6
soprattutto in Germania e negli Stati Uniti. Ma se nel primo paese il fotogiornalismo
subirà una brusca battuta d’arresto a causa dell’avvento del regime nazista, saranno
gli USA a produrre il giornale “simbolo” del fotogiornalismo: Life può giustamente
essere considerato il capostipite del fotogiornalismo moderno. Un’impronta decisiva
alla diffusione del reportage verrà data anche dai fotografi della cooperativa
Magnum, che racconteranno il mondo e i suoi avvenimenti con le loro fotografie;
proprio uno dei fondatori dell’agenzia, il grande Henri Cartier-Bresson, codificherà
quel modo di fare reportage, alla ricerca del “momento decisivo”. Si è accennato
anche alla crisi che ha investito il reportage, al fine di completare la panoramica
storica, rimandando all’ultimo capitolo la trattazione più ampia dell’argomento. Per
quanto riguarda l’Italia, si è voluto far riferimento alla situazione nel nostro paese
evidenziando come l’evoluzione del fotogiornalismo sia stata differente rispetto ad
altri. In particolare, si è richiamata la cronica mancanza di una cultura fotografica, la
cui affermazione è stata anche interrotta dal ventennio fascista, con la conseguente
scarsità di riviste illustrate di qualità, e i cui effetti sono ancor oggi visibili.
Nel secondo capitolo, si è approfondita la tematica del linguaggio fotografico e, in
relazione al suo uso a fini informativi, la capacità di questo di “raccontare” un
evento, ovvero di veicolare la notizia. Innanzitutto si è delineata la caratteristica
peculiare della fotografia come frammento di una realtà più ampia, come momento
che condensa l’avvenimento: in questo senso, la fotografia è contingenza assoluta. Di
qui, la ricerca bressoniana del “momento decisivo” diviene un vero e proprio
modello di fotogiornalismo. Parallelamente, la carica emotiva e di suggestione che
deriva dalla caratteristica del linguaggio fotografico rende a sua volta possibile la
trasformazione dell’immagine fotografica in simbolo, o icona, di un avvenimento.
Sempre in relazione al linguaggio fotografico, si è poi parlato dei diversi utilizzi che i
giornali possono farne. Pertanto, è stato descritto il linguaggio e l’utilizzo del
reportage; la fotografia documentaria, evidenziando anche le sue caratteristiche
particolari e le differenze da altri linguaggi; e l’uso della fotografia da parte della
stampa scandalistica, che ha da sempre fornito l’utilizzo più massiccio dell’immagine
a scopo illustrativo. Infine, si è ritenuto di dover inserire un’intera parte dedicata alla
fotografia di guerra, che assomma in sé tutte le caratteristiche del migliore
fotogiornalismo. Iniziando dalle origini, poiché la documentazione degli eventi
7
catastrofici è stata sin dall’inizio uno dei più significativi utilizzi della fotografia, si è
passati al grande reportage di guerra, con i suoi eroi, veri e presunti, il suo linguaggio
ed anche la sua retorica. Inoltre, si è ritenuto di dover trattare il controverso rapporto
tra fotografia in guerra e libertà d’informazione. Quest’ultima è sempre più minata
dai sistemi di censura militare che rendono sempre più difficile il mestiere del
fotoreporter di guerra, se non impossibile in certi casi.
Nell’ultimo capitolo si è inteso tracciare una panoramica generale dello stato del
fotogiornalismo oggi, evidenziando i fattori di crisi e i limiti alla posizione del
fotogiornalista nel sistema dell’informazione. Innanzi tutto sono state esaminate le
cause del tangibile declino del fotogiornalismo: ovvero, si è cercato di spiegare per
quali ragioni oggi il fotogiornalismo di qualità e il grande reportage spariscono dalle
pagine dei giornali, sebbene l’apprezzamento per le mostre del genere sia elevato. Il
tutto, mentre la nostra viene definita la “civiltà dell’immagine”. Tra i fattori messi in
evidenza, spicca il ruolo della televisione, che ha rivoluzionato il nostro rapporto con
l’immagine: al bombardamento di immagini attuale, corrisponde la mancanza di
valutazione dell’immagine in senso critico, la capacità di fermarsi e riflettere sul
significato della fotografia. Un altro importante elemento preso in considerazione è
quello dell’avvento delle tecnologie digitali, che ormai hanno soppiantato del tutto le
tecnologie tradizionali, provocando mutamenti significativi anche a livello
economico. I principali aspetti di questa tematica riguardano da una parte la
crescente facilità di manipolazione dell’immagine, con i problemi che essa comporta
per la credibilità dell’informazione. Dall’altra, si prospettano nuovi scenari dal punto
di vista dell’ampliamento delle capacità informative dei media: la versatilità e
l’accessibilità dei mezzi potrebbe trasformare potenzialmente chiunque in
fotogiornalista. Un fotogiornalismo amatoriale, cioè, in grado di eludere le censure e
di portare a conoscenza dell’opinione pubblica fatti che i professionisti non possono
documentare. Con riferimento agli argomenti trattati, si è poi tracciata una
panoramica dei principali problemi etici che riguardano il fotogiornalismo, e le
regole deontologiche messe a punto per delimitare quei confini che il professionista
non può travalicare. Infine, si è tornati a far riferimento alla situazione italiana, per
rilevare quale influenza abbiano avuto i cambiamenti di cui si è parlato in
precedenza. Infine, si è voluta rimarcare la difficoltà di inquadrare giuridicamente e
8
professionalmente lo status del fotogiornalista nel nostro paese. Se da un lato vi è la
possibilità per i fotoreporter di aderire all’ordine dei fotogiornalisti, dall’altro tale
possibilità è poco sfruttata poiché manca una struttura specifica per chi fa
giornalismo attraverso le immagini. Si è quindi sottolineata l’opportunità di un
ordinamento della professione, anche in considerazione del ruolo sociale che
indubbiamente il fotoreporter ricopre, e delle responsabilità etiche cui si è fatto
cenno.
9
I. Quadro storico del fotogiornalismo
1. Cenni sulla fotografia
Secondo l’etimologia di derivazione greca, “fotografia”
1
significa scrittura
della (o per mezzo della) luce
2
.
L’invenzione di tale “pittura di luce” o “fatta con la luce” fu stimolata da diversi
fattori. Innanzitutto, l’idea della “memoria dello sguardo”, che parallelamente al
linguaggio si è radicata nella coscienza attraverso la nostra evoluzione storica.
“La memoria dell’uomo […] ha sempre cercato garanzie nei segni, sonori tattili grafici,
promuovendo una sequenza di processi, che hanno impegnato unitariamente l’evolversi della
nostra cultura […]; per quanto riguarda l’immagine, si è passati a poco a poco, dai disegni
delle caverne sino alla fotografia, una tecnica meccanica che realizza immagini talmente
ricche di informazioni da costituire una seconda realtà […].”
3
In secondo luogo, vi furono fattori più specificamente figurativi, dettati in sostanza
dall’esigenza di disegnare bene senza difficoltà. La camera obscura, d’altra parte,
era nota fin dal Rinascimento
4
agli artisti che la utilizzavano come strumento per
disegnare prospetticamente in modo più agevole e preciso. Al di là delle successive
elaborazioni, essa consisteva in pratica di una stanza (o di una scatola) oscurata,
dotata di un foro ad un’estremità. Se il foro era abbastanza piccolo, esso permetteva
di visualizzare sulla parete opposta un’immagine invertita
5
.
Ma solo la combinazione di tali fenomeni ottici con determinati fenomeni chimici
permise la rivoluzionaria invenzione della fotografia. Essa si realizzò soltanto tra la
fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento, con l’affermarsi, tra l’altro, di un altro
influente fattore, questa volta di tipo sociale. Infatti, la borghesia in ascesa nella scala
1
Il termine fu utilizzato per la prima volta nel 1839 da Sir John Herschel, astronomo inglese
interessato alle tecniche per catturare e trattenere le immagini; pur essendo questo il primo caso
documentato, la paternità del termine è incerta. vd. R. Leggat, The Beginning of Photography, “A
History of Photography”, [http://www.rleggat.com/photohistory/index.html] (25 ottobre 2004), e I.
Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Bari, Laterza, 1993, p. 27
2
R. Chini, Storia, tecnica e critica della fotografia, in AA. VV., Enciclopedia della stampa –
Panorami storici II, Torino, Società editrice internazionale, 1969, p. 400
3
I. Zannier, op. cit., pp. 1-2
4
In realtà si pensa che i primi studi sul fenomeno debbano essere attribuiti ad Aristotele. I. Zannier,
op. cit., p. 2 e R. Leggat, op.cit.
5
R. Leggat, op. cit.
10
sociale comincia ad imitare gli stili di vita dell’aristocrazia; e tra gli status symbol
mutuati dall’antica classe dominante, emerge quello del ritratto di famiglia
6
. Ma a
differenza dei nobili, gli appartenenti alla nuova classe sociale si distinguono per la
propensione verso la parsimonia, pertanto anche l’iconografia familiare deve essere
preferibilmente a buon mercato. Di qui, la necessità di poter riprodurre facilmente
ogni pezzo in diversi esemplari. Stessa necessità che si afferma anche nel campo
editoriale, poiché libri e periodici illustrati venivano richiesti in misura crescente
7
.
A cavallo tra i due secoli citati, un rinnovato interesse verso i fenomeni di
fotochimica (già noti per altro fin dall’antichità), porta gli scienziati a scoprire che
alcuni elementi, quali il cloruro e il nitrato d’argento, diventano scuri dopo essere
stati esposti al sole. La scoperta della fotografia è dunque ad un passo. Chi arrivò più
vicino di tutti, senza però ottenere successo, fu il geniale quanto sfortunato scienziato
Thomas Wegwood. In collaborazione con Sir Humphrey Davy, ideò un sistema per
catturare immagini su lastre di vetro, ma non un sistema per fissare definitivamente
le silhouettes così ottenute.
Fu invece Nicéphore Niepce colui che per primo riuscì a fissare l’immagine in
maniera semipermanente: nel 1824 inventò il processo eliografico
8
, mente la prima
eliografia di cui abbiamo documentazione risale al 1826. Nel 1829 divenne socio di
Louis Daguerre, il quale continuò l’attività di sperimentazione anche dopo la sua
morte. Nel 1838 Daguerre inventa la dagherrotipia, ed è una vera e propria
rivoluzione. Non tanto dal punto di vista tecnico, anche se le innovazioni furono
rilevanti: i tempi di posa si riducevano drasticamente, e soprattutto il fissaggio con
bisolfito di iodio rendeva le immagini permanenti. Il dagherrotipo, il cui processo fu
reso noto nell’agosto 1839, divenne piuttosto una vera e propria moda (la
“dagherrotipomania”) e un grande successo commerciale, grazie anche alle qualità
“imprenditoriali” di Daguerre, che non esitò a servirsi della pubblicità e di un buon
patrocinatore
9
. L’invenzione fu accolta con entusiasmo, e sottoposta a vari tentativi
di miglioramento ma non mancarono le preoccupazioni: degli artisti che temevano di
ritrovarsi senza lavoro; e degli ambienti più reazionari che ne temevano la portata
6
R. Chini, op. cit., p. 401
7
ibid.
8
‘Photographer Nicephore Niepce’, [www.niepce.com/pagus/pagus-inv.html] (20 novembre 2004)
9
R. Chini, op. cit., pp. 402-403
11
“diabolica”
10
. Così, per questi e per motivi tecnici (la mancanza di un mezzo per
catturare l’azione istantanea e di una tecnica per trasferire l’immagine sulla pagina
stampata, insieme all’impossibilità di riprodurre l’immagine in più esemplari), il
dagherrotipo resterà estraneo a scopi illustrativi
11
. Questi stessi limiti ne
decreteranno il tramonto in solo una decina d’anni.
La risposta al problema della riproducibilità venne dal “rivale” di Daguerre, William
Henry Fox Talbot, che, sempre nel 1839, annunciò la sua invenzione del “disegno
fotogenico”, una tecnica che impiegava cloruro e ioduro d’argento per rendere la
carta fotosensibile
12
. In seguito, stimolato dalla polemica sul primato dell’invenzione
della fotografia, continuò a sperimentare e brevettare migliorie al procedimento che
aveva inventato, fino a giungere nel 1841 all’invenzione della calotipia. Il calotipo
riportò meno successo del dagherrotipo, sia per la minore qualità delle stampe
ottenute, sia per le restrizioni poste dall’inventore all’utilizzo del brevetto. Tuttavia
esso permetteva la riproducibilità dell’immagine attraverso la creazione di un
negativo. Fu questo, infatti, il principale merito di Talbot: l’invenzione fondamentale
del processo negativo-positivo, ancor oggi utilizzato.
“Talbot configurò più efficacemente degli altri inventori l’idea della fotografia,
caratterizzando questa tecnica, non solo come mezzo di rappresentazione, ma anche di
diffusione della immagini, intuendone l’importanza come moderno strumento di
comunicazione visiva, mediante l’invenzione del negativo, che diventa subito emblematico
della riproduzione e della moltiplicazione fotografica.”
13
Nonostante il minore apprezzamento rispetto alla dagherrotipia, ben presto anche la
calotipia ottenne una grande popolarità. Entrambe le tecniche contavano un numero
di appassionati, e parallelamente alla loro diffusione cominciavano a verificarsi le
prime manifestazioni sociali della fotografia: dall’interesse riscosso alla Prima
10
Un articolo del Leipziger Stadtanzeiner ammoniva che “…Voler fissare immagini effimere è non
soltanto un’impresa impossibile […] ma lo stesso desiderio di volerlo fare un’offesa a Dio”. Cit. in
W.Settimelli, La fotografia arte diabolica, in I. Zannier, Leggere la fotografia – Le riviste
specializzate in Italia, Roma, la Nuova Italia Scientifica, 1993, p. 236
11
AA.VV. L’Informazione giornalistica, a cura di M. Stazio, Napoli, Esselibri, 2003, pp. 129-135
12
La sequenza di comunicazioni sulla scoperta del procedimento da parte di Talbot fu frenetica, a
causa del timore di quest’ultimo di non vedere riconosciuto il suo primato nell’invenzione. In realtà,
egli non sapeva che la dagherrotipia era un procedimento diverso, né era a conoscenza delle prove
presentate da Niepce nel 1827. I Zannier, Storia e tecnica della fotografia, cit., p. 38
13
Ibid., p. 36
12
Grande Esposizione Internazionale di Londra (1851), alle prime associazioni
fotografiche
14
, ai primissimi periodici e annuari specializzati.
Negli anni compresi tra il 1839 e il 1851, la ricerca in campo fotografico fu sempre
molto intensa, e tesa soprattutto a superare i due principali problemi associati alle
tecniche della dagherrotipia e della calotipia: rispettivamente, l’unicità degli
esemplari e la granulosità delle stampe. La soluzione sembrava risiedere nell’utilizzo
di lastre negative in vetro, e a tale scopo le sperimentazioni si orientarono all’utilizzo
dell’albumina. I risultati erano buoni, ma i tempi di realizzazione estremamente
lunghi. Le ricerche di Frederick Scott Archer, infine, pervennero alla definizione di
un nuovo metodo: il processo al collodio. Esso permise finalmente di ottenere
negativi finemente dettagliati e in tempi rapidi
15
. Il procedimento al collodio, nelle
sue varianti umido e secco, trovò applicazione per una trentina d’anni, finché non
venne sostituito dal procedimento alla gelatina-bromuro d’argento. Introdotto per la
prima volta da Richard Maddox nel 1871, è il procedimento in uso ancora oggi e che
ha visto progredire la tecnica fotografica in tutte le sue applicazioni. La sua
introduzione segnò un punto di svolta: non vi era più bisogno né d’ingombranti
lastre, né di tende scure. Fu in sostanza il primo passo verso la fotografia istantanea e
la sua diffusione di massa
16
. Contemporaneamente, i costruttori si impegnavano a
costruire ottiche adatte ai diversi tipi di ripresa, nonché apparecchi fotografici dalla
meccanica più raffinata e meglio trasportabili. Una nuova industria in espansione
assicurava la concorrenza nei prezzi e lo stimolo nella ricerca. Emblematico è il caso
della Kodak fondata nel 1881 da Gorge Eastman. Proprio a quest’ultimo va il merito
di aver intuito che per rendere la fotografia un fenomeno era necessario rimuovere
dal processo fotografico ogni studio preliminare e successivo allo scatto.
14
La Photographic Society, fondata da Roger Fenton nel 1853 e rinominata Royal Photographic
Society nel 1897 è la più antica fra quelle ancora esistenti; oggi come allora si prepone di
“promuovere l’Arte e la Scienza della Fotografia”. La prima associazione di cui si abbia notizia è
invece la Société Héliographique, del 1851. R. Chini, op. cit., p. 413, e “Royal Photographic Society”,
[www.rps.org] (31 ottobre 2004)
15
R. Leggat, op.cit.
16
I. Zannier, Storia e tecnica della fotografia, cit., pp. 55-57, e R. Leggat, op. cit.
13
Nel 1884 introdusse la pellicola flessibile in celluloide e, quattro anni dopo, la prima
box camera, una fotocamera rivoluzionaria che riduceva a tre le operazioni
necessarie per effettuare una ripresa
17
. Si realizzava infine lo scopo che Eastman
aveva formulato nel fondare la sua azienda: rendere la fotografia accessibile “a tutte
le tasche e a tutte le intelligenze”
18
.
17
“Voi pigiate il bottone e noi facciamo il resto”: questo lo slogan con cui la macchina veniva
presentata al pubblico. R. Leggat, op. cit., e R. Chini, op. cit., pp. 435-450
18
I. Zannier, Storia e tecnica della fotografia, cit., p. 55
14
2. Gli albori del fotogiornalismo
Lo straordinario impatto comunicativo e informativo del nuovo mezzo, che
permetteva di “essere là dove i fatti accadono”, fu colto da subito
19
. In poco tempo la
fotografia stabilì un legame col giornalismo e con la stampa illustrata, che seguirono
una strada parallela al suo sviluppo.
Questo rapporto fu da una parte condizionata da fattori tecnici, riguardanti la
riproducibilità delle fotografie sui giornali; il problema della diffusione delle
immagini era altresì politico e socioeconomico, e sarà definitivamente superato solo
con l’estensione dell’informazione giornalistica a nuovi strati sociali coinvolti nella
vita pubblica
20
.
D’altra parte fu legato alle esperienze di coloro che per primi utilizzarono la
fotografia come mezzo di conoscenza del mondo
21
.
2.1 La riproduzione delle foto sul giornale
Quasi parallelamente ai progressi fatti dalla fotografia, si perfezionarono i
procedimenti di fotoriproduzione mediante la stampa ad inchiostro.
Soltanto tre anni dopo l’introduzione del dagherrotipo, nacque il primo giornale di
immagini: The Illustrated London News, che il 30 maggio 1842 pubblicò l’immagine
dell’attentatore che sparò alla regina Vittoria, primo esempio illustrazione
giornalistica moderna
22
. In seguito, in ogni paese comparvero riviste illustrate, che
sfruttavano la tecnica della xilografia: disegni ad incisione dalle linee pesanti e
accentuate, che perciò privavano le riproduzioni della nitidezza delle immagini
originali
23
. Il problema fondamentale era quello della riproduzione delle mezzetinte.
Anche i sistemi che utilizzavano matrici, come la fotolitografia, non offrivano
risultati soddisfacenti, in quanto il traguardo dell’identità con l’originale da
riprodurre era ancora lontano.
19
La prima fotografia di cronaca fu scattata da Herman Biow e Carl Stelzner nel 1842 ad Amburgo,
dopo un incendio che distrusse un intero quartiere della città. I. Zannier, Storia e tecnica della
fotografia, cit., p. 149
20
Ibid., p. 150
21
A. Papuzzi, Professione giornalista – Tecniche e regole di un mestiere, Roma, Donzelli, 2003, pp.
113-115
22
AA.VV., L’Informazione giornalistica, cit.
23
A. Papuzzi, op. cit.