9
1 – La Teoria dell’Attaccamento
L’innovativo approccio bowlbiano (dagli anni ’50 ad oggi) rivolse l’attenzione
alla prima infanzia e in particolare allo studio del legame tra madre e bambino.
Bowlby, durante la sua formazione, fu colpito dagli effetti negativi sullo sviluppo
del bambino provocati da carenze nelle precoci relazioni di attaccamento e
stimolato ad indagarne origine e natura. Grazie a questa sua esperienza clinica
con bambini deprivati e ragazzi disadattati egli apporterà un grande contributo
all’emergenza di un paradigma concettuale per lo studio e la classificazione della
psicopatologia in età infantile la Developmental Psychopathology (o psicologia
dello sviluppo), una vera e propria rivoluzione all’interno del panorama della
psichiatria tradizionale degli anni settanta. Insoddisfatto però dalle proposte
teoriche correnti, iniziò ad interessarsi all’etologia, perché particolarmente
colpito dalla sua metodologia, basata sull’osservazione diretta dell’individuo nel
suo ambiente naturale.
Gli studi osservativi introdussero un’ulteriore innovazione: la “realtà”, opposta
alla “fantasia” freudiana, realtà intesa come eventi psicologici interpersonali,
derivanti dai limiti difensivi e dalle difficoltà caratteriali dei genitori.
L’essenza dell’approccio etologico sta nell’avvalorare influenze genetiche e
ambientali in ogni percorso evolutivo. Bowlby sosteneva infatti che i processi
psicologici che producono la struttura di personalità sono dotati di un buon grado
di sensibilità all’ambiente, specialmente a quello familiare, soprattutto durante i
primi anni di vita. All’interno di questo percorso evolutivo, egli riconobbe un
“primato dei legami emotivi intimi” tra il bambino e le sue figure d’accudimento,
in particolare la madre, e chiarì come l’attaccamento fosse un sistema
motivazionale primario al pari del soddisfacimento orale della teoria psicanalitica
delle pulsioni. Sottolineò inoltre l’ugual importanza ai fini della sopravvivenza e
10
dello sviluppo dell’individuo, in quanto, la salvezza della specie è strettamente
collegata al mantenimento della prossimità con una figura che possa garantire
protezione, sostegno e conforto. Per dirla con le parole di Bowlby : «La fame del
bambino piccolo per l’amore e la presenza della madre è grande quanto la sua
fame per il cibo» (1973, cit. in Holmes, 1993, trad. it. p. 68). Tutti nascono con
l’attesa di trovare un adulto propenso all’accudimento, ma nella realtà,
quest’ultimo può verificarsi tale o può essere rifiutante, imprevedibile o
minaccioso (Lorenzini, Sassaroli, 1995). Quindi, nonostante il bambino abbia
una propensione innata a formare legami di attaccamento, darà luogo ad un
modello di attaccamento che risulterà più o meno funzionale sulla base delle cure
genitoriali a cui è esposto. Come già accennato in precedenza, la teoria
dell’attaccamento dava meno importanza alle fantasie, ponendo invece enfasi
sulle capacità del bambino di elaborare previsioni attendibili riguardo le risposte
del genitore, sia che quest’ultimo fosse capace o limitato, attento o distratto,
amorevole o disturbato. Il bambino “costruisce” la sua personalità e le sue
risposte agli altri, su attese prevedibili (anche quando la prevedibilità contempla
l’imprevedibilità del genitore) fondate su eventi relazionali ripetuti. Questa
precoce organizzazione del significato dell’esperienza si esprime sottoforma di
Modelli Operativi Interni (MOI), un insieme di norme coscienti e/o inconsce, che
consentono al bambino di analizzare le informazioni rilevanti per la relazione di
attaccamento, sulla base di quanto si sia sentito accettato e ascoltato dai
caregiver. I MOI infatti, non riflettono una versione obbiettiva del genitore, bensì
la storia delle risposte affettive e della disponibilità di quest’ultimo nei confronti
del bambino; queste rappresentazioni mentali dell’esperienza vissuta
nell’infanzia con le persone che si sono prese cura di lui, costituiscono la matrice
delle future interazioni (Bowlby, 1973). Nei modelli operativi interni
dell’attaccamento quindi, sono contenute sia le informazioni circa il proprio
11
valore personale e la propria amabilità, sia la valutazione sulle emozioni
riguardanti l’attaccamento, proprie e degli altri, sia informazioni circa la
disponibilità e affidabilità degli altri a offrire sostegno, vicinanza fisica ed
emotiva. Ne deriva che il legame di attaccamento può essere considerato un
fattore di rischio o di protezione, il quale però deve essere letto all’interno di una
cornice interpretativa che considera l’importanza che giocano anche gli altri
fattori come le variabili genetiche e temperamentali del bambino, il contesto
familiare più ampio ed eventuali eventi traumatici nel corso dello sviluppo
(Simonelli, 2010). È quindi in relazione all’adeguatezza che i caregiver
dimostrano rispetto ai compiti di accudimento, protezione e conforto, che i
bambini interiorizzano la consapevolezza di poter superare le difficoltà insieme
al genitore, perché hanno ripetutamente esperito la capacità di suscitare in lui una
reazione emotiva, in risposta ai propri bisogni. In questo senso la teoria
dell’attaccamento considera, in termini di sicurezza acquisita, il livello di
adattamento e di integrazione affettiva e interpersonale che il soggetto adulto
dimostra di aver raggiunto, in relazione alla tipologia di esperienze vissute nelle
relazioni primarie. Gli studi più recenti vertono in molteplici direzioni, la
prospettiva sociale dell’attaccamento ad esempio, assume che i legami romantici
possano essere considerati come legami di attaccamento in grado di rielaborare le
precedenti esperienze, dunque snodo cruciale del percorso verso la genitorialità
(Carli, 2002). Recentemente Mikulincer e Shaver (2002), hanno proposto un
nuovo paradigma basato su tre componenti: controllo della responsività e della
disponibilità del partner; le caratteristiche individuali nel grado di sicurezza o
insicurezza dell’attaccamento; ricerca di prossimità in soggetti con attaccamento
insicuro. Attraverso questionari self-report hanno misurato l’attivazione del
sistema di attaccamento, verificando così che una risposta positiva alla richiesta
di disponibilità da parte del partner, risulta l’elemento chiave per definire la
12
sicurezza o meno della relazione (Lis, et al., 2008). Numerosi lavori empirici
sono stati implementati aggiungendo agli stili di attaccamento altri costrutti
come: il caregiving e il supporto, la qualità delle relazioni e la soddisfazione di
coppia, sessualità, conflitti, e dinamiche di coppia. Sulla scia dei risultati delle
ricerche effettuate sono state formulate delle ipotesi di intervento terapeutico di
coppia (Rholes et al., 2001; Johnson, Makinen, 2001; Feeney, 2003). Per quanto
concerne invece la prospettiva dell’attaccamento nel ciclo di vita, il legame di
attaccamento è affrontato dal punto di vista della sua trasformazione lungo tutto
l’arco della vita, a partire dal legame di coppia (Lis, et al., 2008). Secondo questa
prospettiva, si deve tenere in considerazione come parametro del legame il
concetto di simmetria vs asimmetria. Nell’infanzia il legame che il bambino ha
con i genitori è di tipo asimmetrico; in adolescenza inizia un percorso durante il
quale, attraverso nuove interazioni, l’adolescente sperimenta nuovi investimenti,
assegnando al partner la funzione protettiva. In questa fase vi è il passaggio ad
una nuova direzionalità, una relazione sempre più simmetrica con le figure
genitoriali; nel momento in cui la coppia romantica diviene anche parentale vi è
una ulteriore modificazione verso l’asimmetria, a causa dell’assunzione di cure
nei confronti dei figli e in seguito, dei genitori anziani (Carli, 1999; Lis, 2008).
Le neuroscienze (soprattutto la neurobiologia interpersonale) si muovono sempre
più verso lo studio delle relazioni umane. Il focus centrale di questa scienza è
costituito dalla bidirezionalità del modellamento tra sistemi neurali e legami di
attaccamento. Le esperienze di attaccamento precoci, comportano una cascata di
processi biochimici che stimolano e aumentano lo sviluppo e la connettività delle
reti neurali in tutto il cervello. L’allontanamento dalle persone da cui il bambino
dipende per la crescita biologica produce sofferenza, dolore e ansia (Schore,
1994). Le interazioni faccia a faccia avviano il sistema nervoso simpatico del
bambino che passa a livelli più alti di attivazione del consumo di ossigeno, del
13
metabolismo, dell’energia e dell’espressione genetica. L’aumento di attivazione è
correlato a sua volta con una maggior produzione di ossitocina, prolattina,
endorfine e dopamina. È interessante notare che queste sequenze biochimiche
sono le stesse implicate nella dipendenza da sostanze (Cozolino, 2008). Sia le
relazioni sia le sostanze che danno dipendenza infatti, modulano i livelli dei
neurotrasmettitori cerebrali facendoci sperimentare sensazioni che vanno dalla
disperazione all’estasi. I neuropeptidi (endorfine, vasopressina, ossitocina)
regolano le sensazioni di dolore, piacere, attaccamento e sessualità. Le
monoamine (dopamina, serotonina, noradrenalina) adattano il nostro livello di
attivazione, la nostra energia e il senso di benessere. Questi mediatori
neurochimici modulano il nostro senso di sicurezza, pericolo, sconforto e gioia
(Kandel, 2003). Il rilascio di oppioidi endogeni, come le endorfine, allevia il
dolore e crea una sensazione benefica di euforia; a livello cerebrale le endorfine
inibiscono l’attivazione dell’amigdala (componente chiave nei circuiti della
paura a causa del suo elevato numero di oppioidi), ciò ci rende più calmi, sicuri e
quindi meno all’erta. Ricerche sui primati indicano che il rilascio di oppioidi
endogeni di madre e figlio stimolano e modulano il processo di attaccamento
(Cozolino, 2008). Durante comportamenti sociali come il grooming o il gioco, i
livelli di endorfina aumentano sia nel genitore che nel figlio, durante la
separazione invece vi è rapido crollo delle endorfine e sia la madri che i figli
riferiscono sensazioni di disagio, ansia e tristezza (Kaverne, Martensz, Tuite,
1989). La vicinanza alla madre, trasformata in linguaggio biochimico degli
oppioidi, ad alti livelli di rilascio, procura sensazioni di sicurezza, relax e felicità,
mentre livelli inferiori provocano ansia, e comportamenti mirati al
raggiungimento della vicinanza fisica e ad un senso di sicurezza (Cozolino,
2008). L’effetto calmante degli oppioidi ci trasmette la sensazione di essere nel
posto giusto con la persona giusta, così come l’eroina dice al drogato che tutto va
14
bene e che non è necessario cercare attaccamento (Cozolino, 2008). I
neuropeptidi, come la vasopressina e l’ossitocina, sembrano svolgere un ruolo
nella sintesi proteica, necessaria ai processi neuroplastici implicati nella
formazione dei legami di coppia e nell’apprendimento di diversi comportamenti
sociali (Insel, 1997; Ostrowski, 1998; Kandel, 2003; Cozolino 2008). Questa
elevata generalizzazione può spiegare in parte i benefici del transfert nella
relazione terapeutica e la capacità delle relazioni di modificare il cervello sociale
durante tutta la vita. Il legame con un terapeuta, un insegnante, un educatore o
con persone capaci di donare affetto e cure, può innescare processi cerebrali che
facilitano flessibilità e disponibilità al cambiamento (Uvnäs, Moberg, 1998).
Sulla base di queste teorizzazioni, sembrerebbe che lo schema di attaccamento
possa cambiare in meglio: molte persone mostrano dei cambiamenti che rilevano
una continua elasticità neurale nei circuiti di attaccamento (Cozolino, 2008).
Dunque, se le interazioni successive e/o rielaborazioni ed integrazioni di
esperienze infantili sono possibili, allora la sicurezza “guadagnata” è in grado di
interrompere la trasmissione intergenerazionale di modelli di attaccamento
negativi. Alcuni recenti programmi di ricerca nell’ambito sociale si rivolgono
all’analisi di se, e come, fattori di rischio multipli e rappresentazioni psicologiche
dei primi caregiver di madri con disturbo da abuso di sostanze agiscano, su
diversi livelli, per influenzare l’affidamento dei figli (Hans, Bernstein, Henson,
1999; Suchman, Luthar, 2000). Ad un livello familiare /sociale, per esempio,
l’affido dei figli di madri consumatrici di sostanze è più frequente in donne che
riportano esperienze infantili di abuso e trascuratezza, esposizione ad eventi
negativi e di violenza domestica (Nail et al., 1997; United States Department of
Health and Human Service, 1999; Marcenko et al., 2000). I fattori demografici
come una carente educazione, gravidanza in età adolescenziale e disoccupazione
cronica, mettono queste madri tossicodipendenti in una situazione di rischio più
15
elevata di perdita della custodia dei propri figli. Anche i rischi psicosociali
correlati alla maternità, incluso un abuso massiccio di sostanze e una comorbidità
psicopatologica, predicono più frequentemente l’affido dei figli (DHHS, 1999;
Nail et al., 1997). Per esaminare in che modo i fattori di rischio multipli correlino
tra loro nell’influenzare l’affidamento dei bambini, questi studi, tengono in
considerazione come variabili mediatrici le rappresentazioni dei primi caregiver
dei genitori con disturbi da abuso di sostanze. Dai risultati di tre ricerche
sull’esame delle percezioni dei propri genitori, è emerso che il campione di adulti
consumatori di sostanze riferiscono più spesso l’esperienza di accudimenti poco
premurosi o intrusivi rispetto al campione normativo (Bernardi, Jones, Tennant,
1989; Schweitzer, Lawton, 1989; Torresani, Favaretto, Zimmermann, 2000).
Tuttavia, ad oggi, pochi ricercatori hanno esaminato come la percezione della
genitorialità degli stessi soggetti tossicodipendenti, possa influenzare la
motivazione e la continuità dell’accudimento dei loro bambini, volgendo quindi
lo sguardo verso la generazione presente e futura. Uno studio del 2005
dell’Università di Yale, integrando l’approccio ecologico della genitorialità
(Belsky, 1993) alla teoria dell’attaccamento (Bowlby, 1982), ha esaminato se le
rappresentazioni genitoriali di madri con disturbi da abuso di sostanze fossero in
relazione alla gravità del loro consumo di sostanze e al disagio psichico e se
entrambi i fattori mediassero l’associazione tra la percezione della propria
genitorialità e il possibile affido dei loro figli. I risultati sono coerenti con
l’ipotesi dell’associazione tra le rappresentazioni delle madri di come sono state
cresciute dai loro genitori e l’affido dei figli; questa correlazione risulta però
mediata (per il 33%) dal consumo materno di sostanze e il disagio psichico
(Suchman, McMahon, Zhang, Mayes, Luthar, 2005). I dati elaborati sono
conformi alle previsioni della teoria dell’attaccamento: le donne
tossicodipendenti che nell’infanzia percepivano le loro madri come non curanti e
16
intrusive più spesso optavano per l’affido del proprio bambino. Ciò indica che i
processi rappresentazionali nei confronti dei propri genitori, giocano un ruolo
critico nella continuità della genitorialità. In conclusione, l’affido dei figli di
madri tossicodipendenti appare come una conseguenza dell’accumularsi di fattori
di rischio multipli, che interagiscono tra loro a diversi livelli (Suchman et al.,
2005). Programmi di ricerca in questa direzione stimolano un forte interesse sul
piano clinico, potrebbero infatti determinare se durante il percorso terapeutico il
cambiamento a livello rappresentazionale è possibile o se al contrario, in questo
campione particolare di genitori tossicodipendenti, c’è il rischio di sostenere una
continuità genitoriale (Pajulo, Suchman, DeCoste, Mayes, 2006).
1.1 - Trasmissione Intergenerazionale dell’Attaccamento
La teoria dell’attaccamento fornisce una chiave di lettura e degli strumenti
concettuali utili ad una analisi della genitorialità non in termini di psicopatologia
ma di fattori di rischio evolutivo; autorizza quindi alla formulazione di alcune
ipotesi riguardo all’apporto delle relazioni intergenerazionali sugli eventi, lungo
tutto il ciclo di vita, considerandone i correlati di adattamento e i fattori di rischio
(Carli, 1998; Lancini, 2008). Possiamo dunque in quest’ottica, parlare di uno stile
relazionale in età adulta, come risultante di un insieme di processi che risiedono
nell’attaccamento del bambino ai genitori, dotati di un certo grado di stabilità nel
tempo. Il bambino, cresciuto con un determinato stile di attaccamento, tenderà a
riproporlo nell’accudimento del proprio figlio, perpetuando la trasmissione dello
stile di attaccamento (Caviglia, 2003). L’elemento di continuità, non è dato dalla
semplice ripetizione ma dalla costanza della qualità dei comportamenti
interattivi. Dunque è l’aspetto qualitativo che sembra tramandarsi nelle
generazioni attraverso non solo l’evoluzione individuale ma anche quella
17
interpersonale, in particolare nell’assolvimento della genitorialità. La
trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento risiede in questo passaggio:
dalle rappresentazioni mentali del genitore alle interazioni con il bambino e di
conseguenza al suo stile di attaccamento (Simonelli, Calvo, 2000). D’altra parte,
in una concezione multidimensionale dei processi di attaccamento, la continuità
tra le esperienze infantili di attaccamento e le successive cure genitoriali, può
essere interrotta dall’influenza specifica di altre esperienze d’attaccamento
durante l’infanzia e lungo tutto il ciclo di vita, come ipotizzato in diversi modelli
teorici e confermato da numerose ricerche sugli attaccamenti multipli.
L’implementazione delle teorie bowlbiane nasce dall’individuazione dei pattern
di attaccamento infantili dovuta a Mary Ainsworth, alla sua formazione da
testista e alla sua passione per le differenze individuali. Ella, grazie alle
numerose ricerche empiriche, notò una grande variabilità nel comportamento di
accudimento delle madri e nei complementari stili di attaccamento dei figli. Da
numerosi studi (Ainsworth, 1995) emerse infatti una correlazione significativa tra
il grado di sensibilità della madre e l’attaccamento sicuro o insicuro del bambino.
Durante il Baltimore Project (anni 60/70), venne ulteriormente affinato il metodo
di valutazione dell’attaccamento attraverso la messa a punto della Strange
Situation (Ainsworth, Blehar, Waters, Wall, 1978). Gli studi però che hanno
portato all’identificazione di un forte legame intergenerazionale tra il modello
operativo interno del genitore e lo specifico pattern di attaccamento del bambino,
sono stati resi possibili soprattutto grazie al contributo di Mary Main e colleghi,
ideatori dell’Adult Attachment Interview, strumento che verrà esposto nel terzo
capitolo della presente ricerca (George, Kaplan, Main, 1985). Le quattro
categorie di funzionamento mentale negli adulti, individuate nell’AAI,
evidenziano caratteristiche fondamentali molto simili ai modelli di attaccamento
descritti dalla Strange Situation. Diversi studi (Fonagy, Steel, Steel 1991;
18
George, Kaplan, Main, 1984; Levine, et al., 1991; Van Ijzendoorn, 1995) hanno
trovato forti correlazioni tra i modelli di attaccamento infantili e quelli adulti:
GENITORE BAMBINO
Sicuro/Libero (F) Sicuro (B)
Invischiato (E) Insicuro/Ambivalente (C)
Distanziante (Ds) Insicuro/Evitante (A)
Irrisolto (U) Disorganizzato (D)
Questi dati hanno rinforzato l’ipotesi teorica bowlbiana della trasmissione
intergenerazionale dei modelli operativi interni (MOI); i dati sono maggiormente
attendibili per le macrocategorie sicuro/insicuro, mentre per le categorie
distintive sono meno univoci. Come illustrato nei capitoli successivi della
ricerca, per analizzare il fenomeno della trasmissione intergenerazionale dei
modelli di attaccamento, all’interno di un campione di madri tossicodipendenti,
residenti in comunità madre-bambino, si è deciso di utilizzare l’AAI e
l’Attachment Q-Sort (AQS) e di osservarne le correlazioni.
1.2 - L’Attaccamento lungo un continuum: dal modello
evolutivo a quello clinico
Il successo della teoria dell’attaccamento e il suo divenire linguaggio trasversale
di psicoterapeuti e ricercatori di differenti indirizzi fu (ed è) dovuto proprio
all’avvalersi, da parte del suo fondatore, nonostante non rinnegasse la sua
formazione psicanalitica, dei progressi raggiunti da branchie scientifiche come
l’etologia (Caviglia, 2003). I tre lavori, considerati ormai dei classici: “The
Nature of Child’s Tie to His Mother” (1958), “Separation Anxiety e Grief and
19
Mourning in Infancy and Early Childhood” (1960), letti a Londra alla Società
psicanalitica britannica e caratterizzati da un’impronta etologica, rappresentarono
la prima esposizione formale della teoria dell’attaccamento (Bretherton, 1992).
Dalla prima enunciazione formale ad oggi, nonostante l’espansione della teoria,
favorita dal suo linguaggio trasversale, vi sono delle difficoltà nel definire i
disturbi dell’attaccamento, a causa della mancanza di ricerca empirica e al
contempo della distanza teorico-clinica tra l’immensa mole di dati provenienti
dalla ricerca ed i sistemi diagnostici che non hanno integrato sufficientemente i
risultati (Ammaniti, et al., 2001). Uno sforzo di integrazione è stato provato da
un gruppo di ricercatori (Boris, Zeanah, 1999) i quali hanno suggerito di
considerare l’attaccamento lungo un continuum clinico che va dall’attaccamento
sicuro fino ai disturbi da assenza di attaccamento.
MAGGIORE ADATTAMENTO MINORE ADATTAMENTO
• Attaccamento sicuro
• Attaccamento insicuro (evitante o ambivalente)
• Attaccamento disorganizzato
• Distorsioni della base sicura
• Disturbi da assenza di attaccamento/disturbo reattivo dell’attaccamento.
Seguiremo quindi tale schema per descrivere i vari livelli su cui vengono
osservati i disturbi dell’attaccamento.
1.2.1 - Classificazione proposta da Mary Ainsworth
Perché si possa parlare di legame d’attaccamento è necessario che la diade
Caregiver-bambino affronti le situazioni di disagio attraverso specifiche strategie
20
comportamentali. Ciò vuol dire che l’organizzazione del comportamento del
bambino verso il caregiver, rilevata nelle procedure osservative, deve rientrare in
una delle classificazioni dell’attaccamento previste da quest’ultime. Mary
Ainsworth e i suoi collaboratori, mediante la procedura osservativa della Strange
Situation, hanno identificato tre pattern di attaccamento: sicuro, insicuro-evitante
e insicuro-ambivalente (Ainsworth et al., 1978). La validità di questa
classificazione è stata confermata da una numerosità molto alta di osservazioni,
in campioni normali e a rischio, in tutto il mondo occidentale; per quanto
concerne la validità predittiva, è stato dimostrato che l’attaccamento insicuro è
significativamente associato a problemi comportamentali quali: scarso controllo
degli impulsi, bassa autostima e difficili relazioni con i pari, mediate da una
difficile regolazione emozionale (Sroufe, 1983; Turner, 1991; Zimmermann,
Grossmann, 1994). Diverse ricerche hanno confermato, almeno per quanto
riguarda la prima infanzia, che i bambini cresciuti in un ambiente di cura
svantaggiato sviluppano più spesso attaccamenti insicuri con i propri genitori
come nel caso di bambini maltrattati o abusati (Crittenden, 1985) nei figli di
madri tossicodipendenti (Rodnig, Beckwith, Howard, 1991) o depresse (Teti,
Gelfand, Messinger, Isabella, 1995). I MOI “insicuri” saranno più rigidi e più
resistenti al cambiamento rispetto a quelli “sicuri”, dato che si sono formati a
causa di una mancata integrazione, nel senso di sé, tra aspetti di realtà esterna
(caratterialità o psicopatologia dei genitori) e caratteristiche emotive interne
(aggressività, paura, vergogna, umiliazione ed altri vissuti collegati con quelle
esperienze). Ciò nonostante, è importante ritenere che i modelli insicuri pur
essendo associati a possibili esiti disfunzionali, rappresentano differenze
individuali nel pattern di attaccamento, variazioni personali all’interno di un
range di strategie normali e non costituiscono un indice di patologia, perché non
hanno una componente di rischio intrinseca. Ogni stile di attaccamento quindi