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domanda e dell’offerta di lavoro e migliorando, così, le possibilità di accesso al mondo
del lavoro (Zucchetti,1996).
Le trasformazioni in atto – frutto dell’evoluzione del contesto sociale,
economico-competitivo, istituzionale e politico – tendono a produrre e a richiedere
una crescita di flessibilità che può essere interpretata come risposta alla crescita di
complessità della società contemporanea (Cesareo,1992; Fanelli,1997). Una società
che in questi ultimi decenni ha assistito al venir meno delle certezze tipiche della
società industriale: lo Stato non è più il garante del benessere economico
nell’accezione keynesiana di un mercato del lavoro unico ed omogeneo determinato
dall’andamento della domanda e dell’offerta; la struttura occupazionale risente in
modo sensibile dei processi innovativi segnalati nonché dell’incapacità dello Stato di
attuare una politica di equa distribuzione delle opportunità e di progressiva riduzione
delle disparità interne al mercato; e, infine, viene meno l’ideologia del lavoro unico
per tutta la vita (Tullini,1993; Accornero,1997). Si parla ormai di diversificazione del
lavoro e, in questo senso, occorre ripensare al lavoro e alla sua immagine legata
sempre più ad una logica di flessibilità, intesa come allargamento delle scelte
occupazionali disponibili e non come assenza di regole (Scartozzi,1997). Il lavoro
diventa “fluido” e assume significati diversi. Innanzitutto vi è una spinta che porta le
persone, soprattutto i giovani, a rifiutare posti di lavoro ritenuti non congrui con le
proprie aspettative o con quelle del proprio ambiente sociale e familiare. Vi è poi una
concezione del lavoro come realizzazione personale, ma anche come strumento per
raggiungere uno status, per fare carriera e per avere, naturalmente, un sostentamento
economico. A ciò si deve aggiungere che le trasformazioni in atto nei modi di
produrre e di organizzare il lavoro, supportate dall’incessante ricerca di maggiore
qualità ed elasticità, creano nuovi mestieri che richiedono preparazione e
professionalità più qualificate che innescano processi di flessibilizzazione e
segmentazione del mercato del lavoro. Crescono, di conseguenza, la differenziazione
professionale, la complessità delle prestazioni lavorative e si allarga l’area dei lavori
“atipici” (contratti a termine, job-sharing, part-time). Va segnalato, però, che in
questo clima di differenziazione si assiste altresì alla destrutturazione di tempi e di
processi nell’ambito delle imprese – che fanno venire meno gli assetti compatti e
uniformi – e alla trasformazione delle carriere e dei mestieri che rendono, da un lato,
estremamente improbabile che si possa restare tutta la vita nella medesima azienda e,
dall’altro, rendono abbastanza probabile che soltanto a pochi capiterà di svolgere lo
stesso lavoro o di mantenere il medesimo mestiere per tutta la vita (Accornero,1996).
6
L’obiettivo che ci prefiggiamo è quello di capire il perché di questo mutamento,
caratterizzato sempre più dalla necessità di flessibilità volta, da una parte, a favorire
l’incontro tra domanda e offerta e, dall’altra, a sconfiggere (o almeno a risolvere in
parte) il problema della disoccupazione (soprattutto giovanile e meridionale) e del
lavoro sommerso. In questo senso, le misure di flessibilizzazione del mercato del
lavoro sono una condizione necessaria – anche se non sufficiente – per attuare
programmi a sostegno della domanda e a sostegno delle azioni di job creation, anche
se la diffusione di fenomeni di occupazione irregolare o di disoccupazione tendono
irrimediabilmente a perpetuare i dualismi settoriali e territoriali esistenti.
L’uso di una strumentazione normativa più duttile e articolata ha consentito
non solo di progettare il “nuovo” ma anche di rimediare alle carenze connesse alla
struttura e al funzionamento del mercato che hanno favorito, in tempi recenti, una
diffusa spontaneità sociale volta ad eludere le rigidità normative (Tullini,1993). La
ricerca di flessibilità normativa si coniuga pertanto alla proposta di rafforzare i poteri
politico-gestionali degli organi istituzionali tanto è vero che gli strumenti disciplinati
dal “Pacchetto Treu” (apprendistato, contratti di formazione e lavoro, stages,
interventi per il Mezzogiorno, et.) si pongono come mezzo per combattere la
disoccupazione e per favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro
(Montecchi,1997; Amato,1998). E’ in questa prospettiva che si spiega il percorso
svolto in questa sede, con un’attenzione specifica al lavoro interinale come strumento
innovativo, introdotto in Italia dalla legge 196 del 1997 dopo un lungo iter legislativo,
ma già presente nel panorama europeo da diverso tempo. Si tratta di uno strumento
“utile al fine di ridurre in via diretta la precarietà dell’occupazione presente in
determinati segmenti della forza lavoro” (Liso,1992, p.114) consentendo una
maggiore elasticità in entrata e accrescendo così la propensione delle imprese ad
assumere. Infatti, se uno degli obiettivi primari da perseguire con il ricorso al lavoro
interinale è quello di ridurre e contenere gli effetti negativi delle crisi occupazionali,
la scelta di un rapporto a tempo indeterminato tra l’agenzia e il lavoratore, consente
alla prima di creare nuovi posti di lavoro.
In questa sede si è cercato, pertanto in primo luogo, di mettere in luce le
caratteristiche, le modalità di funzionamento e le potenzialità di questo lavoro
“atipico” che non rientra nella classica definizione del “posto fisso a vita”, e che vede
coinvolti nel rapporto di lavoro tre soggetti: agenzia fornitrice di lavoro temporaneo,
lavoratore temporaneo e impresa utilizzatrice. In secondo luogo si è cercato di
focalizzare l’attenzione proprio sui tre protagonisti della realtà interinale attraverso
7
un’indagine qualitativa che ha affiancato l’analisi della letteratura in materia. In
particolare tale indagine esplorativa si è resa possibile grazie alle testimonianze di
intervistati privilegiati quali i rappresentanti di alcune agenzie fornitrici di lavoro
interinale (Adecco, Temporary, Sinterim, Kelly Services e Italia Lavora), una ventina di
lavoratori che hanno e stanno sperimentando questa forma contrattuale e alcuni
esponenti delle associazioni imprenditoriali (ASSOLOMBARDA, APIMILANO, APA,
ALAI-CISL), a cui va il mio più sentito ringraziamento [*]. Da ultimo si è provveduto
ad analizzare questa forma di lavoro in cinque Paesi europei (Francia, Germania,
Spagna, Inghilterra, Olanda). La scelta non è stata casuale, ma voluta. Del resto –
come viene da più fonti sottolineato – il modello di lavoro interinale italiano si ispira a
quello franco-tedesco, adottato già in Spagna cinque anni fa. Il richiamo
all’Inghilterra e all’Olanda, invece, consente un confronto con una regolamentazione
liberale del fenomeno che ha fatto registrare un utilizzo sempre maggiore di questo
strumento come canale di accesso al mondo del lavoro. Inoltre, il caso olandese, è
emblematico perché offre una testimonianza di funzionalità a livello pubblico legata
all’efficacia e all’efficienza di una agenzia di fornitura gestita dallo Stato.
[*] Rivolgo un ringraziamento particolare a coloro i quali hanno fornito la propria
disponibilità, testimonianze, materiale e indicazioni utili al completamento e alla riuscita dell’indagine
qualitativa e senza la cui collaborazione ciò non sarebbe stato possibile. Ringrazio, in questa sede, la
dott.ssa Arghittu (responsabile della gestione di un pacchetto clienti presso Temporary), Alfredo Maselli
(responsabile delle attività internazionali di Kelly Services), il dott. Dardato (responsabile commerciale
di Sinterim), la dott.ssa Palumbo (responsabile della selezione del personale della Lombardia di Adecco),
Pier Mario Donadoni (amministratore delegato di Italia Lavora), il dott. Fioni (del centro studi di
ASSOLOMBARDA), il dott. Di Lucca (ASSOMONZA), il dott. Manini (responsabile delle relazioni
industriali di APIMILANO), Roberta Polledri (APIMILANO), Franco Rivolta (centro studi APA) e Diego
Averna (segretario dell’ALAI-CISL).
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CAPITOLO PRIMO:
LE TRASFORMAZIONI DEL LAVORO DALLA METÀ DEGLI ANNI
SETTANTA A OGGI
1. Il lavoro che cambia
Il lavoro sta cambiando in fretta: cambiano i modi di lavorare in rapporto alle
tecnologie sempre più avanzate, all’evoluzione di nuovi settori produttivi e alle nuove
esigenze del mercato che obbligano anche il lavoratore ad essere sempre più flessibile
e reattivo (Accornero,1997).
“Ci stiamo lasciando alle spalle un secolo che ha standardizzato e massificato il
lavoro fino a renderlo anonimo” (Accornero,1995, p.140). Sotto questo profilo il
Duemila sarà certo diverso dall’Ottocento, ma ancor più dal Novecento: si avrà
maggior bisogno dell’uomo, e soprattutto si avrà bisogno di un lavoratore “diverso”:
cooperatore, partecipe, consapevole e coinvolto.
“Vivere il lavoro in una società complessa e dinamica, caratterizzata da una
pluralità di modelli culturali, significa possedere la capacità di progettare un proprio
itinerario, tenendo conto di un insieme di variabili che vanno oltre il tradizionale
saper esercitare un determinato mestiere” (Marcantoni, 1984, p.17).
Siamo in una fase economica e sociale contrassegnata da sempre più veloci
processi di trasformazione che hanno avuto, hanno e avranno notevoli effetti sui
lavoratori sia in termini positivi che negativi. Gli ultimi decenni sono stati
caratterizzati da processi di destandardizzazione e riarticolazione del mercato del
lavoro, che hanno fatto emergere una fondamentale ambivalenza: da una parte, i
cambiamenti producono la valorizzazione della forza lavoro, mentre dall’altra, fanno
registrare lo scardinamento dei confini del mercato del lavoro, con il conseguente
sviluppo di flessibilizzazione e precarizzazione dell’attività lavorativa.
In sintesi i processi della “crisi-trasformazione” (Schmid,1985, p.120) in corso
mettono definitivamente “fuori uso” i vecchi modelli di riferimento culturali e politici
in rapporto alla composizione della classe lavoratrice e del suo peso, alle figure
professionali, ai modelli di lavoro e del suo rapporto con l’insieme del tempo vita.
9
L’analisi dei processi di disgregazione sociale in atto per effetto della “crisi-
trasformazione” richiede uno sforzo per combattere gli effetti perversi del processo in
atto, al fine di esaltarne quelli di progresso usando essi stessi come leva per più
avanzati assetti del lavoro e dell’occupazione. Significa la ricerca di nuovi modelli
culturali e sociali in rapporto al lavoro, la sua organizzazione, la sua flessibilità, la
rifondazione di nuovi modelli delle relazioni industriali e del rapporto forze sociali e
Stato (Schmid,1985).
1.1 Il senso del lavoro
A fronte delle trasformazioni in atto è importante anzitutto esplorare il
significato e l’importanza che assume il lavoro, in termini di strumentalità e di
realizzazione personale. Il lavoro, infatti, non è soltanto uno strumento economico
necessario per assicurarsi la sopravvivenza, ma può rappresentare un mezzo per
confermare e incrementare la propria posizione sociale e per mettere alla prova e
verificare le proprie attitudini creative e umane (Anolli,1984). In altri termini “il
lavoro è per l’uomo un mezzo necessario per realizzarsi” (Bartoli,1957, p.49).
Un’interpretazione della connotazione psicologica del bisogno di autorealizzazione è
data dal modello della scala dei bisogni di Maslow (1954), secondo il quale la
motivazione di un comportamento nasce dalla tendenza universale di soddisfare
determinati ordini di bisogni, collocati su cinque livelli lungo una scala gerarchica.
Maslow rileva, inoltre, che i bisogni di vario livello sono interagenti e che,
nelle diverse situazioni socio-culturali, hanno modalità diverse di espressione e di
soddisfazione. L’ordine di priorità, dal livello più semplice a quello più complesso, si
configura in: bisogni fisiologici, che riguardano la sopravvivenza immediata; bisogni
di sicurezza, ben soddisfatti nella società industriale; bisogni sociali e di appartenenza,
irrinunciabili anche nella vita di lavoro; bisogni di autonomia e di status sociale,
convergenti nell’esprimere il bisogno dell’individuo di definire la sua identità; bisogno
di autorealizzazione, che si manifesta nell’aspirazione ad un lavoro che arricchisca la
dimensione psicologica interiore dell’uomo, in termini post-materialistici
(Inglehart,1983). Infatti “un lavoro che permetta l’autoespressione di chi lo svolge
[…] costituisce un fine in sé, non soltanto un mezzo per assicurarsi la sopravvivenza”
(Blauner,1971, p.105).
10
“Siamo in presenza di una pluralizzazione dei significati del lavoro. Poiché le
persone, in una società complessa, possono attingere da diverse fonti per misurare la
soddisfazione delle loro aspettative, il lavoro non è altro che una tra esse, anche se per
molti è ancora collocato in una posizione gerarchicamente rilevante. Il lavoro può
servire a misurare dimensioni diverse: per alcuni il reddito, per altri il prestigio, per
altri la possibilità di autorealizzarsi, per altri infine l’opportunità di contatti sociali o la
condivisione di valori” (Romagnoli,1986, p.190). Oggi cercare di realizzarsi
attraverso il lavoro è importante, anche se in un momento difficile come questo in cui
la disoccupazione è crescente, sembra un “non senso” voler trovare a tutti i costi un
lavoro che soddisfi, rinunciando magari ad una generica e meno soddisfacente
occupazione.
Il lavoro costituisce una realtà semanticamente, cognitivamente e
affettivamente complessa e articolata della quale appaiono più profili differenziati
legati ad una metamorfosi che ha visto il passaggio dal lavoro come mestiere al lavoro
come vocazione o, riferendoci al contributo di Marx, come il passaggio del lavoro da
dovere e scopo a necessità e libertà. Il lavoro è pertanto un aspetto soggettivo,
“spontaneo e libero, principio di felicità” (P.J. Proudhon,1968) in termini di adesione
e di immedesimazione. Il lavoro è un modo di espressione oltre che un impegno
sociale. Esso rappresenta anche un punto fermo nell’esistenza individuale essendo
fonte di stabilità e sicurezza. “Il lavoro dà senso alla vita, ma a sua volta esso è
determinato dalla capacità di dare un significato a tutta la propria esistenza”
(Colasanto,1987, p.110).
Nei confronti del lavoro convivono oggi attese, motivazioni e bisogni
estremamente diversificati, ma ciò non significa che il lavoro abbia perso il suo
significato esistenziale, in quanto: è fondamentale per la costruzione della propria
identità (Accornero,1980a; Touraine,1996; Méda,1997) e della “certezza sociale”
nella crisi della società moderna; l’attività lavorativa costituisce un criterio di
differenziazione in un sistema sociale; il lavoro e la professione sono modelli di
comportamento sociale persuasivi progressivamente estesi a quasi tutti gli ambiti della
vita umana; sta assumendo sempre di più un ruolo cruciale accanto alla famiglia
quale spazio per la creazione di contatti significanti tenendo conto che proprio la
famiglia e il lavoro sono i due ambiti di vita in cui l’uomo moderno può valutare
direttamente, in prima persona, i propri successi o insuccessi. Inoltre, la principale
funzione del lavoro per l’uomo contemporaneo, è la stabilizzazione dell’ambiente e
della persona se è vera la tesi secondo cui è nella propria professione che la persona
11
riesce a costruire un sistema di azione relativamente più stabile che in altri luoghi
(Schelsky,1972).
1.2 Uno scenario in mutamento
In meno di vent’anni lo scenario sociale è radicalmente mutato: la
deindustrializzazione ha affievolito le lotte di classe che sono state sostituite dalla
sovrapposizione di fasce di popolazione differenziate dal livello del reddito e di
consumo. Il processo di riorganizzazione del capitalismo contemporaneo ha
progressivamente eroso i contesti socio organizzativi della industrializzazione,
aprendo la strada alle attuali società frammentate (Mingione,1995). I cambiamenti
nel lavoro e nelle relazioni tra quest’ultimo e le altre istituzioni sono oggi tra le
questioni più importanti e più difficili per la società contemporanea. Nell’ambito del
lavoro occorre discutere dei cambiamenti ai differenti livelli: quelli nella gestione e
nell’organizzazione del lavoro nell’impresa, quelli nella natura dei mestieri e nei livelli
della sicurezza dei lavoratori.
Le trasformazioni attuali sono pertanto caratterizzate dall’esistenza di grandi
“contrasti” come l’aumento delle disuguaglianze a livello nazionale ed internazionale,
il peggioramento della situazione per quanto riguarda la povertà, la disoccupazione,
la sotto occupazione e l’esclusione. I fattori scatenanti sono stati numerosi: dal
cambiamento del quadro delle relazioni industriali e del costo del lavoro nella prima
metà degli anni Settanta allo shock petrolifero con effetti soprattutto a partire dal
1975 fino al recupero di ritardi storici nell’industrializzazione da parte di alcune aree
del Paese, nelle quali esistevano però le condizioni dello sviluppo industriale (Quadrio
Curzio,1996).
Anche gli anni Ottanta si sono misurati con uno scenario economico, sociale e
produttivo in permanente cambiamento e trasformazione. Gli effetti combinati della
crisi e dei processi di trasformazione hanno prodotto in tutto l’Occidente sviluppato,
delle profonde modifiche del mercato del lavoro. Emergono nuove soggettività
collettive, mentre sono in crisi i vecchi modelli culturali e politici in rapporto al lavoro
stesso. Il tessuto economico è colpito ai livelli di occupazione senza precedenti; si
aggrava l’emarginazione sociale e lavorativa dei giovani, delle donne e degli anziani
in misura sempre più consistente.
12
Il prolungarsi della crisi economica del nostro Paese, che ha provocato un
rallentamento della crescita a causa della scarsa competitività globale, si intreccia con
la rivoluzione tecnologica legata alla nascita e allo sviluppo del terziario e convive una
profonda trasformazione del comportamento della domanda e dell’offerta di lavoro
(Schmid,1985).
A livello macro si pongono perciò questioni di economia globale e di
concorrenza internazionale, mentre a livello “meso” entrano in gioco i rapporti tra il
mondo del lavoro e della famiglia, il welfare state e le altre istituzioni di sostegno
sociale.
Diventa pertanto rilevante il modo in cui vengono trattati i fattori, i disturbi e
le disfunzioni che caratterizzano il mutamento. “In una data epoca, ogni società
include elementi che sono la risultanza di differenti sistemi sociali […] Ogni
situazione sociale è un retaggio di quelle precedenti, che le trasmettono non solo le
proprie culture, le proprie disposizioni, il proprio spirito, ma anche elementi della
propria struttura sociale e delle proprie posizioni di potere” (Schumpeter,1972,
p.121).
In questa sede possiamo analizzare quattro passaggi significativi che hanno
mostrato un valore strategico nel processo di trasformazione del nostro Paese dalla
metà degli anni Settanta fino ai nostri giorni: il passaggio dall’industria al terziario, il
passaggio dal welfare state alla welfare society, il passaggio dalle politiche passive del
lavoro a quelle attive e, infine, il passaggio dalla centralità della domanda alla
soggettività dell’offerta.
1.2.1 Dall’industria al terziario
Il passaggio dal lavoro industriale al lavoro terziario (cioè dei servizi, alle
imprese o finali per il consumo) costituisce un importante fenomeno avvenuto in un
contesto di forte innovazione tecnologica e di competizione globale che ha
attraversato l’Italia dalla metà degli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta ed è
paragonabile solo al passaggio avvenuto nel secondo dopoguerra dall’agricoltura
all’industria (Reyneri,1997). L’Italia diventa sempre più una “società di servizi”,
seguendo una tendenza comune a tutte le società sviluppate, che registrano un
crescente numero di occupati nei diversi servizi commerciali, domestici, turistici, alle
imprese. Proprio questa considerazione consente piuttosto di parlare di una
13
progressiva terziarizzazione del sistema produttivo, che appare sempre più
massicciamente caratterizzato dalla diffusione delle attività di servizio (Natoli,1986).
Gli effetti sulla struttura occupazionale da rilevare sono:
- la diminuzione degli addetti in agricoltura e anche nel settore dell’industria
(l’agricoltura subisce una forte flessione che fa registrare un calo nell’occupazione
espressa, in termini percentuali, dal passaggio dal 20,1% degli anni Settanta al
7,1% degli anni Novanta, mentre nell’industria, sempre nello stesso arco
temporale, la flessione è più lieve e l’occupazione passa dal 39,5% al 32,2%);
- l’espansione dell’occupazione terziaria (dal 40,4% del 1971 al 60,8% del 1996),
che appare ancora più evidente rispetto alle perdite subite dagli altri due settori, in
quanto si caratterizza come l’unico settore in grado di assorbire la manodopera,
anche se ciò non compensa l’aumento crescente dell’offerta di lavoro e appare
fortemente squilibrato non solo fra Nord e Sud, ma anche rispetto agli altri Paesi
europei (ISTAT,1997).
L’effetto più macroscopico è la tendenza alla progressiva riduzione della figura
dell’operaio tradizionale e dell’impiegato d’ordine e la crescita, invece, di tecnici,
quadri e dirigenti.
Lo sviluppo del terziario e la diffusione sul territorio di occasioni di lavoro, diverse
rispetto al lavoro agricolo e industriale tradizionale hanno certamente favorito
l’esplosione dell’offerta di lavoro femminile verificatasi nell’ultimo decennio su tutto il
territorio nazionale, trascinando così verso l’alto i tassi di attività che avevano
precedentemente segnato una forte flessione.
All’inizio degli anni Ottanta l’economia e l’occupazione dei paesi occidentali
riprendono la corsa trainati dal settore terziario che richiede ed assorbe persone con
elevati livelli di scolarità. Da questo momento tendono ad essere penalizzati coloro che
non sono qualificati. Ad essi si aggiungono i lavoratori più o meno anziani, espulsi
dalle industrie a seguito dei processi di ristrutturazione e di innovazione tecnologica e
che non hanno un livello di qualificazione sufficiente.
A partire dalla seconda metà degli anni Ottanta, la riflessione sui temi dello
sviluppo, dell’occupazione e della formazione si declina lungo due direttrici: nel
settore industriale a fronte del modificarsi dei processi produttivi a seguito
dell’innovazione tecnologica la questione principale diventa la ricerca della
produttività da ottenersi attraverso la flessibilità, la specializzazione produttiva, la
produzione flessibile, la qualità totale e la professionalità dei lavoratori. Per quanto
riguarda l’occupazione nel terziario, l’accento è posto sulle nuove professioni, ovvero
14
sulle caratteristiche della professionalità e delle competenze che riguardano un
numero elevato di professioni che, in precedenza, non esistevano, oppure la
trasformazione che le attività tradizionali subiscono e che devono essere aggiornate,
specializzate ed adattate. In questo ambito si afferma una nuova figura di operatore,
quella del professional, a metà tra il libero professionista e quella del tecnico che ha
un elevato grado di professionalità – in termini di conoscenze (o know how) – e che
utilizza uno specifico modo di operare all’interno delle organizzazioni – in termini di
coordinamento delle risorse tecnico-professionali per la risoluzione di situazioni
tecniche complesse – (Accornero,1997; Cortellazzi, Piccoli,1997; Maran,
Crivellaro,1997). Questi cambiamenti nel e del lavoro si riflettono in un profondo
mutamento degli stessi valori alla base della società. “I “valori” industriali di
standardizzazione, efficienza e produttività sono via via soppiantati dai valori di
creatività, soggettività, estetica, emotività e qualità della vita. I bisogni
postmaterialistici che hanno angustiato l’esistenza dei lavoratori industriali, sono
sostituiti da una serie di bisogni deboli di ordine culturale e voluttuario, propri di una
società che ha raggiunto il benessere e che pretende di goderne” (De Masi,1999,
p.182). Questo processo di trasformazione, legato a mutamenti strutturali, economici
e tecnologici – che hanno inciso sul mercato del lavoro e sulle nuove esigenze di
flessibilità – risente dell’influenza di fattori sociali, economici e politici che hanno
caratterizzato lo sviluppo tecnologico e il passaggio dalla società industriale alla
società postindustriale, che ci apprestiamo ad analizzare.
1. Gli anni Settanta possono essere indicati come un periodo di elevata
“turbolenza” e “incertezza” sia per i sommovimenti di origine sociale sia per la crisi
delle precedenti dinamiche di sviluppo economico, il cui clima era caratterizzato da
una cultura incentrata ancora sul lavoro industriale, che subisce un rallentamento
verso la fine del decennio. L’avvento della società postindustriale è stata accompagnata
dalla cosiddetta “rivoluzione informatica” (cfr. Gallino,1983), con la correlata
necessità di innovazione e riadattamento dell’intero apparato tecnologico produttivo.
Siamo di fronte a un processo di dematerializzazione delle produzioni con
rilevanza crescente della qualità, dei servizi e dell’espansione di beni “tecnologici” (es.
computer, apparecchi per telecomunicazioni).
La diffusione, l’applicazione e la padronanza delle tecnologie avanzate sono
condizioni necessarie per il successo economico delle società tecnologicamente
progredite. Ciò non richiede solo una manodopera capace di applicare tecniche
15
d’avanguardia, ma anche consumatori capaci di utilizzarle. La tecnologia rappresenta
una componente del complesso intreccio tra forze produttive, rapporti di produzione,
orientamenti culturali e sistema istituzionale. Per questo motivo gli effetti delle
innovazioni tecnologiche non sono valutabili dalla collettività esclusivamente con il
metro economico, bensì coinvolgono criteri di giudizio etici, politici e sociali.
Le innovazioni tecnologiche hanno indubbiamente molteplici ricadute dirette
sul sistema economico: modificano la destinazione degli investimenti finanziari,
aumentano per lo più la produttività quantitativa e qualitativa delle organizzazioni
(manifatturiere, commerciali, amministrative e di servizio) e influiscono sul
fabbisogno delle vecchie e delle nuove professionalità, sulla dinamica del mercato del
lavoro e sulle relazioni sindacali (Rovati,1991; Bonazzi,1992). Nel corso di questo
processo si verifica una redistribuzione dei costi e dei benefici tra i diversi attori socio-
economici, ed è quindi naturale che le valutazioni sulle innovazioni tecnologiche
siano influenzate dalle opportunità che ciascuno sperimenta. Esse suscitano tra la
popolazione reazioni ambivalenti, oscillanti tra il pessimismo e l’ottimismo, in quanto
i cambiamenti tecnologici se da un lato fanno risparmiare lavoro, dall’altro creano
nuovi beni che diminuiscono l’impiego di lavoro. Su queste opposte visioni del
presente e del futuro incidono solo in piccola parte le conoscenze effettive, mentre
sono più determinanti le sensazioni di poter trarre vantaggi (o svantaggi) per sé e per
la collettività, non solo in termini di benessere economico, ma anche in termini di
sicurezza, controllo e dominio. Chi ricava immediati benefici dalle innovazioni
tecnologiche è portato ad avere visioni alquanto diverse da chi ricava immediati
svantaggi o maggiore incertezza sugli esiti finali (Rovati,1991).
Secondo alcuni studiosi il risparmio di lavoro è sinonimo di disoccupazione di
massa anche se non è sempre vero che l’introduzione di ogni innovazione tecnologica
distrugga posti di lavoro. Malgrado le resistenze di natura professionale e
organizzativa che si frappongono all’introduzione di processi automatizzati, non vi è
dubbio che lo sviluppo tecnologico abbia sostanzialmente migliorato le condizioni di
lavoro con particolare riferimento al contenuto di lavoro, all’ambiente di lavoro, alla
sicurezza e prevenzione infortuni e all’impegno intellettuale richiesto.
I mutamenti e i problemi finora visionati segnalano l’interdipendenza che
esiste tra l’introduzione di nuove tecnologie e il complesso dei fattori economici,
organizzativi, professionali, motivazionali, relazionali e sindacali che qualificano
l’ambiente di lavoro come un vero e proprio sistema sociale. Siamo in presenza di
processi multivariati di adattamento come risulta chiaro dal peso dei vincoli (e delle
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opportunità) di carattere culturale (istruzione, professionalità, propensione al
cambiamento) e istituzionale (leggi, regolamenti, contratti) sul decollo di ogni tipo di
innovazione, comprese quelle tecnologiche.
L’impiego massiccio delle tecnologie della microelettronica e dell’informatica
ha assunto, sempre più, i connotati di una vera e propria rivoluzione tecnologica e
industriale in quanto le nuove tecnologie elettroniche ed informatiche non solo
risparmiano lavoro, ma modificano le esigenze e i contenuti del processo lavorativo
che, a differenza di quello tayloristico tradizionale, è diventato la flessibilità.
La rilevanza del progresso tecnico per la problematica occupazionale ha
assunto un ruolo fondamentale nel mutamento della domanda e dell’offerta di lavoro
poiché, sotto la spinta dell’evoluzione tecnologica, è sempre più sentita l’esigenza di
un adeguamento delle condizioni professionali dell’offerta ad una domanda sempre
più qualificata.
2. In chiave sociologica il passaggio dalla società industriale alla società
postindustriale può essere letto, alla luce dei fattori sociali, come il passaggio da una
società industriale, materialista o moderna, caratterizzata da una tensione verso un
progresso collettivo connesso con quello economico, ad una società postindustriale,
post-materialista o postmoderna (Lyotard,1983), che mette in evidenza il processo di
terziarizzazione come una delle sue caratteristiche insieme all’innovazione
tecnologica, al ruolo della conoscenza come mezzo di produzione, all’espansione dei
servizi e all’uso dell’informatica (Touraine,1970; Bell,1973; Bovone,1990; Paci,1992),
e una struttura occupazionale non più centrata sul settore operaio bensì su quello
impiegatizio. Il processo di terziarizzazione segnala un aumento “del peso” delle
attività di servizio rispetto a quello delle attività industriali, ma è un processo che va al
di là della crescita nel settore terziario. In altre parole non si limita alla constatazione
della perdita di centralità dell’industria, ma individua le caratteristiche proprie del
processo di trasformazione indicando nel termine “postindustriale” quello più idoneo
a cogliere tale mutamento. Con l’avvento della società postindustriale è stata vinta –
secondo De Masi – la lotta per la liberazione dalla fatica: le macchine sostituiscono la
forza muscolare e, come la società industriale è riuscita a fare a meno dei contadini
senza per questo rinunciare ai prodotti della terra, così ora è possibile disporre dei
prodotti industriali sostituendo operai e impianti con robot e computer. Le
conseguenze sono due: da un lato, proprio perché la produzione è sempre meno
dipendente dalla manodopera, si assiste al fenomeno dello “sviluppo senza lavoro”,
17
mentre dall’altro, i lavori di cui rimane la necessità sono quelli “creativi” e così la
“stragrande maggioranza dei lavoratori è composta da impiegati, da professional,
manager, dirigenti, knowledge workers” (De Masi,1999, p.33).
Tra i sostenitori del passaggio alla società postindustriale, Bell (al quale va
attribuita, se non la paternità, perlomeno la divulgazione del neologismo) specifica il
nuovo assetto sociale in termini di passaggio da un’economia fondata sulla produzione
di beni ad una economia di servizi; di preminenza della classe professionale e tecnica
che qualifica la “knowledge society” (società fondata sull’uso dell’informazione e della
conoscenza) e di creazione di una nuova “tecnologia intellettuale”. Egli descrive in
senso stretto una società che ha raggiunto e superato il culmine
dell’industrializzazione, iniziando un nuovo ciclo di sviluppo sociale che vede l’attività
industriale relegata definitivamente in una posizione secondaria a vantaggio del
settore terziario, del quale Bell individua i servizi tipicamente post-industriali: sanità,
istruzione, ricerca, pubblica amministrazione. Quindi agli elementi della
standardizzazione, della specializzazione, dell’economia di scala, dell’accentramento
del potere, dell’efficienza, della produttività, altri se ne vanno sostituendo. Tra questi
spiccano la progressiva intellettualizzazione dell’attività, l’affidabilità e l’etica
necessarie nel mondo dei servizi e la qualità della vita come premessa irrinunciabile
dell’esistenza postindustriale e come derivato della possibilità di realizzare i nuovi
valori all’interno e all’esterno dell’azienda (De Masi,1996). Nel passaggio dalla società
industriale a quella postindustriale si può scorgere un’inversione della tendenza
storica alla perdita di qualificazione dei ruoli lavorativi comprovata dall’emergenza,
insieme alla nozione di risorse umane, dell’idea dell’organizzazione come contesto di
apprendimento (Parricchi,1998).
Ma in realtà si può davvero parlare di società postindustriale o sarebbe meglio
definirla neo industriale? E’ chiaro che un’era definibile “post” segue per definizione
quella presente, ma come sostiene Accornero “non è vero che ci stiamo avviando verso
l’epoca del dopo industria. Questo scorcio di secolo testimonia il persistente bisogno
non soltanto di lavoro, ma proprio di industria. […] L’industria, nel bene e nel male,
rimane il motore del mondo” (Accornero,1995, pp.40,116). Touraine (1970)
definisce postindustriale una società dove l’industria continua a svolgere un ruolo
centrale e, sebbene la rivoluzione informatica abbia mutato molte delle forme
tradizionali del lavoro, l’economia è tuttora fortemente condizionata dalle vicende
dell’industria. “Un po’ più di informatica, un po’ più d’impiego terziario, un po’ più di
qualificazione […]. Tutto questo è industrializzazione, non è altro che una sua
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ulteriore tappa” (Touraine,1986), se si tiene conto – tra l’altro – che alcune attività
industriali sono state decentrate e risultano ora classificate nel terziario. A tale
proposito è significativo il Grafico 1 relativo agli occupati per settore produttivo, per
spiegare più chiaramente con qualche cifra, quanto finora detto.
Grafico 1: Occupati per settore produttivo
Indagine sulle forze lavoro, anni 1975-1998, valori %
Fonte: ISTAT, 1998.
I segnali del cambiamento avvenuto – e tuttora in corso – non mancano. Le
dinamiche occupazionali riscontrabili in tutte le economie avanzate presentano i
connotati più vistosi di una trasformazione strutturale che segue un andamento
comune rappresentato dal continuo aumento del peso dell’occupazione nel settore
terziario (Natoli,1986). Ciò è evidente esaminando i mutamenti avvenuti in Italia tra il
1975 e il 1998 nella composizione settoriale dell’occupazione. Appare subito
evidente, accanto al crollo dell’agricoltura e al forte ridimensionamento dell’industria,
la progressiva espansione dei servizi. Infatti, la struttura dell’occupazione a prevalente
composizione terziaria (61,4%), la netta riduzione dell’occupazione industriale (dal
38,9% al 32%), l’assestamento della componente agricola (al 6,6%) e l’elevato indice
di terziarizzazione, possono essere letti come i segnali che formano il quadro
sintomatico del mutamento e, cioè, dell’avvento postindustriale nel nostro Paese.