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CAPITOLO 1°
STORIA DELL’ARRAMPICATA SPORTIVA O “FREE CLIMBING”
1- 1: ALPINISMO e ARRAMPICATA SPORTIVA
Dovendo individuare e tracciare un profilo storico dell‟arrampicata sportiva, come questa si
sia differenziata e progressivamente affrancata dall‟alpinismo, occorre innanzitutto
specificare quali sono gli elementi che ne caratterizzano le principali differenze.
Come si presentano agli occhi o all‟immaginazione di una persona comune l‟alpinista e il
climber (colui che pratica l‟arrampicata sportiva)? L‟alpinista forse lo immaginiamo con
giacca vento, pantaloni imbottiti, scarponi, occhiali da sole aderenti o addirittura
maschera, ramponi, piccozza-martello, guanti, zaino in spalla… insomma con un
equipaggiamento pesante che arranca su di un pendio ghiacciato; il climber invece a torso
nudo e pantaloncini corti, scarpette da ballerina, sacchetto per la magnesite, magari anche
senza corda, che volteggia in una ripida e liscia parete assolata. Queste due differenti
immagini, che sono anche quelle che ci hanno proposto i media in appositi programmi e
servizi o nei messaggi pubblicitari, rispecchiano queste differenze, anche se possono
fuorviare. Sono gli estremi di due discipline che comunque anno una matrice comune
o,come si vorrà affermare, l‟una figlia dell‟altro, che seguono due diverse strade pur
condividendo molte specificità.
I diversi elementi di differenziazione sostanzialmente possono essere sintetizzati in
questi tre aspetti: tecnici, ambientali e finalità della prestazione .
1- 2: ELEMENTI TECNICI
Nell‟alpinismo la progressione (ascensionale, ma anche in traverso o di momentanea
discesa e di ridiscesa) si effettua su gradi di difficoltà di scalata mediamente meno elevati
rispetto all‟arrampicata sportiva; inoltre nella progressione ci si può avvalere dell‟ausilio di
mezzi artificiali quali corde, staffe, chiodi, moschettoni e altro, specie quando si tratta di
superare passaggi particolarmente impegnativi o comunque rischiosi. Nell‟arrampicata
sportiva invece si deve procedere solo con l‟ausilio dei propri arti, i suddetti mezzi artificiali
vengono si utilizzati, ma solo per proteggersi in caso di caduta, mai come appigli o
appoggi supplementari (da cui la denominazione di arrampicata libera, libera cioè
dall‟uso dell‟artificiale come strumento di progressione, non come strumento di
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protezione). Da ciò già si può dedurre cosa si intende in arrampicata e nell‟alpinismo per
artificiale, e cioè tutto ciò che l‟uomo ha costruito con una tecnologia sempre più
sofisticata ed efficiente per consentirgli in definitiva una sempre maggiore sicurezza nel
suo vivere e muoversi in ambiente naturale. Ancora possiamo dire che è artificiale tutto ciò
che non è naturale o naturalmente disposto dalla parete o dalla montagna; addirittura
spesso si discute fra gli arrampicatori se sia lecito o meno utilizzare come appigli o
appoggi rami o radici che spuntano dalla parete perché spesso il loro utilizzo,dove non
previsto, facilita la progressione e dà un
diverso grado di difficoltà all‟itinerario.
1- 3: ELEMENTI AMBIENTALI
I terreni di gioco dell‟alpinismo e
dell‟arrampicata (useremo semplicemente
il termine “arrampicata” per differenziarlo
dall‟alpinismo, comprendendo con esso
tutti i diversi termini di “arrampicata
sportiva”, “arrampicata libera” , “free
climbing” anche se a quest‟ultimo alcuni
vogliono dare, come vedremo, un diverso
significato)
sono il più delle volte notevolmente
diversi.
L‟alpinismo è tipico della montagna e
ancor più dell‟alta montagna; privilegia le alte quote quando queste sono disponibili, le
condizioni ambientali, spesso avverse, sono un aspetto essenziale col quale confrontarsi e
di cui comunque si deve continuamente tener conto (fig.1-1), queste possono spesso
condizionare negativamente la prestazione fino a determinarne l‟interruzione. L‟avventura
alpinistica prevede lunghi avvicinamenti, spesso aggravati dalla neve, che la fanno durare
nel tempo: giorni, settimane, qualche mese, assumendo molte volte il carattere di una
spedizione.
Figura 1-1:Arrampicata in alta montagna dove spesso
le condizioni ambientali sono proibitive (foto M.
Oviglia)
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Tutto ciò raramente avviene nell‟arrampicata, dico raramente perché anche l‟arrampicata
può svolgersi in un contesto alpinistico; maggiormente però essa si svolge in condizioni
ambientali estremamente favorevoli (fig.1-2): si può scegliere una falesia esposta al sole o
all‟ombra a seconda della stagione, al riparo dal vento e.. anche dalla pioggia; non è
necessario trovarsi a quote elevate, si può arrampicare benissimo al livello del mare e
sulle stesse scogliere marine, i tempi di avvicinamento alla parete sono spesso ridotti e
normalmente non superano la
mezzora di cammino. Insomma la falesia d‟arrampicata si può frequentare anche solo per
un paio d‟ore con la possibilità di raggiungere comunque i più alti livelli delle proprie
prestazioni, assomiglia più ad una palestra (come da molti viene anche definita) dove gli
atleti vanno a fare la propria seduta di allenamento/gara che non alla montagna.
Figura 1-2: Arrampicata in falesia dove le condizioni ambientali sono più favorevoli
(foto D. Zita)
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1- 4: FINALITÀ della PRESTAZIONE:
Scopo dell‟impresa alpinistica è fondamentalmente conquistare la vetta, utilizzando anche
tutti gli strumenti artificiali che la tecnologia può mettere a disposizione. Naturalmente
l‟imporsi dei limiti nell‟uso dell‟artificiale non fa che aumentare il valore della prestazione ,
per cui è senz‟altro più prestigioso salire un “ottomila” senza respiratore, oppure superare
una parete di VI interamente in libera. L‟importanza della conquista della vetta si desume
anche dall‟abitudine introdotta da alcuni alpinisti inglesi, a partire da un certo periodo
storico ( seconda metà „800) di piantare sulla medesima la bandiera della propria nazione,
tale abitudine… si è trasferita anche nell‟ambito di alcuni settori dell‟arrampicata con la
diffusione del quaderno di vetta
1
.
Nell‟arrampicata invece conta principalmente l‟arrampicata in quanto tale, viene esaltato
il gesto con la voluta ricerca di una sempre maggiore difficoltà tecnica e, di conseguenza,
del proprio limite, che si cerca continuamente di superare e innalzare, possibilmente
garantendo l‟eleganza e l‟armonia dei movimenti. Perciò l‟arrampicata è anche arte in
quanto cura non solo l‟aspetto quantitativo ma anche quello qualitativo.
Quindi, in arrampicata, non solo non è necessario raggiungere una qualsiasi vetta, ma
anzi questa si può effettuare anche in pochi metri di roccia!
Queste differenze possono esser riassunte anche in alcuni passaggi dell‟introduzione a
Cento Nuovi Mattini di Alessandro Gogna: “Se da una parte (riferendosi all‟arrampicata) si
cerca di camminare il meno possibile per accedere alle pareti, dall’altra si accentuano i
dislivelli, si cercano montagne più isolate e grandiose. Se nell’arrampicata si evita il
freddo, in alpinismo il freddo e la quota sono elementi essenziali. Di fondo rimane che in
arrampicata il passaggio di settimo grado è la meta, mentre in alpinismo lo stesso
passaggio è un ostacolo che va eliminato con l’uso della staffa”.
1
si tratta di un diario, sostituito periodicamente, dove ogni salitore annota la propria prestazione con un pensiero o una
dedica.
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O ancora su “Alpinismo e arrampicata sportiva di Ludovico e Stella Marchisio”: “Il free
climbing, liberatosi dalla vetta, ha conferito alla difficoltà del passaggio un ruolo primario,
mentre essa nell’alpinismo tradizionale rappresentava un ostacolo che si cercava di
superare con mezzi artificiali (staffe) senza curarsi, pur di arrivare alla vetta , della grazia
formale…”
1- 5: I DIVERSI TERRENI di GIOCO
Nell‟arrampicata sportiva il più frequente terreno di gioco sono i cosiddetti “monotiri”:
questi non sono altro che degli itinerari attrezzati con protezioni fisse (chiodi permanenti
nella roccia). Tali itinerari partono da terra o comunque dalla base della parete, arrivano
fino ad una sosta
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attrezzata che ne costituisce la fine; essi vengono definiti più
comunemente: “vie” ed hanno tutte un nome. La lunghezza di una via monotiro varia dai
10/12 metri fino ai 30/35 metri, essa è determinata dalla conformazione di quel tratto di
parete oltre che dall‟altezza totale di quest‟ultima. Se l‟altezza totale della parete è
2
La sosta è costituita da due chiodi fissi disposti in posizione sfalsata ed eventualmente uniti da una catena con un
moschettone in cui far passare la corda di sicurezza. I chiodi, sia quelli di sosta che di protezione, vengono fissati nella
roccia dopo averla forata col trapano o con la modalità di un tassello ad espansione, o con una resina speciale che
solidificando diventa tutt’uno con la roccia.
Figura 1-3: Via lunga in ambiente marino (foto S. Pireddu)
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superiore ai 35 metri ed è interessante dal punto di vista arrampicatorio, la via si può
sviluppare in più tiri di corda, ogni tiro è naturalmente a sua volta chiodato e attrezzato di
sosta finale; in questo caso siamo in presenza delle cosiddette ”vie lunghe” che
cominciano a dare all‟arrampicata un certo sapore alpinistico. La lunghezza massima di
una via monotiro è determinata anche e soprattutto dalla lunghezza della corda (tiro di
corda, da cui “monotiro”) di sicurezza (60/75 metri, corde più lunghe non sono facilmente
gestibili), che deve poter consentire, con l‟assicurazione fatta a terra, la ridiscesa
dell‟arrampicatore dopo il passaggio della corda in sosta. Chiodi di protezione e corda,
unitamente all‟imbracatura che viene indossata da ogni scalatore e alla quale viene legata
la corda, costituiscono il sistema di sicurezza, la cui manovra viene attuata dal compagno
di cordata. Tale manovra viene effettuata a terra nel caso dei monotiri (ecco perché la
corda deve esser lunga almeno il doppio
della via) o nelle soste intermedie nelle
vie lunghe.
Al contrario al di sotto dei 10/12
metri l‟arrampicata prende il nome
di”traverso” e quando si tratta di scalare
dei massi prende il nome di “boulder” o “sassismo” (fig1-4). La caratteristica del traverso e
soprattutto del boulder è che sono un concentrato di difficoltà; qui tutta la gestualità della
salita può esaurirsi anche in
soli 5-6 movimenti di estrema difficoltà tecnica e potenza, tanto è vero che queste
specialità vengono valutate in maniera differenziata.
Figura 1-4: Sassismo (foto Shard Rock)
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Figura 1-5: L’esiguità degli appigli aumenta la
difficoltà della via: trazione su monodito, (foto
Shard Rock)
1-6: GRADI di
DIFFICOLTA‟
Gli itinerari di arrampicata
e alpinistici, non sono
come è ovvio tutti uguali
dal punto di vista
dell‟impegno psico-fisico,
anzi tratti di percorso
apparentemente uguali
possono presentare delle
difficoltà molto diverse.
Queste difficoltà, espresse
in apposite scale graduate,
sono determinate da
diversi fattori che qui di
seguito elenchiamo:
Inclinazione della parete o pendenza dell‟itinerario alpinistico.
Quantità e qualità (forma, dimensione, orientamento) degli appigli-appoggi.
Distanza fra gli appigli-appoggi.
Sviluppo (lunghezza complessiva di ogni tiro) della via.
Presenza di eventuali punti di riposo parziali o totali lungo lo sviluppo.
DIFFICOLTA’
DELLA
VIA
PUNTI DI
RIPOSO
INCLINAZIONE
PARETE
NUMERO
E FORMA
APPIGLI
LUNGHEZZ
A VIA
DISTANZA
APPIGLI
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Naturalmente nell‟alpinismo la gradazione tiene conto della totalità dell‟impegno
dell‟itinerario, mentre nell‟arrampicata ogni tiro di corda (via) ha una gradazione
indipendente.
Le scale più diffuse e utilizzate sono: la francese, la UIAA e la USA. In arrampicata, in
Europa, si utilizza la scala francese, mentre nell‟alpinismo si utilizza la UIAA. La tabella di
seguito riportata mette a confronto i gradi di difficoltà espressi nelle tre diverse scale. Qui
si propone:
FRANCESE UIAA USA FRANCESE UIAA USA
4a IV 7a VIII d
4b IV+ 7a+ VIII+ 5.12a
4c V- 7b VIII+ b
5a V-/V 5.9A 7b+ IX- c
5b V+/VI- b 7c IX d
5c VI- c 7c+ IX+ 5.13a
5c+ VI d 8a X- b
6a VI+ 5.10a 8a+ X- c
6a+ VII- b 8b X d
6b VII c 8b+ X+ 5.14a
6b+ VII+ d 8c XI- b
6c VIII- 5.11ab 8c+ c
6c+ VIII- c 9a
1- 7: BREVE CRONOLOGIA DELL‟ALPINISMO
Il rapporto che l‟uomo ha avuto con la montagna, fin dall‟antichità, è stato di timoroso
rispetto (salvo rare eccezioni) del primo nei confronti della seconda. La montagna con le
sue alte vette, avvolte dalle nuvole, che arrivavano fino al cielo erano per molti popoli la
dimora degli dei, si pensi al M. Olimpo nell‟antica Grecia; oppure erano infestate da
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Figura 1-6: Il Monte Bianco (foto M. Oviglia)
demoni, spiriti, streghe o mostri. Tali leggende, ancor più dei pericoli oggettivi e reali,
hanno contribuito nel tempo a tenere l‟uomo lontano dalle vette.
Non è un caso quindi che l‟inizio dell‟avventura alpinistica vera e propria coincida
storicamente con la seconda metà del „700, l‟epoca dell‟Illuminismo, di grandi scoperte
scientifiche e di grandi esplorazioni geografiche. A tal proposito Gian Piero Motti nella sua
Storia dell’Alpinismo afferma: “È il momento esatto in cui prende corpo l’alpinismo. Non
certo come fenomeno di ricerca individuale; ma inserito nel contesto scientifico che aveva
come obiettivo la conoscenza della natura e il suo studio approfondito. “
1-7-1: La Conquista del M. Bianco
Si ha notizia di alcune ascensioni effettuate
nei secoli precedenti: lo stesso Francesco
Petrarca salì il M. Ventoux nel 1336, e tal
Bonifacio Rotario d‟Asti il Rocciamelone
nel 1358; e inoltre chissà in quante altre
parti del mondo i rispettivi abitanti (ad
esempio gli Incas o monaci tibetani) non
abbiano raggiunto in tempi precedenti vette
vertiginose. Ma tali imprese non ebbero il
carattere di continuità che contraddistinse
l‟avventura che ebbe inizio nel 18° secolo e
che portò poi al fenomeno di massa tipico
dei nostri giorni.
Quindi siamo alla fine del „700 che
inizialmente per ragioni scientifiche e
naturalistiche e poi più marcatamente per
spirito di avventura e turismo (aristocrazia
inglese) si da l‟input ad una sistematica esplorazione delle montagne alpine.
Si concorda nel far coincidere l‟inizio del fenomeno dell‟alpinismo con la conquista del M.
Bianco il 7 Agosto 1786, in seguito all‟iniziativa dello scienziato e naturalista svizzero
Horace Bénédict de Saussure. La prima ascensione fu effettuata da Paccard e Balmat, ma
in seguito anche il de Saussure riuscì nell‟impresa.
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Successivamente vennero conquistate tutta una serie di altre vette, specie in
conseguenza della cosiddetta “calata degli inglesi”. Il fenomeno esplorativo e lo spirito di
conquista si estese a tutto l‟arco alpino, mentre cominciarono ad andare di moda le
ripetizioni, soprattutto sul M. Bianco.
Prima di tracciare un veloce profilo storico dell‟alpinismo, bisogna fare due importanti
considerazioni sulle sue fasi iniziali utili alla comprensione degli sviluppi futuri del
medesimo e alla sua evoluzione.
1- 7- 2: Le Guide
La prima riguarda il ruolo delle guide. Queste, all‟inizio dell‟avventura alpinistica, non
hanno un ruolo da protagonista nelle specifiche imprese, anche se in alcuni casi le
circostanze possono assegnare loro un compito importante. Esse vengono identificate
spesso nella figura dei valligiani che, in quanto esperti conoscitori dei luoghi per necessità
di vita, vengono assoldati dagli ideatori delle varie imprese per essere guidati appunto nel
territorio e anche per trasportare l‟attrezzatura e i rifornimenti necessari. È il caso della
stessa impresa del M. Bianco e dei nobili inglesi nelle loro numerose spedizioni sulle Alpi.
Come poi spesso accade le guide, consapevoli dell‟importanza dei loro servigi, tendono a
trasformare in “professione” questi medesimi servigi potenziando le loro competenze e
spesso diventando esse stesse”alpinisti” di grande valore!
1-7- 3: Differenziazione dell’Impostazione Tecnica
La seconda considerazione riguarda la diversità dell‟alpinismo occidentale da quello
orientale (naturalmente in riferimento all‟arco alpino). Tale diversità è determinata
sostanzialmente dai seguenti fattori: composizione rocciosa della montagna,
prevalentemente granitica nel versante occidentale e dolomitica in quello orientale;
conseguente diversa impostazione tecnica della scalata, di fatica e sofferenza la prima,
più atletica ed estetica la seconda; diversi i protagonisti, prevalentemente scienziati,
esploratori geografici, esponenti della nobiltà e del clero e aristocratici inglesi ad
occidente, prevalentemente studenti austriaci e tedeschi a oriente. Questi tre fattori,
interdipendenti fra di essi, hanno determinato, nel primo periodo dell‟alpinismo, il formarsi
di due diverse “scuole” o forse è meglio dire “stili” che solo in un secondo tempo si sono
compenetrati e completati.
Per meglio comprendere questa diversità può essere utile un breve approfondimento
sui suddetti fattori. La montagna occidentale (si parla naturalmente della catena alpina) è
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prevalentemente caratterizzata da imponenti massicci la cui attrattiva è principalmente la
vetta, la sua conquista prevede, di solito lunghi e faticosi avvicinamenti, resi ancor più
estenuanti da improvvisi cambiamenti delle condizioni meteorologiche. La montagna
orientale è sovente costituita da tutta una serie di vette minori che spesso assumono
l‟aspetto di imponenti guglie e picchi rocciosi di straordinaria compattezza, arditezza ed
eleganza nei loro profili ( si pensi alle tre cime del Lavaredo), circondate da altipiani e più
ampie e solari vallate; l‟avvicinamento ad esse è meno lungo e faticoso e comunque più
piacevole. L‟arrampicata sul granito, pur normalmente meno verticale, è difficile in quanto
esso offre una minore quantità e varietà di appigli, si attua sovente su camini, diedri e
fessure
3
. Di conseguenza meno godibile e meno estetica. Il calcare al contrario è più
lavorato, offre una grande varietà di appigli, l‟arrampicata sul calcare si esplica su
verticalità vertiginose, è fatta di equilibrio e assomiglia spesso a una danza! Una scalata
sulle montagne occidentali assumeva frequentemente i connotati di una spedizione di
diversi giorni che solo i ricchi potevano permettersi con notevole dispiegamento di mezzi e
assoldando guide. Sulle Alpi orientali invece il non indispensabile dispiegamento di mezzi
consentiva appunto anche ai meno abbienti di cimentarsi nelle varie imprese ed il
fenomeno delle guide assoldate era praticamente assente. Si può senz‟altro affermare,
anche in virtù degli sviluppi futuri, che l‟arrampicata sulle montagne dolomitiche ha
contribuito più che non quella sulle montagne occidentali a far evolvere l‟alpinismo in
termini di difficoltà superate.
Infine un‟ultima considerazione comune a tutto l‟alpinismo precedente la prima guerra
mondiale: era poco conosciuto l‟ausilio dell‟artificiale, gli strumenti di progressione erano,
oltre alle straordinarie doti fisiche e psichiche, la piccozza ed un‟ascia per intagliare nel
ghiaccio centinaia di gradini con un lavoro estenuante. Il concetto di “assicurazione” e lo
stesso uso della corda erano alquanto rudimentali, poca utilità avevano soprattutto per il
capo cordata la cui eventuale caduta equivaleva quasi sempre ad una tragedia!
1-7-4: I Periodi dell’Alpinismo
Emanuele Cassarà, nel suo “La morte del chiodo” , suddivide la storia dell‟alpinismo in
sette periodi.
1° periodo o della Curiosità : va dalle origini dell‟uomo fino all‟8 agosto 1786 data della
conquista del M. Bianco, da parte di Balmat e Paccard.
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I camini sono costituiti da due pareti vicine contrapposte o da una larga fessura che permette allo scalatore di salire
entrandovi dentro, il diedro (lett.: 2 facce) si ha quando la parete forma un angolo accentuato e lo scalatore procede a
cavallo dell’angolo, la fessura è una spaccatura della parete, più o meno lunga, che viene utilizzata come appiglio.
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2° periodo o della Esplorazione: va dalla conquista del Bianco fino alla vigilia della
conquista del Cervino.
3° periodo o della Vittoria: va dal 14 luglio 1865, data della conquista del Cervino, da
parte dell‟inglese Edward Whymper, al 1885, anno in cui tutte le principali vette Europee
furono conquistate.
4° periodo o della Conquista delle Pareti: va dal 1885 al 6 agosto 1938, giorno in cui
viene conquista la Punta Walker (lato Nord) alle Grandes Jorasses con l‟ausilio del chiodo
da fessura da parte di Riccardo Cassin.
5° periodo o della Competizione del Chiodo: va dal 1938 al 12 novembre 1958 data della
conquista della Vetta di El Capitan da parte di Harding, Marry e Withmore, con l‟ausilio di
circa675 chiodi di tutti i tipi.
6° periodo o della Confusione: va dal 1958 alla vigilia del 12 ottobre 1977.
7° periodo o della Ri-Conquista: va dal 12 ottobre 1977, data in cui Jim Ericson e Art
Higbee, scalarono la parete NW dell‟Half Dome senza l‟utilizzo di alcun chiodo ai fini della
progressione, ai giorni nostri.
Gian Piero Motti invece, nella già citata opera in due volumi: La storia dell’Alpinismo,
effettua una meno marcata suddivisione in periodi: un iniziale preludio scientifico, che
anche se fugace ebbe il merito di dare l‟avvio, una fase di esplorazione e scoperta, una
intensa fase romantica a cavallo dei due secoli, il periodo eroico dal primo al secondo
dopo-guerra, il periodo anti-eroico e di stagnazione degli anni sessanta e un finale sportivo
negli anni settanta, dove si arresta l‟analisi del Motti. Egli inoltre, nella sua descrizione,
pone l‟accento sulla diversità delle due scuole: quella del primo alpinismo occidentale e
quella del più prolifico alpinismo orientale o dolomitico. Pur essendosi formato
nell‟arrampicata piemontese il Motti non nasconde maggiori simpatie nei confronti della
“scuola dolomitica”, esaltando ripetutamente le maggiori capacità tecniche dei suoi più
numerosi rappresentanti rispetto a quelli dello stile occidentale; mettendone in evidenza la
maggiore apertura alle innovazioni tecniche e tecnologiche che le hanno permesso di
progredire soprattutto in termini di difficoltà superate, al contrario dello stile occidentale,
più rigidamente ancorato ai suoi canoni classici e ostile alle novità. Egli afferma inoltre che
era molto più facile per un forte rocciatore delle dolomiti ottenere dei buoni risultati anche
sulle montagne occidentali o sul ghiaccio che non il contrario! La dimostrazione di ciò la
dettero alpinisti del calibro di Gervasutti, Cassin e Castiglioni, che fra l‟altro ebbero il
merito di fare da tramite fra le due scuole. Inoltre sia il Motti, come ancor di più il Cassarà,
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mettono in evidenza la lunga diatriba fra i fautori dell‟artificiale e i suoi detrattori, fra i
puristi dell‟arrampicata libera assoluta e i promotori del chiodo (a proposito di ciò sono
interessanti le disquisizioni di natura freudiana sul chiodo visto come simbolo fallico,
profanatore o fecondatore della montagna) almeno nelle situazioni di difficoltà estrema;
cercando di mettersi in una posizione equidistante, ma comunque riconoscendo ai fautori
del chiodo di aver aperto la strada alle difficoltà più elevate!
1-7- 5: I Protagonisti più rappresentativi
Vediamo ora di tracciare un rapido e sintetico profilo dell‟ evoluzione dell‟alpinismo,
mettendo in evidenza le imprese e i personaggi più significativi, in particolare quelli che
possono, a nostro avviso, avere maggiore attinenza con la nascita dell‟arrampicata
sportiva.
Dopo la prima iniziale fase esplorativa e scientifica, l‟alpinismo cominciò a distaccarsi
sempre più da questa originaria motivazione per introdursi sempre più nel terreno
dell‟avventura e della ricerca dell‟impresa. La conquista del Cervino ad opera dell‟inglese
Edward Whymper, avvenuta il 14 Luglio 1865, è senz‟altro la più significativa di questa
nuova tendenza.
Se nelle Alpi occidentali i protagonisti indiscussi erano gli inglesi, in quelle orientali erano
soprattutto tedeschi e austriaci, e anche italiani a dare inizio alla conquista delle principali
vette. Nel 1802 un gruppo di scalatori dell‟Agordino, conquistarono la Marmolada. Del
primo periodo delle Dolomiti ricordiamo Paul Grohmann (uno dei soci fondatori del Club
Alpino Austriaco) e gli Innerkofler; poi i fratelli Zsigmondy (fra i primi esponenti
dell‟alpinismo senza guida; a questi, in particolare a Emil, pare si debba l‟introduzione del
chiodo) e Ludwig Purtsheller. Fra le imprese di questi ultimi, che fra l‟altro estesero la loro
azione anche sulle Alpi occidentali, la conquista della Piccola del Lavaredo e, da parte di
Purtsheller, qualcosa come 1700 ascensioni di cui ben 40 oltre i 4000! Arriviamo a Georg
Winkler, austriaco, fu uno dei primi esponenti dell‟arrampicata in solitaria, compì delle
imprese eccezionali per quel periodo, fra queste, nel 1887 la prima delle tre Torri del
Vaiolet (che ora porta il suo nome) infrangendo in libera assoluta il muro del IV grado;
purtroppo morì precipitando poco tempo dopo.
Torniamo alle Alpi occidentali con l‟inglese Albert Frederick Mummery, considerato uno
dei più grandi alpinisti di tutti i tempi. Fu uno dei primi “occidentali” senza guida, anche se
molte imprese le realizzò con Alexander Burgener, guida leggendaria, costituendo con
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questi una cordata
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eccezionale. Fra queste si ricordano diverse ascensioni al Cervino,
con l‟apertura di nuovi itinerari, l‟Aiguille Verte, i Grands Charmoz e il Grépon, tentativo al
Dente del Gigante… Mummery è uno dei primi ad estendere la sua azione oltre le Alpi: nel
1888 approda al Caucaso dove compie tutta una serie di ascensioni, infine nel1895 in
Himalaya al Nanga Parbat, uno dei più difficili ottomila, da dove non tornerà più.
Fra gli italiani comincia a formarsi dalla seconda metà dell‟ ottocento un consistente
nucleo di scalatori piemontesi provenienti soprattutto dalla borghesia torinese, fra cui
ricordiamo Luigi Vaccarone e Alessandro Martelli, iniziatori dell‟alpinismo invernale (Uia di
Mondrone 1874); ma soprattutto la dinastia dei Sella con il loro capostipite Quintino,
ministro delle finanze. Fu proprio Quintino Sella nel 1863 il promotore dell‟ istituzione del
Club Alpino Italiano, sulla scia dei già costituiti Inglese e Austriaco. Fra le loro imprese, la
prima salita al Dente del Gigante, che aveva respinto nella parte finale la cordata
Mummery-Burgener! Poi ancora il principe Luigi Amedeo di Savoia, il Duca degli Abruzzi,
che unì l‟attività alpinistica a quella esplorativa sconfinando in Asia, Africa, America: al suo
attivo oltre diverse cime nostrane, il monte S. Elia (Alaska), le principali cime del
Ruwenzori (Africa), infine nel 1909 sferra un attacco al K2 (Asia) che aprirà la strada alla
vittoriosa spedizione italiana diversi anni più tardi. Da non dimenticare Giuseppe e Giovan
Battista Gugliermina che, nel versante occidentale sono fra i principali rappresentanti dei
“senza guida”. Tornando sul versante orientale ricordiamo la fortissima guida cortinese
Antonio Dimai, e soprattutto due fuoriclasse dell‟arrampicata: Tita Piaz e Angelo Dibona.
Quest‟ ultimo seppe portare l‟arrampicata libera a livelli di ardimento fino ad allora
inimmaginabili, fino a sfiorare e superare il V grado (lato Nord Cima Una, 800 metri di
parete, Croz dell‟Altissimo sul Brenta, 1000 metri) facendo un uso limitatissimo
dell‟artificiale. Si narra che alla domanda su quanti chiodi avesse adoperato rispose:
“pressappoco quindici!” all‟ulteriore richiesta di precisazione se quei 15 chiodi fossero stati
utilizzati per tale determinata ascensione rispose: “oh no, in tutto!”. Fra le altre imprese,
inoltre, seppe estendere con brillanti risultati la sua azione anche sulla catena occidentale
(parete sud della Meije, teatro della tragedia di Emil Zsigmondy). E veniamo al leggendario
Piaz, personaggio controverso e caratteristico sotto diversi aspetti, il rivale ed equivalente
italiano di Dibona ( egli nacque austro-ungarico e tale fu considerato per tutto
l‟anteguerra). Pare si debba a Piaz l‟elaborazione di alcune manovre per la discesa in
corda doppia (alcuni le attribuiscono a Dulfer), la sua attività si svolse soprattutto nel
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Il concetto di cordata nacque ufficialmente nel 1830, in occasione di una salita al Breithorn nel gruppo del monte
Rosa. Ci si legava semplicemente con la corda attorno alla vita!