pari passo al faticoso sviluppo di una politica comunitaria sull’
immigrazione. Seguire le fasi che, a partire dal Trattato di Amsterdam,
hanno scandito questo processo sarà utile ad individuare gli obiettivi e le
strategie su cui è stata di volta in volta concepita la gestione comunitaria dei
flussi migratori, in particolare la successiva politica di cooperazione e
vicinato con i paesi terzi mediterranei. Si valuterà anche il risvolto pratico
di quelle dichiarazioni programmatiche, mettendo in risalto gli strumenti
finanziari e operativi di fatto impiegati nella lotta alla clandestinità e nella
promozione dell’emigrazione legale. Laddove dunque si parlerà di
“dimensione esterna della politica comunitaria sull’immigrazione”, si farà
riferimento al coinvolgimento dei paesi del Maghreb nell’obbiettivo di
addivenire ad una gestione negoziata e condivisa della circolazione trans-
mediterranea di individui: la Partnership euro-mediterranea, il Dialogo 5+5
e la Conferenza euro-africana di Rabat saranno considerati in qualità di
principali fora multilaterali di discussione sul tema.
Il desiderio profondo che ha ispirato questo lavoro è, comunque, quello di
andare oltre la sola prospettiva europea, comprendere cosa determina nelle
società nordafricane il progetto migratorio e focalizzare gli interessi -
economici quanto diplomatici - che convergono a determinare le scelte
politiche dei governi maghrebini. Su tali intenti si articola la seconda parte,
dedicata interamente a fornire un ritratto del Maghreb come tradizionale
bacino di emigrazione e meta recente delle migrazioni intra-africane. Tra le
persistenti asimmetrie economiche e i riflessi di un diffuso autoritarismo
politico si rintracceranno i fattori di attrazione e impulso dei movimenti
migratori in entrata e in uscita da quest’area del Mediterraneo che, benché
protagonista di soddisfacenti performance di crescita, non riesce ancora a
sfruttare a pieno il suo potenziale economico. Ci si soffermerà quindi ad
osservare il fenomeno delle migrazioni sub-sahariane in transito verso
l’Europa in tutte le sue varianti, poiché in esse risiedono tanto le cause e gli
effetti delle normative nordafricane ed europee che regolamentano le
2
entrate legali, quanto le ragioni di una crescente mobilità illegale verso il
Maghreb e l’Europa. A questo proposito, sarà doveroso seguire brevemente
le tappe della diaspora clandestina, che dalle frontiere meridionali
maghrebine fino a quelle europee, incontra gli interessi delle organizzazioni
criminali e i metodi di contrasto e respingimento implementati da qualche
anno anche dalle normative dei tre paesi nordafricani e dalla prassi libica.
Le caratteristiche geografiche, la prossimità all’Europa, la tradizione
coloniale, le dimensioni dei mercati e l’interesse comune a preservare
l’occupazione nazionale hanno consentito dunque di fornire un panorama
unitario della regione. Nell’ultima parte, tuttavia, si metterà un focus sulla
Tunisia di Ben Ali, cominciando con l’osservare l’impatto che una
liberalizzazione economica avvenuta a spese del pluralismo politico sta
generando sui movimenti migratori. Si metteranno in rilievo i nessi che
sussistono, da una parte, tra l’esposizione al fenomeno dell’immigrazione
dal Sud e la normativa sulla migrazione attualmente vigente in Tunisia, e
dall’altra, tra la risorsa rappresentata dalle rimesse dei migranti e le
politiche che incentivano l’emigrazione legale. Si concluderà dunque col
valutare se, e fino a che punto, esistano interessi comuni ad una gestione
congiunta dei fenomeni migratori trans-sahariani e trans-mediterranei,
evidenziandone eventuali limiti e potenziali correttivi, anche in relazione al
nuovo approccio dichiarato dalle istituzioni europee, di pensare la
migrazione in maniera “circolare”.
L’analisi condotta sulla Tunisia ha potuto avvalersi delle esperienze
raccolte e delle ricerche effettuate sul campo in occasione di un viaggio-
studio compiuto a Tunisi tra luglio e agosto 2008. In questa occasione,
estremamente preziosa è stata la collaborazione e la disponibilità di Sami
Adhouani, Coordinatore dei Progetti della Fondazione Friedrich Erbert
Stiftung, che dal 1988, a Tunisi, rappresenta un punto di riferimento per le
(rare) associazioni autonome della società civile e le organizzazioni
sindacali, coinvolgendole in studi e ricerche scientifiche su vari temi di
3
attualità nel dibattito locale ed internazionale. Parte del materiale utilizzato
per la realizzazione di questo contributo è costituito da Working Paper e
Reports di tavole rotonde, conferenze, seminari e convegni sul tema
“Immigrazione”, periodicamente organizzati con uno dei suoi partner di
lunga data: l’Istituto Universitario Europeo di Fiesole (Firenze).
Un ringraziamento sentito va anche al Prof. Jahouili, Docente della Facoltà
di Antropologia di Tunisi, che, accompagnandoci nei luoghi assolati delle
periferie della capitale, mi ha aiutato ad arricchirmi di un consapevolezza
più autentica di questa terra.
4
CAPITOLO I: LE RELAZIONI EUROMEDITERRANEE NEL
PROCESSO DI ELABORAZIONE DI UNA POLITICA
MIGRATORIA COMUNE.
1. BREVE STORIA DELLE RELAZIONI EUROMEDITERRANEE.
Dalla fine degli anni Ottanta l’Europa della Comunità Europea ha
cominciato a manifestare una crescente attenzione nei confronti dei suoi
vicini mediterranei, fino ad allora considerati, in un’ottica regionalista e di
retaggio post-coloniale, gli interlocutori di un dialogo avviato sulla base di
accordi di cooperazione la cui base giuridica si rintraccia nell’articolo 238
del Trattato CEE (ora articolo 310). Essi erano rivolti a disciplinare l’intera
rete di transazioni commerciali attraverso una progressiva liberalizzazione
degli scambi, all’assistenza finanziaria mediante la concessione di
sovvenzioni a fondo perduto, all’erogazione di prestiti a condizioni
particolari di durata di tasso d’interesse e all’assistenza tecnica nella
realizzazione di piani di sviluppo. Gli Accordi conclusi con la Tunisia e il
Marocco nel 1969 dimostrano, tuttavia, come tale tipo di cooperazione
finisse per vanificare un approccio globale in favore di un’ottica
essenzialmente bilaterale, privilegiando nella pratica gli aspetti commerciali
e riproponendo le vecchie relazioni basate sull’acquisto di materie prime e
sulla vendita di prodotti manufatti, lasciando invece senza soluzione i
problemi del debito estero, della disoccupazione e dell’autosufficienza
alimentare dei paesi mediterranei non comunitari.
La cooperazione Euromediterranea era destinata a subire i contraccolpi
dello shock petrolifero del ’73: la recessione economica mondiale indusse
la Comunità ad imporre misure restrittive all’importazione in tutti quei
settori dove era minacciata la produzione comunitaria, così che quello
agricolo e tessile furono i più toccati da misure protezionistiche che
costrinsero i paesi mediterranei non comunitari ad una condizione di
5
compratori netti. L’allargamento alla Grecia (1981), alla Spagna (1986) e al
Portogallo (1986) fece crescere il timore dei paesi mediterranei comunitari
e della Francia, di non veder tutelate in modo adeguato le proprie
produzioni, soprattutto agricole, che avrebbero subito direttamente gli
effetti del regime concorrenziale preferenziale dei paesi non comunitari.
Con l’istituzione nel 1986 dei PIM (Programmi integrati mediterranei) la
Comunità si impegnò ad attivare tutte le fonti di finanziamento disponibili a
livello comunitario e nazionale al fine di valorizzare il potenziale sviluppo
di aree o settori regionali caratterizzati da rilevanti fenomeni di
sottosviluppo: la ratio era quella della protezione del Mezzogiorno italiano
e del Midi francese dalla concorrenza dei nuovi Stati membri
1
.
Tuttavia, il nuovo assetto comunitario conteneva in nuce il rischio di
compromettere le relazioni con i Paesi terzi mediterranei, a tutto vantaggio
degli altri mercati (PECO, Giappone e Stati Uniti) verso i quali avrebbero
potuto orientare i propri flussi commerciali, soprattutto nel settore
dell’agricoltura.
Fino alla fine degli anni Ottanta quindi, la politica mediterranea europea
resta essenzialmente schiacciata tra la visione settoriale delle politiche
comunitarie e le istanze interne dettate dal processo di allargamento a 12: il
bilancio politico del Consiglio Europeo di Strasburgo dell’1989
sottolineava l’insufficienza delle misure adottate per colmare lo squilibrio
Nord-Sud, che aveva assunto proporzioni sempre più inquietanti. Non solo
il volume degli scambi non era cresciuto, ma anche i fondi stanziati per
aiutare lo sviluppo dei paesi terzi mediterranei si erano dimostrati esigui e
la loro erogazione estremamente lenta. Nel periodo tra il 1979 e il 1987 i
fondi comunitari rappresentavano appena il 3% del totale degli apporti
pubblici netti ai Ptm e lo stanziamento del solo 11,5% del suo aiuto
pubblico allo sviluppo, a fronte del 67% destinato ai Paesi Acp e del 21,5%
1
Franco Rizzi, Un Mediterraneo di conflitti. Storia di un dialogo mancato, Roma, Maltemi 2004,
p.69.
6
destinato a i paesi non associati dell’America Latina e dell’Asia, dimostra
quanto il Mediterraneo non rappresentasse ancora per la Comunità europea
una priorità
2
. Alla metà del decennio tutti i Paesi del Maghreb registrano
una battuta arresto dell’Indice di sviluppo che esaspererà una situazione
geopolitica già pericolosamente instabile: le rivendicazioni autonomiste
sulla regione marocchina del Sahara occidentale da parte dei guerriglieri
nazionalisti del Frente del Polisario (1976-1988), questione tuttora irrisolta,
le spinte modernizzatrici e l’irredentismo delle minoranze berbere in
Algeria, lo scoppio della cosiddetta “guerra del pane” in Tunisia (1984), il
deterioramento dei rapporti libico-americani in seguito all’incidente di
Lampedusa, fanno da sfondo al complessivo irrigidimento politico dei Paesi
del Nord Africa determinato dalla divisone del mondo in due blocchi.
La caduta dei regimi comunisti dei Paesi dell’Europa centro-orientale, lo
scioglimento del Patto di Varsavia (1° aprile 1991) e lo smembramento
dell’Unione Sovietica (cominciato nell’ agosto 1991) non ponevano solo il
problema dell’allargamento ad Est ma costringevano l’Europa ad aprirsi a
tutto il suo vicinato. Una serie di avvenimenti tra i quali lo scoppio della
Guerra del Golfo e l’esplodere della protesta islamica in Algeria aggravano
un periodo già difficile per i Paesi del mediterraneo per via di un’esplosione
demografica senza precedenti, un tasso di disoccupazione preoccupante,
una crescita economica insufficiente, forti squilibri nella bilancia dei
pagamenti, frutto della riduzione del prezzo del petrolio e di una crescente
dipendenza alimentare.
Questo scenario rivela tutta l’inefficacia della Politica Globale
Mediterranea e fanno acquistare al Mediterraneo un enorme peso: per
l’Europa comunitaria l’esigenza di migliorare gli accordi di cooperazione
deriva soprattutto da considerazioni di sicurezza interna ed esterna, in
considerazione dell’aggravarsi della crisi algerina e dei riflessi
2
Renata Pepicelli, 2010: un nuovo ordine mediterraneo? , Messina, MESOGEA, 2004, p.40.
7
sull’immigrazione, sull’afflusso di rifugiati e sulla presenza in Europa di
militanti di nuovi movimenti integralisti su base religiosa
3
.
Una sorta di sentimento di pacificazione unito alla necessità di
stabilizzazione politica ed economica dell’area hanno dunque posto le basi
alle nuove relazioni che l’Europa si preparava ad intessere nel Mediterraneo
con un ruolo di guida.
2. IL PRINCIPIO DEL CO-SVILUPPO ALLA BASE DEL PROCESSO
DI BARCELLONA.
Il Processo di Barcellona, lanciato nella Conferenza dei Ministri degli Esteri
Euro-Mediterranei nel Novembre 1995, crea una nuova alleanza basata sui
principi di joint ownership, dialogo e cooperazione. La conferenza riunisce
per la prima volta intorno ad una Dichiarazione comune i quindici Pesi
membri dell’Unione Europea e dodici paesi del Sud e dell’Est del
Mediterraneo
4
. La Dichiarazione di Barcellona individua il principale
obiettivo della Partnership nella “creazione congiunta di una regione di
pace, prosperità e stabilità condivise nel bacino del Mediterraneo.”
L’obiettivo normativo coincideva con il reale proposito di applicare i
principi della soft-security per assicurare la stabilità europea in tutta la sua
periferia sud
5
. Tali intenti dovevano essere perseguiti in primo luogo
stimolando lo sviluppo economico dei Paesi del Sud del Mediterraneo al
fine di minimizzare la migrazione di individui in Europa, percepiti come
fonte principale delle tensione economiche, sociali e politiche interne tanto
3
Francesca d’Oriano e Concetta Caccaviello., La conferenza di Barcellona. Evoluzioni e
prospettive, Quaderni CEIC, Napoli 2003.
4
Stati UE partecipanti: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda,
Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Spagna e Svezia. Ptm partecipanti:
Algeria, Cipro, Egitto, Israele, Giordania, Libano, Malta, Marocco, Siria, Tunisia, Turchia,
Autorità Palestinese.
5
European Policy and the Southern Mediterranean, George Joffé in North Africa. Politics, Region
and limits of transformation, Routledge 2008
8
all’Europa quanto ai paesi in questione. Nella Comunicazione della
Commissione del 1994 che sta all'origine del Partenariato si legge, per
esempio, che "se le pressioni migratorie non saranno opportunamente
gestite grazie ad una attenta cooperazione con i paesi interessati, è facile
prevedere il rischio di attriti a scapito delle relazioni internazionali e delle
popolazioni immigrate stesse"
6
.
La gestione più armoniosa, concordata ed efficace dei flussi migratori
sottende dunque il grandioso progetto di cooperazione interregionale
lanciato a Barcellona e articolato in tre volet : il partenariato Politico e di
Sicurezza, il Partenariato Economico e Finanziario e quello in campo
Culturale, Sociale ed Umano.
Il primo pilastro mira a creare un’area comune di pace e stabilità, basata sul
rispetto della Carta delle Nazioni Unite, della Dichiarazione Universale dei
Diritti Umani e dei principi generali del diritto internazionale. Il
raggiungimento di forme politiche democratiche e la protezione dei diritti
inviolabili dell’uomo all’interno di ciascuno degli Stati aderenti, nel rispetto
delle diverse peculiarità culturali, sono individuati come premessa alla
promozione, a livello regionale, di un comune concetto di sicurezza, da
raggiungere attraverso riunioni frequenti tra i rappresentanti degli Stati
Membri. A livello regionale esso si concretizza nelle Conferenze del
Comitato Euro-mediterraneo, a livello bilaterale invece in Accordi di
associazione con tutti i PTM. Seminari di informazione e formazioni
previsti due volte l’anno e una rete di collegamento degli istituti di politica
estera (EuroMeSCo) sarebbero stati rivolti a instaurare fiducia e dialogo tra
gli stati partner.
Il secondo asse è costituito dalla cooperazione economica e finanziaria che,
attraverso una progressiva eliminazione delle barriere tariffarie e non
6
Commissione delle Comunità europee, Una politica mediterranea più incisiva per l'Unione
europea:l'instaurazione di un nuovo partenariato euro-mediterraneo, Comunicazione della
Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, COM(94)427 def., Bruxelles 19 ottobre 1994,
p. 6.
9
tariffarie al commercio dei prodotti industriali e la liberalizzazione del
commercio dei prodotti agricoli, è stata finalizzata alla creazione di una
zona di libero scambio entro il 2010. Le misure indicate a tal fine sono lo
sviluppo di economie di mercato, l’adattamento e l’ammodernamento delle
strutture economiche e sociali e lo sviluppo di meccanismi volti a favorire
trasferimenti di tecnologie, da realizzarsi in primis attraverso un aumento
degli investimenti diretti.
Il terzo asse è costituito dal Partenariato in campo sociale, culturale e
umano, rivolto alla promozione dei diritti dell’uomo e della democrazia
attraverso un’opera di sostegno e finanziamento ad organizzazioni non
governative. Nel campo della giustizia e affari interni, sarà rilanciato,
dall’Unione Europea un programma regionale basato sulla concessione del
diritto di asilo a favore dei rifugiati e sulla cooperazione in materia di
immigrazione clandestina e di crimine organizzato.
Inevitabilmente, il capitolo economico del Partenariato si configura come il
più dettagliato e corposo, non solo perché estensione degli Accordi
bilaterali di cooperazione già esistenti tra l’Europa e alcuni Stati del Sud del
Mediterraneo, ma anche perché ne è presupposto culturale il rigido credo
economicistico in nome del quale il processo di integrazione comunitaria
stesso era stato portato avanti, culminando con successo nel Mercato Unico
Europeo. Benché consentisse il libero accesso al mercato europeo dei beni
industriali e un accesso più ristretto ai prodotti agricoli, la nuova politica
economica convertiva i vecchi accordi commerciali in accordi sul libero
commercio, in base ai quali i prodotti industriali europei avrebbero avuto
libero accesso ai mercati dei partner mediterranei dopo un periodo di
transizione necessario alla graduale soppressione delle barriere tariffarie e
non tariffarie. L’apertura reciproca dei mercati avrebbe esposto i settori
industriali dei Ptm - visti come il principale potenziale generatore di
crescita e impiego- alla concorrenza spietata dell’industria europea,
mettendoli così nella condizione obbligata di ottimizzare le proprie risorse e
10
adottare appropriate riforme economiche per far fronte alla sfida europea
modernizzando le loro economie. La tesi economica di fondo è quella
secondo cui la liberalizzazione del commercio e degli investimenti
rappresenta la strada maestra per stimolare la crescita dei Paesi marginali e
quindi, nel tempo, la convergenza con il tenore di vita dei Paesi più
sviluppati.
In questo senso, l’integrazione dei mercati del Sud avrebbe garantito la
“prosperità condivisa”, mentre una serie di misure parallele volte a costruire
fiducia reciproca e dialogo avrebbero provveduto costruire la “zona di pace
e stabilità”. L’integrazione economica emerge quindi come finalità
preminente della cooperazione euro mediterranea che avrebbe poi creato,
quasi spontaneamente, le condizioni abilitanti (o addirittura necessitanti)
per l’armonizzazione e l’integrazione in altri settori, da quello politico-
militare a quello socio-culturale
7
.
L’istanza della gestione dei flussi migratori venne così rinviata al cosiddetto
“terzo pilastro” del partenariato, dedicato alle questioni sociali e culturali,
come una sorta di appendice o conseguenza naturale di un processo
imperniato sulla cooperazione economica e di sicurezza. La novità rispetto
al passato è dunque quella di vincolare la cooperazione economica e la
creazione di una zona di libero scambio ad una più attiva assistenza ed
integrazione reciproca nei settori della sicurezza, della tutela dei diritti
umani, e del rispetto delle diversità culturali e religiose, che sostituisce con
il concetto di “co-sviluppo” i vecchi e unilaterali “aiuti allo sviluppo”.
L’idea chiave era quella per cui, dal momento che i settori più poveri della
società rappresentano i principali bacini di emigrazione, lo cooperazione
allo sviluppo dovesse puntare a fornire ai potenziali migranti le risorse che
essi esigono dalla migrazione
8
.
7
Ferruccio Pastore, Relazioni euromediterranee e migrazioni, in Dossier Politiche migratorie di
Cooperazione Cespi-AsCod-MIgraction, Roma 2001
8
Martin Lawrence, Trade and Migration: NAFTA and Agriculture (Policy Analysis in
International Economics)” Institute for International Economics, 1993
11
Tale approccio “funzionalista” trascura alcuni dati fondamentali tra cui la
debolezza e le asimmetrie dell'interdipendenza economica euromediterranea
(sia nel campo commerciale, sia in quello finanziario) e sottostima
l'importanza delle interdipendenze, culturali politiche ed economiche,
generate dalle migrazioni. Basti ricordare, a titolo d'esempio, che secondo
l'Ufficio Italiano Cambi, nel 1997, le rimesse inviate per canali ufficiali da
immigrati presenti in Italia verso i paesi del Nord Africa (40 miliardi di lire;
ma la cifra andrebbe perlomeno raddoppiata se si volesse tenere conto delle
rimesse inviate attraverso circuiti finanziari informali) hanno, per la prima
volta, superato gli investimenti diretti netti italiani verso la stessa area (30
miliardi di lire)
9
.
Nelle Conclusioni della conferenza, inoltre, emerge una palese
divaricazione delle priorità individuate dagli interlocutori per un efficace
gestione dei flussi migratori: per gli europei, quella di ottenere una
maggiore cooperazione dagli Stati di origine e di transito nella lotta
all'immigrazione clandestina; per i paesi extra-UE, invece, si tratta di
tutelare le comunità emigrate e di preservare la vitale risorsa economica
rappresentata dalle rimesse. Ne deriva una discussione disarticolata in due
livelli poco comunicanti: uno piuttosto generico, focalizzato sugli aspetti
positivi delle migrazioni transmediterranee; l'altro, tecnicamente più
approfondito ma ugualmente improduttivo, incentrato sulla lotta
all'immigrazione clandestina: "I partecipanti […] riconoscono l'importante
ruolo svolto dalle migrazioni nelle loro relazioni; convengono di accrescere
la loro cooperazione per ridurre le pressioni migratorie ricorrendo, tra
l'altro, a programmi di formazione professionale e di assistenza per la
creazione di posti di lavoro. Si impegnano a garantire la protezione di tutti i
diritti riconosciuti, ai sensi della legislazione vigente, ai migranti
legalmente residenti nei rispettivi territori; nel settore dell'immigrazione
clandestina, decidono di instaurare una più stretta cooperazione; in questo
9
Ibidem.
12