e colleghi) come indicatori del processo e degli esiti della psicoterapia; le ricerche presentate
esplorano il funzionamento metacognitivo nei disturbi di personalità, in particolare nel disturbo
Borderline di Personalità (BPD), che sembra essere il disturbo elettivo in presenza di uno sviluppo
anormale della RF e di altri fattori di rischio nell’infanzia (attaccamento disorganizzato, traumi,
abusi e/o maltrattamenti).
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Capitolo I
“Un mondo fatto di persone”. Origini e sviluppo della Funzione
Riflessiva
Nella vita quotidiana la maggior parte delle persone cerca costantemente di prevedere il
comportamento degli altri, attribuendo loro scopi, credenze e intenzioni, che li guidano nel
raggiungimento dei loro obiettivi. Queste attribuzioni, nate dalla psicologia della vita quotidiana o
psicologia del senso comune (folk psychology), sono spesso coerenti con i comportamenti espressi
e permettono delle interazioni efficaci tra le persone. È fondamentale l’attribuzione di questi stati
mentali poiché garantisce una comprensione sociale dei comportamenti, svolge praticamente una
funzione adattiva e protettiva rispetto all’ambiente esterno, che altrimenti potrebbe essere percepito
costantemente ostile o estraneo a se stessi. Questa capacità di leggere la mente altrui è stata studiata
e valutata da diversi autori e correnti di pensiero, nonché collegata alla riflessione sui propri
processi mentali e sulle loro conseguenze operative ed esecutive nella realtà.
Le origini di questi studi vengono rintracciate negli esperimenti dei due primatologi Premack e
Woodruff (1978), i primi a parlare di “teoria della mente”, in cui hanno indagato la capacità di uno
scimpanzè di prevedere il comportamento di un attore umano in situazioni finalizzate a uno scopo.
Qualche anno dopo Wimmer e Perner (1983), riprendendo le idee di Premack e Woodruff, misero a
punto il compito sperimentale della “falsa credenza” per bambini, basato sul trasferimento
inaspettato di un oggetto dal posto x al posto y all’interno del seguente scenario: un personaggio
mette l’oggetto che tiene in mano (es., una biglia) in un contenitore x e poi se ne va; in sua assenza
un secondo personaggio sposta l’oggetto dal contenitore x al contenitore y; quindi il primo
personaggio rientra in scena e dichiara che andrà a prendere la sua biglia; in questo momento si
chiede al bambino dove il personaggio cercherà la biglia. Per rispondere correttamente il bambino
deve rendersi conto della diversa rappresentazione della realtà che ha il personaggio, rispetto allo
stato di cose effettivo, e prevedere che il suo comportamento sarà guidato da una sua credenza
(cercherà la biglia dove crede che sia e non dove si trova realmente). Wimmer e Perner mostrarono
che a 4 anni i bambini sono per la maggior parte in grado di risolvere il compito di falsa credenza,
mentre a 2-3 anni lo falliscono; in studi seguenti sono state escluse difficoltà nei bambini piccoli
attribuibili a limiti nella memoria o nella comprensione delle domande-test (cfr. Lewis e Osborne,
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1990; Moses e Flavell, 1990; Perner, Leekam e Wimmer, 1987, cit. in Camaioni, 2003), mentre
sono stati individuati alcuni precursori di questa capacità di comprensione della mente. In
particolare, verso i 12-13 mesi i bambini sembrano in grado di distinguere le espressioni facciali
emotive e di regolare l’azione in base alle reazioni emotive della madre; a 2-3 anni comprendono
stati mentali non epistemici (desideri, emozioni, intenzioni) e sanno fare “giochi di finzione”(ad
esempio, capiscono che “per finta” una banana può essere usata come se fosse un telefono).
Secondo alcuni autori, come Fodor e Leslie (Camaioni, 2003), questi segnali rappresentano un
indice della natura innata di una Teoria della Mente che porterebbe ad ipotizzare la presenza di un
modulo mentale che è predisposto proprio alla comprensione della mente, al contrario altri studiosi,
come Karmiloff-Smith (ibid.), ne negano l’esistenza. Perner invece spiega la ragione per cui i
bambini di 3 anni sappiano capire la finzione, ma falliscano nel compito della falsa credenza,
ritenendo che essi sono in grado di rappresentarsi che una cosa “sta per”, ma non possiedono ancora
la rappresentazione della rappresentazione (metarappresentazione).
All’incirca negli stessi anni, altri autori come Wellman e Bretherton, cominciavano ad indagare la
comprensione dei termini mentali (es. volere, desiderare, pensare, credere) da parte del bambino
indicandola come una componente importante nello sviluppo di una teoria della mente.
Il concetto di Teoria della Mente (legato ad un’ottica evolutiva), ovvero la capacità di attribuire a
se stessi e agli altri stati mentali come intenzioni, desideri, credenze e l’utilizzo di tale conoscenza
per prevedere il comportamento proprio e altrui, si lega al concetto di Funzione Riflessiva
(utilizzato nell’ambito della teoria dell’attaccamento), inteso come quell’insieme di “processi
psicologici sottostanti la capacità di mentalizzare” (Fonagy et al., 1997), e al concetto più ampio di
“metacognizione”.
Il primo a dare una definizione di “metacognizione” è stato Flavell (1979, cit. in Caviglia, 2005),
il quale la definisce come ogni conoscenza e attività cognitiva che ha come oggetto ogni aspetto di
qualsiasi impresa cognitiva, sottolineando la conoscenza dei propri processi cognitivi e la possibilità
di utilizzarla per poterli controllare. L’autore distingue tra “processi metacognitivi di controllo”
(funzionamento cognitivo) e “conoscenza metacognitiva” (o metaconoscenza, le riflessioni che un
individuo sviluppa sul proprio funzionamento cognitivo), analizzando alcuni “postulati base” che
nel corso dello sviluppo del bambino porterebbero all’organizzazione di una teoria della mente. Tali
postulati sono:
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1. La mente esiste: gli esseri umani sono soggetti che hanno una coscienza e conoscono (1-2 anni)
2. La mente ha delle connessioni con il mondo fisico: ci sono relazioni tra fenomeni mentali,
eventi e comportamenti (2-3 anni)
3. La mente è separata dal mondo fisico e differisce da esso: i pensieri non sono entità fisiche e
sono privati, non accessibili direttamente ad altri (3 anni)
4. La mente rappresenta gli oggetti e gli eventi in modo più o meno accurato: un oggetto può
essere rappresentato mentalmente in modi diversi, a volte anche falsi (4 anni)
5. La mente ha un ruolo attivo nell’interpretazione della realtà e delle emozioni sperimentate:
selezione, organizzazione, e trasformazione delle informazioni che provengono dall’ambiente
possono distorcere o arricchire la realtà (5-6 anni)
È possibile distinguere la conoscenza dalla metaconoscenza in base all’oggetto preso
rispettivamente in esame: la prima si focalizza su dati e informazioni, la seconda sui processi
mentali che operano su questi dati, informazioni e sui loro risultati.
Attualmente, specialmente in ottica cognitivista, prevale la tendenza a suddividere in sezioni più
piccole la metacognizione (automonitoraggio, monitoraggio della comprensione, metamemoria,
attribuzione di stati mentali, ecc.), data l’etereogeneità del concetto; in particolare il III Centro di
Psicoterapia Cognitiva di Roma interpreta la metacognizione, basando proprio su questo costrutto
clinico le linee guida della psicoterapia, come “ la capacità dell’individuo di compiere operazioni
cognitive euristiche sulle proprie e altrui condotte psicologiche, nonché la capacità di utilizzare
tali conoscenze a fini strategici per la soluzione di compiti e per padroneggiare specifici stati
mentali fonte di sofferenza soggettiva”(Carcione et al., 1997, pp. 91-92). Nella vita quotidiana
cerchiamo continuamente di prevedere le intenzioni e le reazioni altrui, pur non sapendo nulla di chi
abbiamo di fronte, e l’unico modo per farlo è affidarsi all’innata capacità umana di rappresentarsi e
prevedere gli stati mentali dal momento che le funzioni metacognitive hanno una radice biologica
(Semerari, 2001).
Semerari ha proposto una suddivisione della funzione metacognitiva in tre sottocategorie: l’attività
autoriflessiva, la comprensione degli stati mentali altrui e il mastery, ossia la rappresentazione di
problemi psicologici come problemi da risolvere e l’elaborazione di strategie adatte alla loro
risoluzione. Quest’ultimo aspetto sembra legare le conoscenze metacognitive al conseguente
sviluppo di strategie e processi esecutivi, con un’accentuazione sia sulle funzioni mentali che sulle
loro conseguenze “nel mondo esterno” (Amadei et al., 1998). Diventano di fondamentale
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importanza i modelli rappresentativi del Sé e dell’altro, oltre che come risultato di una procedura
tipica dell’uomo nell’espressione di un comportamento osservabile, soprattutto nello svolgersi delle
attuali psicoterapie a orientamento cognitivista. All’interno di ogni psicoterapia sono richieste al
paziente operazioni di tipo metacognitivo, quali riflettere sui propri e altrui stati mentali o crearsi
una rappresentazione della mente del terapeuta, e il riconoscimento di deficit in tali funzioni
permette di impostare un trattamento psicoterapeutico anche del paziente grave.
1.1. Teoria dell’Attaccamento e metacognizione
Una feconda linea di ricerca nell’ambito della metacognizione è quella che si rifà alla teoria
dell’attaccamento, la quale mette un accento particolare su una visione complessa, dinamica e
fortemente interpersonale di questo costrutto, cercando di far convergere e arricchire i diversi
contributi provenienti dalla psicologia cognitiva, dalla psicologia dello sviluppo, dalla psicoanalisi
ma anche dall’etologia e dalla cibernetica.
Il fondatore della teoria dell’attaccamento, John Bowlby prese le distanze dal suo originario
retaggio psicoanalitico e, attingendo anche alle teorie dei biologi evoluzionisti, arrivò a sostenere
che l’individuo viene al mondo con una fondamentale tendenza biologica a formare legami di
attaccamento, il bambino sarebbe predisposto geneticamente all’interazione sociale; Bowlby
sottolinea l’importanza dei legami emotivi che intercorrono tra madre e bambino e pone molta
attenzione al bisogno che il bambino ha di un ininterrotto e sicuro legame d’attaccamento con la
madre. Tale legame ha sia un valore primario di sopravvivenza fisica, dato che il mantenere una
vicinanza al proprio caregiver fornisce protezione, nutrimento e possibilità di apprendere e
esplorare l’ambiente, sia una valenza psicologica forte, grazie a cui il piccolo può sviluppare
successive abilità cognitive, comportamentali e sociali.
I comportamenti di attaccamento fanno parte di un sistema motivazionale e tendono a mantenere e
orientare la prossimità con il caregiver, tra questi possiamo riconoscere: pianto, sorriso,
orientamento dello sguardo verso il caregiver, locomozione (Caviglia, 2005). Bowlby identifica tre
sistemi comportamentali in relazione all’attaccamento: il sistema comportamentale
dell’attaccamento, il sistema comportamentale esplorativo (connesso al precedente in quanto è la
figura d’attaccamento che fornisce la base sicura per esplorare l’ambiente), il sistema della paura,
che attiva quello d attaccamento (ibidem); la responsività del caregiver riduce la reattività del
bambino a stimoli percepiti altrimenti come pericolosi (Fonagy, 2002). All’interno di questo tipo di
legame c’è una ricerca di sicurezza e conforto, a differenza di più generici legami affettivi, ed è per
questo che è caratterizzato da una profonda asimmetria di ruoli fra caregiver e bambino, se tali ruoli
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