2
discapito dell’aspetto di promozione e valorizzazione dello stesso, giunto
solo in tempi assai recenti. La situazione rilevata viene qui considerata
come possibile causa - forse la principale - della difficoltà dell’approccio
all’arte contemporanea del museo italiano. Per la documentazione di
questo specifico argomento sono stati utilizzati, oltre a testi di legislazione
e conservazione di beni culturali, articoli di testate specialistiche (“Il
Giornale dell’Arte”) nonché atti di convegni di museologia, documenti
particolarmente preziosi nella redazione di tutto il primo capitolo.
Un altro argomento trattato con attenzione è la scarsa presenza, nella
tradizione italiana, del museo d’arte contemporanea. Attraverso alcuni
esempi e grazie all’utilizzo di atti di convegni, è stato possibile individuare
una sorta di percorso evolutivo che dagli ultimi decenni del XIX secolo
porta fino ai nostri giorni. Se da questo tracciato emerge una indiscutibile
mancanza di interesse da parte del committente pubblico nei confronti
dell’arte contemporanea, nell’ultimo sottoparagrafo si sottolinea come il
ruolo di promozione di questo settore da parte delle gallerie d’arte private
sia stato fondamentale per lo sviluppo del mercato e della fruizione
dell’arte contemporanea. In questo caso viene ripercorso per sommi capi,
attraverso la citazione delle gallerie di maggior importanza storica, il
Novecento italiano. Cataloghi ragionati di esposizioni, autobiografie ed
interventi personali di galleristi in occasione di convegni e tavole rotonde
sul rapporto tra arte contemporanea e museologia sono stati, per la
redazione di questo argomento, strumenti di lavoro indispensabili.
Il primo capitolo, che ho dettagliatamente presentato, vuole fornire tutte
quelle chiavi di lettura necessarie per meglio inserire nel contesto italiano
odierno la presenza della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per l’Arte,
che è il soggetto principale della tesi. Ricostruendo il percorso
dell’istituzione museo in Italia, dallo scorso secolo ad oggi, esaminandone
dettagliatamente gli aspetti che si sono ritenuti fondamentali del processo
stesso, si è voluto delineare lo sfondo sul quale si andrà dipingendo
minuziosamente il soggetto, nel corso del secondo e terzo capitolo.
Nel primo paragrafo del secondo capitolo si introduce l’argomento del
collezionismo contemporaneo da parte di privati: attraverso esempi di
importanti figure di collezionisti italiani dagli anni Cinquanta ad oggi si
arriva ad affrontare i casi in cui la collezione d’arte privata diventi il
nucleo costitutivo di un museo d’arte contemporanea. Ai numerosi esempi
stranieri citati si contrappone la penuria di casi italiani; la Fondazione
Sandretto Re Rebaudengo si inserisce in questa categoria, essendo nata in
conseguenza alla crescita della collezione d’arte contemporanea di Patrizia
Sandretto Re Rebaudengo. La collezione è costituita da alcuni nuclei
tematici che sono stati individuati ed approfonditi, grazie anche alle
numerose testimonianze della collezionista stessa, spesso riportate in
questa sede al fine di comprendere meglio la gestazione e la
trasformazione della collezione.
3
Un’intervista appositamente preparata da chi scrive è stata rivolta alla
Dott.ssa Sandretto con lo scopo di approfondire alcuni argomenti trattati
nel terzo paragrafo, specificamente inerenti la Fondazione: una serie di
minuti sottoparagrafi tratta infatti gli aspetti più squisitamente tecnici, a
partire dalla missione che la Fondazione si prefigge, passando alla
considerazione della sua forma di governo e struttura finanziaria – ed a
questo punto è utile confrontare le scelte fatte dalla Fondazione con la
trattazione dell’argomento svolta in 1.3.1 – organigramma, gestione ed
attività svolte fino ad oggi.
Il terzo ed ultimo capitolo è incentrato sulle due sedi della Fondazione: il
primo paragrafo tratta della sede presso lo storico Palazzo Re Rebaudengo
a Guarene d’Alba, in provincia di Cuneo, attiva fin dal 1997, il secondo
della sede torinese di recente apertura (settembre 2002). Nel caso di
Palazzo Re Rebaudengo è stato necessario affrontare il tema del restauro e
rifunzionalizzazione di edifici storici, trattato attraverso la consultazione di
testi di museografia strettamente tecnici e l’utilizzo della relazione sul
progetto edita a lavori conclusi. La trattazione dell’argomento risulta così
molto dettagliata, anche grazie alla riproduzione delle piante dell’edificio e
di fotografie di particolari tecnici.
La sede torinese è frutto di un intervento di rifunzionalizzazione di un
edificio industriale, la ex-fabbrica Fergat, trasformata dall’architetto
Claudio Silvestrin nell’enorme contenitore d’arte di matrice minimalista
che sorge ora all’interno del quartiere industriale San Paolo. Come nel caso
della conversione di architetture storiche, anche gli edifici industriali
convertiti in spazi espositivi costituiscono un’importante sezione di studi
all’interno della museografia più recente, che ho dunque tenuto in
considerazione nel contestualizzare il progetto della sede torinese su cui
verte il secondo paragrafo di questo terzo capitolo. Al suo interno la figura
dell’architetto Claudio Silvestrin viene approfondita soprattutto grazie ad
una intervista, rilasciata in occasione dell’inaugurazione del centro stesso,
e ad alcuni articoli di riviste d’arte e architettura. Nascendo come spazio
espositivo espressamente dedicato a mostre d’arte contemporanea, sul
modello delle tedesche Kunsthallen, le attività che ruotano attorno alle
esposizioni (servizi educativi, conferenze e rassegne, incontri con artisti,
ecc.) sono numerose: a quest’ultime è stato interamente dedicato un
sottoparagrafo. Anche per la sede torinese sono state riprodotte le piante
dell’edificio, così come le sezioni ed i prospetti che, accanto alle fotografie
ed alle schede tecniche del progetto, chiudono l’ultimo capitolo e la tesi
stessa.
4
Avendo dettagliatamente esposto il contenuto del lavoro, ne vorrei
riassumere gli intenti: ad una introduzione sul panorama museale
contemporaneo, operata attraverso distinti e mirati interventi volti a
sottolineare l’ampiezza di elementi che lo costituiscono e - nella storia più
recente - lo hanno costituito, segue la presentazione della Fondazione
Sandretto Re Rebaudengo per l’Arte. Di quest’ultima, vero e proprio
soggetto della tesi, vengono approfonditi tutti gli elementi costitutivi, con
particolare attenzione alla forma di governo e struttura finanziaria, da
collegarsi alla prima sezione della ricerca. Proprio per la specificità e la
riservatezza delle informazioni necessarie è stata necessaria la
collaborazione dello staff della Fondazione, nello specifico il settore
direzionale nella persona del Dott. Paolo Giordano, che ringrazio per la
disponibilità. Al termine della consultazione della ricerca dovrebbe aversi
una chiara conoscenza della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per
l’Arte, sia in termini tecnici che storico-critici.
5
1. IL MUSEO CONTEMPORANEO
1.1 Evoluzione della tipologia museale dal dopoguerra ad oggi
La seconda guerra mondiale diede alla museografia italiana l’occasione di
rinnovarsi abbandonando una tradizione ancora sostanzialmente
ottocentesca rimasta in auge durante il periodo fascista: nell’immediato
dopoguerra la condizione di azzeramento presentò infatti con urgenza la
necessità di intervenire sul patrimonio architettonico, pesantemente
danneggiato dalla guerra appena conclusasi. I palazzi storici sede di musei
furono tra i primi a necessitare di interventi di restauro: si avviò così un
radicale processo di rinnovamento museografico, che si intraprese anche in
quelle realtà danneggiate solo lievemente, in relazione ad una diffusa
volontà di cambiamento e di rinnovamento rispetto all’attardato panorama
culturale italiano
1
.
Nel periodo compreso tra il 1945 ed il 1965, in Italia vengono riaperti al
pubblico, previa ricostruzione e rifunzionalizzazione, circa trecento musei
in tutta Italia
2
.
In quello stesso periodo il museo divenne oggetto, per la prima volta con
un taglio scientifico ed internazionale (nel 1948 nacque l’International
Council of Museums), di un dibattito sulla funzione sociale del museo
stesso, ponendo così le basi per una operazione che portò non solo al
restauro degli edifici che avrebbero ospitato le collezioni, bensì anche ad
un riordinamento, di interesse museologico, delle collezioni stesse
3
.
Si cominciò inoltre a spostare l’attenzione sul ruolo sociale del museo, non
più concepito come mero contenitore delle opere d’arte o semplice
strumento di conservazione, ma anche come veicolo di conoscenza
accessibile e disponibile a tutti
4
. Questa riflessione sul museo portò al
riconoscimento delle sue funzioni civile ed educativa, in riferimento
soprattutto al pensiero deweiano. Tra i più autorevoli critici italiani G. C.
Argan fu uno dei principali sostenitori di una necessaria rottura con la
tradizione “collezionistica” e classificatoria tutta italiana, a favore di una
nuova forma di <<museo attivo>>
5
.
1
P. Morello, La museografia. Opere e modelli storiografici, in: F. dal Co (ed.), Storia
dell'architettura italiana. Il secondo Novecento, Milano, Electa, 1997, pp. 392-417.
2
Id. ibid., pp.399-400.
3
A. Lugli, Museologia. Le ragioni del museo, pp.75-99, in: A. Conti, G. Ercoli, M. Ann Holly,
A. Lugli (ed.), L'arte. (Critica e conservazione), Milano, Jaka Book, 1993.
4
A. Rossari, pp..28-30, in: A. Vaccaro Melucco (ed.), Museo dei musei. Cultura architettonica
e cultura museografica, "Hinterland", Anno V, n.21/22, marzo-giugno 1982.
5
E. Bonfanti, M. Porta, introduzione di P. Portoghesi, Città, museo e architettura. Il gruppo
BBPR e la cultura architettonica italiana 1932-1970, Firenze, Vallecchi, 1973, pp.150-151. Si
noti come all’articolo di G.C. Argan Il museo come scuola, apparso sulla rivista “Comunità”
nel 1949, venga ricondotto l’inizio della rifondazione di una teoria del museo.
6
Nel 1953 apparve sulla rivista “Comunità” un’intervento di Licisco
Magagnato, dal titolo: Il museo attivo. Anche qui ritroviamo, come nel già
citato articolo di Argan, una concezione del museo assolutamente
dinamica, nel momento in cui il museo:
<<organizza mostre, spettacoli cinematografici; conferenze e gite didattiche; pubblica
libri, documentari, diapositive e fotografie; cura restauri e promuove l’attività artistica;
ha una vasta rete di associati e sostenitori privati, e svolge un’attiva propaganda con la
mentalità di una vera e propria impresa economica e turistica>>
6
.
L’opera di Argan da una parte, e di Magagnato dall’altra, segnano l’arrivo
in Italia della tipologia del living museum e del pragmatismo americano,
riconducibile al pensiero, tra gli altri, di Dewey, Dorner, Fry e Read.
Questa tipologia museale venne però ben presto a scontrarsi con la reale
situazione italiana, divisa tra l’opinione di chi, appena usciti dalla guerra,
giudicava inopportuna l’eccessiva attenzione data alla problematica
museale a scapito dell’architettura civile, e l’incapacità di altri di ignorare
una tradizione che conservasse memoria degli allestimenti precedenti.
A livello più squisitamente museografico, un grande ostacolo al
rinnovamento dei musei italiani fu il loro essere ospitati in edifici storici e
monumentali, e dunque poco adatti ad essere modificabili – anche solo
parzialmente – nelle loro strutture. L’allestimento ne risultò altamente
condizionato, dovendo i progettisti attenersi alle singole situazioni,
predeterminate e costrittive
7
.
Gli architetti italiani furono così portati ad occuparsi prevalentemente del
rapporto – spesso difficilmente risolvibile – tra antico e moderno, tanto da
dare vita ad una vera e propria branca di ricerca architettonica
8
.
In questo senso dunque risultò complesso, e spesso impossibile, coniugare
la preesistente struttura con le nuove necessità funzionali, quali la
presenza, all’interno del museo, di spazi dedicati alla didattica e alla
ricerca (laboratori, sale didattiche, biblioteche..), nonché di una diversa
selezione e disposizione delle opere che potessero offrire al pubblico, non
più solamente d’élite, un percorso ordinato e comprensibile, che
coniugasse allo stesso tempo una nuova attenzione al rapporto tra
l’esposizione e il visitatore.
Su questo sfondo si colloca l’evoluzione della figura dell’architetto, che si
appropria ora dello spazio del museo come territorio di sperimentazione
progettuale: la collaborazione tra architetto e direttore del museo, in Italia,
6
F. dal Co (ed.), op. cit., p.408.
7
Ministero della Pubblica Istruzione, Direzione Generale delle antichità e Belle Arti, Musei e
Gallerie d’arte in Italia: 1943/53, Roma, La Libreria dello Stato, 1953, pp.5-6.
8
E. Bonfanti, M. Porta, op. cit., p.151.
7
si verifica all’approssimarsi degli anni Cinquanta, quando per questo ruolo
ci si rivolgerà sempre meno ad artisti e decoratori a favore degli architetti
9
.
Dopo i cosiddetti “musei della Ricostruzione” del periodo 1945-1948,
ordinamenti basati sulla semplicità e su costi contenuti, si aprì un periodo
di opere grandiose, a partire dal 1950; allontanatosi il momento più
difficile del dopoguerra si poterono infatti avviare operazioni più
complesse e costose, che avrebbero portato ai celebri allestimenti italiani di
quel periodo.
La museografia italiana degli anni Cinquanta ha avuto indubbiamente il
merito, con i propri allestimenti, di dare un’immagine completamente
nuova al museo, anche a rischio di incorrere in feroci critiche da parte di
direttori delle istituzioni stesse e di molti addetti ai lavori.
In questi allestimenti l’oggetto esposto concorre a creare l’ambiente
architettonico, occupando una posizione precisa che difficilmente potrebbe
essere mutata senza sconvolgere l’intero equilibrio compositivo: da qui
l’utilizzo del termine museo chiuso, in contrapposizione ad un modello
maggiormente elastico nei confronti di necessità di variazioni espositive
che spesso incorrono con il passare del tempo
10
.
L’autonomia dell’opera esposta, e la subordinazione del museo a quella, è
argomento che ritorna spesso nelle soluzioni progettuali degli anni
Cinquanta, pur all’interno di una sostanziale dicotomia di tipologie.
Ad un modello fondato su di una programmatica neutralità, ottenuta
attraverso un deciso rigore formale, ed all’utilizzo di razionalità e
freddezza, se ne contrappone un secondo basato, all’opposto,
sull’appassionato coinvolgimento dello spettatore e della sua
partecipazione, in cui ogni dettaglio può divenire spunto per una
interpretazione dell’allestimento.
Si può indicare come esemplificativo del primo modello il progetto per il
riordinamento della Galleria di Palazzo Bianco a Genova (F. Albini, 1950-
51), mentre appartengono alla seconda tipologia i progetti per il riordino
del Museo Correr a Venezia ad opera dell’architetto C. Scarpa (1953;
1957-60), e del Museo del Castello Sforzesco di Milano eseguito dallo
Studio BBPR (1954-56; 1962-63)
11
.
In ogni caso, gli architetti sembrano voler sottostare, nell’allestimento, alla
priorità dell’opera e della sua fruizione.
In Italia si è costruito raramente ex-novo in ambito museale: le ragioni
sono da ricercarsi in quell’esigenza di restauro di edifici storici a cui
9
F. dal Co (ed.), op. cit., p.405. Giudica necessaria una stretta collaborazione tra architetto e
storico dell’arte anche l’architetto F. Albini in un articolo del 1958 riportato in: L. Basso
Peressut (ed.), I luoghi del museo: tipo e forma fra tradizione e innovazione, Roma, Editori
riuniti, 1985, pp.105-108.
10
A. Rossari in: A. Vaccaro Melucco (ed.), op. cit., p.28.
11
F. dal Co (ed.), op. cit., pp. 395-397. Si veda anche R. Airoldi, Museo e musei: architetture
contemporanee, "Casabella", Anno XLIII, n.443, gennaio 1979, p.21.
8
abbiamo già accennato, ed è per questo che spesso i nuovi edifici si
riducono ad essere ampliamenti di strutture preesistenti
12
.
Tra i pochi esempi si possono citare i progetti dell’arch. I. Gardella per il
nuovo padiglione della Galleria d’arte moderna di Milano (1954), nato
dalla necessità di integrare la sede principale, la prestigiosa Villa Reale
(opera dell’architetto neoclassico Pollack); ed il progetto degli architetti C.
Bassi e G. Boschetti per la Galleria d’arte moderna di Torino (1954-59),
ugualmente necessario all’integrazione della sezione preesistente, da quel
momento dedicata all’esposizione permanente (arte dei secoli XIX e XX),
a cui si venne ad affiancare uno spazio per l’esposizione temporanea
13
.
La museografia italiana degli anni Cinquanta poté dirsi esaurita nel
momento in cui cessarono le condizioni culturali presenti sullo sfondo, che
ne resero possibile l’attuazione: ben presto a motivazioni reali andarono
sostituendosi meri esercizi di stile sulla scorta dei numerosi progetti
“d’autore” eseguiti.
Rimane, di quell’epoca così importante per la museografia (non solo
italiana), un’eredità fatta di intese profonde tra storici dell’arte e architetti,
di intese politiche prima che intellettuali; e per l’Italia, di competenza,
prestigio scientifico e sperimentazioni all’avanguardia
14
.
Nel 1965 troviamo concezioni analoghe a quelle sviluppate nel decennio
precedente, sia per quanto riguarda la museografia che la teoria
museologica, nell’opera di Michael Brawne Il museo oggi: Architettura -
Restauro - Ordinamento, dove il museo viene visto ancora come:
<<un mezzo di comunicazione […], la comunicazione visiva di opere di interesse
culturale e scientifico […]. Se il museo non assolve a questo compito, viene meno agli
scopi per i quali è stato creato. La pianta del museo, la sua architettura come pure
l’allestimento delle opere deve così almeno rendere possibile tale comunicazione, e
preferibilmente contribuire in modo attivo ad essa>>
15
.
12
G. C. Argan, L'architettura del museo, "Casabella Continuità", n.202, agosto-settembre 1954,
p.V.
13
M. Brawne, Il museo oggi: Architettura - Restauro - Ordinamento, Milano, Edizioni di
Comunità, 1965, pp. 36-37; pp. 51-52. Si veda anche R. Airoldi, op. cit., p.22; e L. Becherucci,
Lezioni di museologia: 1969-1980, Firenze, UIA Stampa, 1995, p.71. Per ulteriori esempi
progettuali del periodo cfr. anche L. Basso Peressut, F. Premoli, Architettura, tipo e contesto
nel progetto del museo, in: L. Basso Peressut (ed.), I luoghi del museo..., op. cit., p.26: l’autore
ricorda velocemente i seguenti progetti: il Castello Sforzesco di Milano (Studio BBPR); alcuni
tra i più validi allestimenti dell’arch. Scarpa: il Museo di Castelvecchio a Verona, il Museo
Correr a Venezia e Palazzo Abbatellis a Palermo; il lavoro dell’arch. Minissi per Villa Giulia a
Roma.
14
A. Huber, Il museo italiano, Milano, Lybra, 1997, p.165.
15
M. Brawne, op. cit., p.7.
9
A questa definizione di museo si ricollega, per l’autore, la necessità di
trasformare questa istituzione da <<sterile centro culturale>>
16
ad un luogo
centrale nella vita della comunità, anche in senso più strettamente
urbanistico, che sia in grado di offrire, oltre all’arte che esso ospita, i mezzi
e gli strumenti per comprenderla. Perdura dunque l’interesse nei confronti
della funzione sociale del museo, che, invece di affievolirsi con il passare
del tempo, si rafforzerà notevolmente, in relazione al cambiamento della
società in cui il museo stesso vive.
Durante gli anni Sessanta infatti, al museo viene richiesto un programma
più complesso in relazione ad un processo, ormai in atto, di
desacralizzazione e di avvicinamento dell’arte al pubblico; si deve
considerare a proposito anche l’aumento del flusso turistico e del pubblico
in generale, riflesso dell’avvento della cultura di massa tipica di questo
periodo.
Il nuovo pubblico chiede al museo di essere anche uno spazio culturale che
possa offrire un luogo per lo studio, per la ricerca sulle collezioni, per
l’apprendimento.
Si può dire che in questo periodo vi fosse una concezione del museo
fondata sul mito della democraticizzazione della cultura, forse meno
attenta all’aspetto conservativo; se è vero che questa impostazione può
dirsi tipica degli anni Sessanta, è altrettanto vero che nei primi anni
Settanta ci sarà ancora una forte tendenza ad orientarsi in questa
direzione
17
.
A livello museografico questo comportò la necessità di creare spazi per
l’esposizione temporanea e per la conservazione delle opere d’arte in
deposito, agevolandone però l’accesso alla consultazione ed allo studio.
L’attuazione di queste istanze comportò evidenti trasformazioni spaziali, a
cui va collegata la predominanza, tra i progetti di questo periodo, di
ampliamenti di musei precedenti da parte degli architetti, chiamati a
completare e ristrutturare edifici la cui tipologia spaziale non rispondeva
più alle necessità del pubblico
18
.
Proprio questa situazione portò alla separazione delle unità funzionali
architettoniche all’interno del museo: si avvertiva infatti l’impossibilità di
rendere accessibile il museo nella sua totalità, e si rese necessaria la
differenziazione tra una parte completamente pubblica – come la zona
espositiva – ed una sezione connotata maggiormente come specialistica,
come la biblioteca o le raccolte di minor importanza, ora allestite per la
consultazione da parte di studiosi e addetti ai lavori.
16
Id. ibid.
17
L. Fornari Scianchi in M. Garberi, A. Piva (ed.), Musei e opere. La scoperta del futuro,
Convegno internazionale di museologia e museografia, atti del convegno, Milano, 12-17
settembre 1988,Milano, Mazzotta, 1989, p.23.
18
J. M. Montaner, J. Oliveras, Musei dell'ultima generazione. Museums of the last generation,
Milano, Hoepli, 1986, pp.10-11.