesso il rischio di essere fraintesi.
Questi sono elementi di cui gli utenti che decidono di scegliere questo canale di comunicazione
devono tener conto: devono infatti utilizzare un determinato codice per far si di essere compresi e
non creare equivoci. Non si tratta di utilizzare un linguaggio prettamente tecnico e da esperti del
campo, ma può capitare che un utente si trovi di fronte a determinate espressioni che
caratterizzano questo registro di comunicazione (per esempio gli acronimi
2
), e non abbia la
minima idea di cosa significhino.
All’interno della CMC si identificano due modalità comunicative distinte, quella asincrona e
quella sincrona
3
. La differenza tra i due tipi di CMC è legata alla presenza o meno di una
connessione in tempo reale tra i computer degli utenti coinvolti.
Nei due paragrafi seguenti ci concentreremo sulla comunicazione sincrona per eccellenza, la chat,
presentandone le caratteristiche principali.
2. Un tipo di comunicazione sincrona: la chat
La comunicazione sincrona è una particolare forma di comunicazione in cui i messaggi trasmessi
e ricevuti dai partecipanti sono separati tra loro da intervalli di tempo di brevissima durata. E’
quindi una comunicazione in tempo reale che implica la contemporanea partecipazione dei
soggetti coinvolti.
Il conversare in tempo reale comporta una dinamica del dibattito del tutto diversa da quella che si
instaura per esempio attraverso la posta elettronica (comunicazione di tipo asincrono). Mentre
utilizzando l’e-mail i partecipanti sono liberi di decidere i tempi e i modi di formulare i diversi
interventi (quasi come nella normale corrispondenza epistolare), qui si gioca più di riflesso, più a
caldo, quindi l’interlocutore ha quasi la sensazione di un tempo minimo per la pianificazione del
2
Ad esempio l’acronimo “LOL” significa Laughing out loud, esprime cioè una situazione di estrema gioia del
parlante.
3
Baracco, 2002 (pp. 256-260)
5
suo turno conversazionale.
Gli utenti sono mittenti e riceventi contemporaneamente
4
, e sia i messaggi inviati che quelli
ricevuti si susseguono scorrendo sui monitor degli utenti connessi a un determinato server o in
possesso di un determinato programma di messaggistica istantanea (msn o yahoo messenger per
esempio).
Questa forma di CMC sincrona è sicuramente una tra le più diffuse e prende il nome inglese di
IRC, acronimo di Internet Relay Chat; si tratta di un ambiente virtuale all’interno del quale può
entrare un numero anche alto di persone. Per accedervi ciò che bisogna fare è molto semplice:
basta connettersi ad internet, inserire il proprio nick-name (uno pseudonimo) e dopo qualche click
di mouse si entra nella cosiddetta “stanza” o chat-room.
Ecco come si presenta sul monitor ai nostri occhi una comunicazione tipo nella modalità
sincrona. Si tratta di un rapido e dinamico flusso di messaggi preceduti dallo pseudonimo di chi li
ha inviati.
<LUCY> ma ke dici luca?
<KRAZY91> cè qualcuno che vuole parlare in privato?
<LUCY> ti tratto a pesci in faccia e dici ke sono dolce? ehehehe
<VERAMENTE> guardati i profili e scegli qualcuno, no?
<LUCY> krazy, cè LUCA ke vuole parlare in privato con te
Il primo impatto con IRC può provocare uno stato confusionale: possono essere in corso due o tre
conversazioni contemporaneamente, di cui spesso non si comprende subito l’argomento, inoltre i
messaggi arrivano a volte così rapidamente che è impossibile leggerli tutti. Altre volte, invece, il
lasso di tempo trascorso tra l’invio di un messaggio e la ricezione della risposta diventa troppo
lungo, succede allora che per la fretta di comunicare si invii una nuova domanda all’utente prima
che questo abbia avuto il tempo di rispondere a quella precedente, facendo saltare completamente
i turni conversazionali. Di questo ci occuperemo più avanti, nella terza parte di questo lavoro, in
modo più approfondito, presentando alcuni casi concreti estrapolati dal corpus.
4
A differenza della normale conversazione face-to-face, all’interno della quale i turni conversazionali sono regolati,
in chat capita frequentemente che questi turni saltino, dal momento che l’utente può inviare in sequenza più
messaggi al suo interlocutore; non esiste in definitiva un’alternanza dei turni, e gli interlocutori si ritrovano perciò ad
essere mittenti e riceventi nel medesimo momento.
6
3. Chat e linguaggio: caratteri essenziali
La chat è una forma di comunicazione scritta e per questo manca di tutte quelle caratteristiche
che possono far parte della conversazione orale: tono della voce, cadenza, musicalità, gesti,
sguardi e linguaggio del corpo; siamo di fronte a degli utenti che fanno del codice ASCII
5
l’unico
mezzo attraverso il quale esprimere, oltre alle parole, anche gli stati d’animo e le emozioni.
Facciamo a questo punto una breve classificazione delle caratteristiche che riscontriamo nel
linguaggio della chat:
9 è la base di una forma di comunicazione che avviene tra due o più persone;
9 l’utente “parla scrivendo”
6
: questo tipo di linguaggio è infatti a tutti gli effetti un linguaggio
“parlato”, presentando caratteristiche tipiche di questa modalità comunicativa, come la
ritmicità, la ripetitività e la scarsa pianificazione dell’enunciato;
9 nonostante avvenga tramite la parola scritta, la comunicazione si realizza in modo piuttosto
veloce, in quanto è necessario solo digitare il messaggio e inviarlo in rete con un semplice
click del mouse;
9 vi sono strutture grammaticali semplici, predomina la paratassi invece che l’ipotassi, i
messaggi sono corti e non ci si preoccupa troppo della correzione ortografica delle parole.
In rete ciò che conta sono le parole, i sorrisi e la bella presenza contano poco, perciò lo stile
comunicativo diventa di fondamentale importanza, dal momento che on-line siamo ciò che
scriviamo.
Nel paragrafo successivo, che conclude questa prima parte, verranno esposte in maniera generale
due tra le prinicipali teorie legate allo studio della CMC.
5
Il codice ASCII è il codice che il sistema operativo di ogni computer utilizza per trasformare i dati alfanumerici
(caratteri dell’alfabeto, numeri, segni di punteggiatura e segni grafici) in gruppi di bit e quindi renderli comprensibili
al linguaggio macchina.
6
“I believe that we are witnessing something more than reduced keystrokes. We are witnessing the emergence of a
writing style that is closer to speech” (Maynor, 1994)
7
4. Alcuni accenni agli studi sulla CMC
Gli studi sulla CMC sui quali vogliamo dare alcuni accenni, riguardano il comportamento che
viene adottato dagli utenti in questa particolare forma di comunicazione. Da questo punto di vista
esistono due correnti di pensiero: alcuni studiosi hanno riscontrato nella CMC, a differenza di
quanto avviene nella comunicazione faccia-a-faccia, scambi più aperti e disinibiti, per l’assenza o
quanto meno per l’indebolimento delle regole sociali
7
. Secondo questa prospettiva, che viene
indicata spesso con l’acronimo RSC (Reduced social cues), la CMC potrebbe garantire una
partecipazione più ugualitaria alla comunicazione, indipendentemente dal sesso, dalla razza o
dallo status sociale dei partecipanti. Secondo questo punto di vista, quindi, questo affollatissimo
luogo virtuale può essere considerato una vera e propria “dimensione alternativa” in cui l’utente
che si siede davanti al pc può, per quanto possibile, estraniarsi dal mondo e dal suo contesto e a
volte, diventare persino “un’altra persona”. Si può infatti decidere di essere qualcun’altro,
stravolgendo completamente il proprio comportamento e ciò che si è; si può decidere, nel caso in
cui si voglia entrare in una chat a sfondo sessuale, di essere una persona totalmente disinibita, che
utilizza un linguaggio diretto, scevro da eufemismi, e invita chi si trova dall’altra parte a provare
determinate “esperienze virtuali”.
Un comportamento di questo tipo sarebbe impensabile all’interno di un’interazione sociale
quotidiana, dal momento che per mantenere una certa reputazione (la cosiddetta “faccia positiva”,
vedi oltre) bisogna attenersi a determinate regole. Possiamo quindi affermare che in chat, tutto (o
quasi) è concesso, e l’utente che si trova davanti al computer, nel momento in cui digita il proprio
nick-name
8
ed entra in chat, è come se accettasse una sorta di patto implicito, per cui se a un
certo punto dovesse trovarsi davanti ad inviti espliciti di un determinato tipo, non dovrebbe
sicuramente sentirsi offeso, come avverrebbe in una normale interazione face-to-face, e nel caso
provasse una sensazione di disagio, quello che deve fare risulta molto semplice: chiudere la
finestra di dialogo.
La seconda prospettiva si poggia invece su nozioni completamente differenti; alcuni ricercatori
7
Sproull & Kiesler, 1986.
8
Dai casi analizzati risulta che lo pseudonimo scelto dall’utente rispecchia spesso caratteristiche fisiche, caratteriali
o di provenienza geografica di quest'ultimo (es. “toscano1982”, “bello111”, “ragazzoperbene”). In alcuni casi viene
scelto come nick la forma abbreviata del proprio nome (es. “beppe_82”). Tuttavia, non sempre lo pseudonimo
rispecchia quelle che sono le reali caratteristiche fisiche e/o sociali dell'utente; in questi casi, quando il nick da
informazioni apertamente false sul proprio proprietario si parla di fake (es. “donna_pa”, quando non si tratta di una
persona di sesso femminile ma di sesso maschile).
8
infatti, tra i quali Spears e Lea (1992), rilevano che in assenza di regole sociali specifiche, gli
individui ricorrono all’adozione di alcune norme di base (default social norms) per regolare il
loro comportamento. Secondo gli autori, nei casi in cui l’appartenenza ad un gruppo
9
viene
considerata apprezzabile, gli individui che partecipano alla comunicazione via computer risultano
molto sensibili alle norme sociali e di conseguenza regolano in modo molto rigido il proprio
comportamento.
Emergono quindi due posizioni fondamentalmente contrapposte: la prima, incentrata sulla
tecnologia, rileva l’indebolimento delle regole sociali e un conseguente fenomeno di
disinibizione, impulsività e intemperanza (flaming); la seconda invece incentrata sul contesto,
sottolinea le influenze che vengono esercitate dal gruppo sugli individui che partecipano alla
comunicazione.
9
Con il termine “gruppo” si intende uno specifico luogo virtuale (un newsgroup, piuttosto che una chat o un forum)
frequentato in modo costante dall’utente.
9
II PARTE
“Politeness: aspetti teorici”
“To be polite”: behaving in a way that is socially correct and shows
awareness of and caring for other people’s feelings. (Cambridge dictionary)
Con questa definizione possiamo iniziare la seconda parte dedicata a quello che è l’argomento
base di questa tesi ovvero la “politeness”, cioè la cortesia linguistica, di cui, dopo un’introduzione
generale, andremo ad analizzarne i modelli pragmatici più conosciuti, concentrandoci in
particolar modo sul modello di Brown e Levinson e sulle strategie conversazionali da loro
proposte.
1. Politeness: un’introduzione
Per politeness nelle scienze del linguaggio, si intende un fenomeno ben preciso e distinto dalla
comune accezione del termine. L’accezione tecnica condivide con la nozione comune alcuni dei
significati che la definiscono come il tatto e il rispetto per il prossimo, ma non completamente
altri, quali: la gentilezza d’animo, la buona educazione, ecc..
La politeness è strettamente legata e connessa con l’analisi del discorso e della conversazione e
come queste ultime, è stata oggetto di studio di numerose discipline, ognuna delle quali ha
analizzato diversi aspetti con differenti metodologie. E’ un fenomeno presente in tutte le culture
del mondo, seppur in maniera differente, e nelle scienze del linguaggio è un termine utilizzato per
indicare lo studio delle strutture ricorrenti nella lingua scritta e parlata. Si presta di strutture che
hanno essenzialmente la funzione di: predisporre in modo positivo il nostro interlocutore,
attenuare le “imposizioni” che si vengono a creare (ad esempio a seguito di una richiesta),
“mitigare” le nostre interazioni verbali (che possono essere in alcuni casi poco cooperative o
aggressive) o semplicemente, usare verso il nostro interlocutore un determinato tipo di rispetto e
deferenza che gli sono dovuti in base agli assunti culturali della società.
I linguisti che vengono maggiormente ricordati nelle bibliografie degli studi attuali
10
sull’argomento e che per primi se ne sono occupati in area anglo-americana sono: Robin Lakoff
(1973), Penelope Brown e Stephen C. Levinson (1978, 1987) e Geoffrey Leech (1983).
Tanto riconoscimento è dovuto al fatto che questi autori hanno cercato, attraverso mezzi
pragmatici, di avvicinarsi all’area della politeness, un’area considerata di difficile definizione,
sospesa com’è tra lessico tecnico e parola comune.
Molte sono le definizioni date dagli studiosi del termine “politeness”: Leech per esempio la
definisce come un “modo strategico per evitare il conflitto”
10
, mentre Brown e Levinson la
considerano come un “complesso sistema per attenuare le azioni di minaccia della faccia”
11
.
E’ perciò un termine complesso, tanto che si è arrivati ad attribuirgli una duplice connotazione:
da una parte può essere considerato una forma di comportamento socialmente corretto, dall’altra
però può essere invece interpretato come una forma di falsità o arroganza.
“Be polite” significa dunque avere riguardo per qualcosa e per qualcuno, ma non è sicuramente
legato al reale interesse per i sentimenti del nostro interlocutore.
Considerando le interazioni sociali di tutti i giorni, può capitarci ad esempio di pestare i piedi a
qualcuno (letteralmente o metaforicamente) e il minimo che il nostro sfortunato interlocutore si
aspetterebbe, è quello di ottenere una scusa. Oppure, può capitarci di essere in coda alla
biglietteria della stazione, quando improvvisamente qualcuno irrompe nella coda e ci sorpassa; si
suppone che chi sta violando le regole sociali arrechi perlomeno un accenno di giustificazione per
il comportamento a dir poco maleducato. A questo riguardo Watts (2003) ci parla di un “political
behaviour” ovvero di un determinato comportamento, linguistico e non linguistico, che i
partecipanti a una determinata interazione sociale si suppone debbano mantenere. Perchè diciamo
si suppone? Affermiamo questo perchè naturalmente ognuno decide liberamente in che modo
attenersi a queste determinate regole sociali, e sicuramente non tutte le persone che adottano un
comportamento considerato “socialmente scorretto” saranno predisposte a giustificarsi.
Quando qualcuno adotta un comportamento socialmente deviante, “scortese e maleducato”, viene
considerato sicuramente non congruo con quelle “mutually shared forms of consideration for
others” di cui ci parla Watts, ovvero quelle forme di considerazione per gli altri, condivise da
tutti gli agenti che partecipano a una determinata interazione. Sono delle norme implicite,
qualcosa che ci si aspetta avvenga naturalmente, qualcosa alla quale non facciamo molto caso, se
10
Leech 1980: 19
11
Brown & Levinson (1978)
11
non quando determinate convenzioni sociali vengono per così dire violate.
Dopo questa breve panoramica, andremo ad esporre le teorie più conosciute legate alle regole
della cortesia e della pragmatica, partendo da Grice, per poi passare all’analisi dei modelli
conversazionali.
2. Grice e il principio di cooperazione
Un lavoro fondamentale della pragmatica è rappresentato dal Logic and conversation (1975) di
H. P. Grice. Secondo l’autore uno degli elementi base su cui si basa lo scambio comunicativo è
quello che egli definisce “principio di cooperazione” (pdc):
“Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è richiesto, nel momento in
cui ricorre, secondo lo scopo o l’orientamento accettato dallo scambio linguistico in
cui sei impegnato”. (Grice, 1975)
Il principio di cooperazione consiste in quattro massime conversazionali alle quali, secondo
Grice, gli interagenti dovrebbero aderire
12
. Per avere una conversazione che non sia conflittuale, e
che porti a risultati produttivi, è dunque necessario che tutti gli interagenti abbiano uno scopo
comune, e che siano quindi propensi a “cooperare”.
Le seguenti massime sono quelle proposte da Grice:
1. Massima della QUANTITA', secondo la quale gli interagenti dovrebbero fornire solamente
le informazioni necessarie a quel tipo di scambio comunicativo. L’iper-informazione in teoria
non sarebbe accettata, ma possiamo affermare che non si tratta di una vera e propria violazione
del pdc, ma solamente uno spreco di tempo da parte dell’interlocutore, e comunque un
elemento che potrebbe essere fuorviante per chi ascolta;
12
Anche se l’analisi di Grice non comprende tra i suoi obiettivi la gestione della politeness nella conversazione,
l’ovvio rispetto del pdc potrebbe essere concepito come modello teorico di una conversazione che procede nello
stretto rispetto delle regole di politeness.
12
2. Massima della QUALITA', secondo la quale gli interagenti dovrebbero dare solo un
contributo che ritengano vero, o del quale comunque abbiano delle prove adeguate;
3. Massima di RELAZIONE, secondo la quale gli interagenti dovrebbero essere il più
possibile pertinenti rispetto a quello che è lo scopo della conversazione;
4. Massima di MODO, secondo la quale gli interagenti devono evitare l’utilizzo di espressioni
ambigue e oscure e inoltre devono cercare di essere il meno possibile prolissi e ordinati
nell’esposizione.
Quando questi punti di orientamento, “le massime”, non vengono rispettati, gli ascoltatori
ricercano un livello più profondo, che risponda al principio di cooperazione e sulla cui base, con
un processo inferenziale, possano calcolare il significato inteso dal parlante, o significato non-
naturale.
Il meccanismo attraverso il quale riusciamo a inferire da un enunciato credenze, pensieri o
affermazioni non esplicite del parlante, è quello che viene definito implicatura conversazionale.
L’implicatura scatta nel momento in cui, pur rispettando il principio di cooperazione, violiamo
una massima.
Esemplificando attraverso un esempio citato da Levinson:
A: Dov’è Carlo?
B: C’è una VW gialla davanti alla casa di Anna.
Nonostante l’apparente incoerenza di B, egli ci sta dando una risposta che è il più cooperativa
possibile, non sapendo rispondere in modo preciso alla domanda. Una possibile interpretazione
potrebbe essere: “non so dove si trovi Carlo, ma vedo la sua auto davanti alla casa di Anna, ed è
quindi probabile che Carlo si trovi a casa di Anna”.
Il concetto di implicatura è un concetto centrale in pragmatica, poichè ci permette di capire le
intenzioni comunicative del nostro interlocutore quando questo non le rende chiaramente
esplicite.