intensità, la società, ma che ha subito vicende alterne collegate
soprattutto al mutare delle esigenze collettive dei gruppi sociali.
Il tributo non nasce infatti con l’uomo ma con l’evoluzione delle
collettività verso forme sempre più affinate e complesse .
Già Aristotele affermava che l’uomo è un animale politico
1
e come tale è
quindi destinato a vivere in una società, in un ordine sociale che appare si
come ordine esistenziale
2
ma che prima di tutto costituisce la proiezione
di un ordine deontologico, ossia normativo.
Nessuna società può quindi esistere se non è retta da un complesso di
norme che ne costituiscono l’ordinamento.
Gli uomini, per la loro natura sociale, costituiscono dunque non un
semplice aggregato di individui, ma una comunione di persone nella
quale i bisogni e le aspirazioni di ciascuno vengono a coordinarsi in un
vincolo solidale.
È proprio questo vincolo solidale che implica l’imprescindibile esistenza
di regole di condotta che facciano da presidio al corretto svolgimento dei
rapporti tra gli uomini.
Ma le norme che in passato si davano le collettività, se da un alto erano
destinate a regolare la condotta dei membri, dall’altro risultavano volte
a determinare le esigenze collettive e i mezzi con cui soddisfarle.
Le comunità primitive, viste le loro ridotte dimensioni, riuscivano a far
fronte a quelle poche esigenze che giorno dopo giorno avvertivano
grazie a proventi derivanti dallo sfruttamento di proprietà comuni, da
canoni di concessione territoriale, da risorse minerarie.
1
Mazziotti Di Celso-Salerno Manuale di diritto costituzionale Cedam 2002 pagg. 1-6
2
C’è una determinata organizzazione perché è storicamente riscontrabile lo svolgersi di un
complesso di attività umane secondo un particolare ordine.
Crisafulli Lezioni di diritto costituzionale I Cedam 1970, pag. 7
4
Altre volte si ricorreva allo sfruttamento di risorse provenienti da
collettività esterne attraverso forme di preda bellica o imponendo tributi
ai popoli sconfitti
3
.
Nelle primitive comunità, che presentavano dimensioni piuttosto ridotte
e in cui predominava lo spontaneismo dei membri, non vi era alcuna
necessità di rincorrere ad un’ imposizione fiscale ad opera dei pubblici
poteri per far fronte alle limitate spese collettive.
Le spese pubbliche erano minime rispetto a quelle odierne, soprattutto se
consideriamo che settori quali istruzione, sanità, assistenza ai non
abbienti, che oggi assorbono “maggior gettito”, non esistevano oppure si
reggevano grazie ad erogazioni provenienti da confraternite caritatevoli.
Regnava inoltre la consapevolezza reciproca di quelle che erano le
necessità collettive del tempo e, conseguentemente, nasceva spontanea la
ricerca di un metodo per soddisfarle.
Ogni membro avvertiva dei bisogni che, prima ancora di essere bisogni
individuali, coincidevano con quelli generali del gruppo, per il cui
soddisfacimento era disposto ad un sacrificio a favore della comunità nel
suo complesso.
Le esigenze del tempo che coincidevano sostanzialmente con la
manutenzione delle strade e delle opere pubbliche, venivano di solito
fronteggiate dal lavoro volontario o da corvées
4
.
Gli stessi oneri per la difesa venivano sostenuti direttamente dai cittadini
o attraverso la concessione di possedimenti oppure mediante assunzione
spontanea da parte di persone che si trovavano in determinate posizioni
sociali.
3
Per l’antica Roma le somme richieste ai popoli sconfitti costituirono una tale cospicua fonte
di entrata al punto che per molto tempo l’Italia fu esentata da qualsiasi tributo
4
Le corvees erano prestazioni obbligatorie di manutenzione di opere pubbliche.
5
Tutto ciò prendeva corpo in quella finanza patrimoniale che contribuì
non poco, prima della dilatazione della spesa pubblica, alle casse di tutti
gli Stati.
Si formava un tesoro pubblico i cui proventi erano destinati a far fronte
alle spese del gruppo e che nel tardo impero prese il nome di fiscus
princips, patrimonio personale del monarca, ma funzionalizzato ad
esigenze pubbliche.
La finanza pubblica si confondeva con quella del sovrano assumendo una
base eminentemente patrimoniale che trovava il proprio fondamento nel
dominio diretto del sovrano sul proprio del territorio.
L’importanza passata della finanza patrimoniale trova conferma, ancora
oggi, nell’esistenza di paesi sprovvisti di prelievo fiscale che riescono a
far fronte al sostentamento delle esigenze collettive attraverso lo
sfruttamento di risorse di proprietà collettiva come, il petrolio.
Questa finanza patrimoniale era diffusa anche nei paesi socialisti in cui la
proprietà dei mezzi di produzione era collettiva
5
.
Solo eccezionalmente, soprattutto in occasione di eventi bellici, si
ricorreva a forme di prelievo a carattere straordinario, quale il testatico.
Si trattava in tali casi, presumibilmente, di prestiti “coattivi”, come
testimoniano le fonti che spesso parlano di un rimborso totale o parziale
di tale tributo.
Nei piccoli gruppi la spesa pubblica si intreccia dunque in vario modo
con quella privata.
Nelle collettività ristrette, a carattere assembleare, ognuno riesce a farsi
un’idea di quelle che sono le necessità collettive e del contributo che egli
è in grado di apportare per il loro soddisfacimento.
5
Il pensiero di Benjamin Franklin secondo il quale “a questo mondo nulla è certo.. tranne la
morte e le tasse” trova quindi smentite.
6
Man mano che il gruppo si evolve e cresce sfuma pian piano la diretta
percezione di bisogni collettivi e si fa sempre più evanescente quella
forma di spontanea contribuzione alle spese pubbliche.
Il gruppo viene a disperdersi in un territorio, che a seguito delle
conquiste territoriali, diviene sempre più vasto frammentandosi in
piccole comunità tra le quali le relazioni si fanno labili, rendendo
difficile percepire al singolo quelle che sono le necessità collettive.
Non viene più avvertita più quell’esigenza di contribuire alle spese
destinate al soddisfacimento degli interessi collettivi.
Il vincolo solidale che univa i membri della collettività non viene più
percepito come tale e finisce per cedere il passo al potere di un’autorità
superiore.
La contribuzione alle spese collettive cessa allora di essere spontanea e
viene soppiantata da quella forma di imposizione fiscale ad opera
dell’autorità che assume carattere ordinario e costante.
In questa seconda fase, sono le autorità politiche ad ordinare ai membri
delle collettività di collaborare al fine di far fronte alle specifiche
esigenze collettive, imponendo prestazioni non prestabilite, accettate,
seppur a malincuore, dai membri del gruppo.
Il diritto tributario appare dunque già da questa fase riconducibile a
decisioni dell’autorità politica sulle spese da sostenere e sui modi per
finanziarle.
Il dato che contraddistingue l’imposizione fiscale nella società pre-
industriale, oltre all’intervento diretto dell’autorità nella determinazione
e quantificazione dei tributi, è il fatto di essere collegato a manifestazioni
di ricchezza di carattere “materiale”, facilmente individuabili, come ad
esempio i terreni, il bestiame, le merci.
In ciò risiede il pragmatismo che ha guidato la politica fiscale nella
società pre-indistriale: tassare ciò che è visibile “ictu oculi”, (quali la
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proprietà fondiaria o le merci in transito) ossia ciò che si manifesta in
modo immediato come indice di ricchezza, lasciando in secondo piano
fenomeni patrimoniali sfuggenti.
Difatti, quella forma di tassazione dei redditi commerciali e professionali
che oggi suscita maggiori controversie, è stata introdotta in un secondo
momento.
D’altronde, visto che l’economia del tempo era basata prevalentemente
su redditi derivanti dallo sfruttamento di terreni agricoli, risultava
superfluo andare a scovare altre forme di ricchezza poco diffuse,
derivanti dalle attività di carattere commerciale o artigianale.
L’autorità fiscale, una volta individuato quello che con linguaggio
moderno potremmo definire un indice di capacità contributiva,
provvedeva a selezionare quel metodo di imposizione che più si
confaceva alla ricchezza in questione, il quale, almeno in origine, si
basava sulla stima delle caratteristiche esteriori della ricchezza di volta in
volta colpita.
Era l’autorità fiscale che in prima persona procedeva alla determinazione
dell’imponibile secondo criteri di stima in base ai quali si perveniva ad
un reddito presunto, partendo dall’osservazione delle caratteristiche delle
coltivazioni, delle attività, del tenore di vita dei contribuenti.
Il fisco procedeva ad una valutazione che per l’agricoltura considerava
catastalmente le coltivazioni praticate in relazione alla produttività e
grandezza dei terreni e, per l’artigianato, si basava sull’attività esercitata,
sul tipo di attrezzature impiegate, sul numero degli addetti alla
lavorazione dei campi.
La fiscalità del tempo, risolvendosi esclusivamente in una questione di
individuazione e stima di manifestazioni di ricchezza, era dunque ben
lontana dall’idea di determinazione analitica dei redditi cui siamo
abituati oggi.
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Esisteva il concetto di reddito ma era un concetto disgiunto da quello di
“tassazione analitica”dei redditi.
Ma del resto, di una tale forma di imposizione fiscale neanche era
avvertita la necessità poiché il pragmatismo che risiedeva alla base della
politica fiscale del tempo rendeva applicabili i tributi in relazione a
circostanze estremamente elementari risolvendosi in forme di prelievo
più grossolane, meno raffinate, che si confacevano ad un prelievo basato
sull’iniziativa diretta delle autorità pubbliche.
Era proprio quella capillarità dell’intervento esattivo dell’autorità
pubblica a rendere difficile gestire prelievi troppo complessi ed elaborati,
costringendo quindi a trascurare manifestazioni patrimoniali troppo
sfuggenti.
L’imposizione su basi estimative era, tutto sommato, un sistema
piuttosto efficiente per l’epoca che però, nella sua approssimazione,
penalizzava la precisione nella determinazione dei redditi.
Il potere di stima che veniva attribuito alle autorità preposte alla
quantificazione e all’esazione dei tributi, insieme al notevole margine di
discrezionalità di cui esse godevano, conduceva difatti ad un risultato
piuttosto approssimativo, spesso troppo lontano dalla realtà.
Ma, del resto, era questo il costo che scontava il compromesso tra
semplicità ed effettività del sistema tributario, compromesso questo in
cui risiede l’essenza stessa del pragmatismo che caratterizzò la società
pre-industriale.
In particolare, l’imposizione dei redditi agrari, principale fonte di entrata
nella società pre-industriale si è sempre basata sull’utilizzo di
presunzioni basate su elementi empirici.
In un primo momento vennero adottati sistemi che prevedevano una
stima caso per caso condotta dai governanti con riferimento ai cespiti di
ciascun suddito.
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Ma quando tali sistemi non sembrarono più attuabili, soprattutto negli
Stati di vaste dimensioni, la “stima personalizzata” venne sostituita da
stime generalizzate che avevano la funzione di predeterminare il carico
tributario riferibile a ciascuna porzione di territorio
6
.
Le valutazioni estimative caratterizzarono l’imposizione fiscale nella
società pre-industriale, concretizzandosi non solo nella tassazione dei
redditi agrari ma estendendosi anche a quella delle attività artigianali e
commerciali
7
.
Solo con quel processo di cambiamento secolare e graduale che ha visto
il passaggio da un’economia basata sullo sfruttamento dell’agricoltura,
ad un’economia industriale e di servizi, è stato possibile abbandonare
quelle forme di tassazione fondate su valutazioni preventive ed
estimative da parte dell’autorità fiscale.
6
L’applicazione delle imposte dirette avveniva tramite contingente (come vedremo anche per i
tentativi di imposizione della ricchezza mobile), ossia attraverso la fissazione da parte
dell’autorità centrale di quote predeterminate di gettito che governi locali dovevano trasferire
nelle finanze imperiali.
7
Nella lustralis collatio, per la valutazione dei guadagni, venivano stimati tutti i beni o attrezzi
che l’artigiano o il commerciante acquistava con i frutti del proprio lavoro.
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1.2 LA TASSAZIONE DEI REDDITI AGRARI E DEI CONSUMI
COME ESPRESSIONE DEL POTERE DELLO STATO SUL
TERRITORIO
La fonte principale di entrata nella società pre-industriale fu costituita
dall’imposizione di carattere fondiario, e di questo non possiamo
stupirci, visto la preponderante importanza della produzione agricola
rispetto alle altre attività economiche.
In un tale contesto il problema della tassazione, e quindi
dell’individuazione delle ricchezze provenienti da attività commerciali o
artigianali veniva posto in secondo piano, prediligendosi prelievi di più
facile esazione, gravanti principalmente sui terreni agricoli.
All’epoca, del resto, era quanto di meglio ci si potesse aspettare da un
sistema tributario che operava sotto l’egida del pragmatismo.
L’imposizione dei redditi fondiari si è da sempre attestata sull’utilizzo di
presunzioni basate su elementi empirici: a partire dall’utilizzo di stime
che venivano effettuate caso per caso dall’autorità sino ad arrivare alle
varie forme di catasto.
A tal proposito il massimo dell’empirismo, sempre esistito in materia
tributaria, è dato rinvenirlo nell’antico Egitto, precisamente nell’utilizzo
del nilometro, metodo adottato allo scopo di valutare l’entità
dell’imposta sui terreni dovuta da ogni agricoltore.
L’originaria funzione di tale strumento consisteva nel prevedere e
contrastare le inondazioni del Nilo.
In seguito venne scoperta l’esistenza di un rapporto quasi fisso tra
l’altezza raggiunta dalle inondazioni del Nilo e l’accrescersi della
ricchezza. Sulla base di tale considerazione venne adottato un nilametra,
ossia una torre composta da 95 gradini che servivano a controllare il
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livello raggiunto dal fiume e calcolare, in base a tale parametro, la
relativa imposta.
L’imposta fondiaria era facilmente gestibile attraverso l’intervento
diretto dell’autorità fiscale: la stabilità dei terreni e la ciclicità delle
coltivazioni rendevano infatti estremamente agevole per il fisco
procedere direttamente, caso per caso, all’individuazione e alla stima di
questa forma di ricchezza.
Ma con l’evolversi della società i metodi di determinazione diretta da
parte dell’autorità centrale non furono più attuabili, vennero quindi
sostituiti da strumenti di forfetizzazione generalizzati il cui prototipo
coincide con il sistema catastale.
Già nel 1200 a.C. in Grecia troviamo le prime tavolette catastali, le quali
avevano la funzione di identificare il proprietario e di quantificare,
misurando la superficie o il valore di proprietà in quantità di grano, le
imposte che questi era chiamato a pagare.
Anche in Asia Minore (tra il 312 e il 174 a.C.) vi furono delle primitive
forme di imposizione fondiarie, pur se non esisteva un vero e proprio
catasto fiscale.
Le dichiarazioni erano accertate tramite testimoni scelti tra gli abitanti e
non attraverso una procedura strutturata e definibile come catastale così
come la intendiamo in senso moderno.
Secondo la tradizione raccolta da Erodoto, Strabone ed altri scrittori,
nell’antico Egitto, sotto il Faraone Sesostri III, tra il 1878 e il 1843 a.C. ,
l’agrimensura ebbe origine da un problema di catasto e cioè dalla
necessità di ripristinare i confini delle proprietà inondate dal Nilo e di
accordare una riduzione dell’imposta nel caso di erosioni
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.
8
S. Gallo, Origini ed evoluzione storico normativa dei sistemi catastali in Rivista della Guardia
di Finanza. www.gdf.it
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