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Ernesto De Martino, Il concetto di religione, in «La Nuova Italia», 20 novembre 1933.
N ot a int rodut t iva
A cominciamento della sua attività pubblicistica, nel 1933, un anno dopo la laurea, un
giovane De Martino aveva fin da subito sposato il programma idealistico di risolvere il mito nel
concetto, e quindi sostituire alla fede religiosa la fede nel pensiero:
Il mito è travestimento ed abbozzo di concetto: onde ogni filosofia si sente avversa al mito e nata
dal mito, nemica e figlia delle religioni. Il mito non è allegoria, perché non simboleggia una verità,
ma pone senz’altro come verità una rappresentazione; e non è arte, perché «si trova in esso
un’affermazione o giudizio logico, che non si trova nell’arte». Per questa affermazione che gli è
propria il mito è criticabile dalla filosofia; e la filosofia deve criticarlo è risolverlo in sé, perché ciò
che pretende di essere vero e proprio pensiero deve essere effettivamente pensato e quindi
dissolto come mito. Per difendersi da questa dissoluzione il mitologismo si converte nel filosofismo,
il mito nel dogma, e sorge la teologia: la quale poi compie il passaggio inverso e si atteggia
ordinariamente a mitologia della natura. Se il mito è eterno come il pensiero, la religione dei miti è
una forma storica transeunte: può essere superato come conato filosofico, così come è stata
superata la filosofia platonica o la scolastica; e può morire altresì come complesso di istituti, così
come oggi non sono più la «polis» e i comuni e le signorie. Può morire, surrogata dalla religione
della libertà e dalla fede che dal pensiero nasce e che nel pensiero unicamente riposa.
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È nostra convinzione che l’originale storicismo in materia religiosa sviluppato e applicato con
sistematica efficacia da De Martino sia riuscito davvero a realizzare quanto da lui stesso esposto,
e, in modo unico e peculiare fra tutti i metodi di studio delle religioni sorti tra Otto e Novecento,
senza fare ricorso ad alcun riduzionismo atto a spiegare le religioni per ciò che non sono, cioè
togliendo loro la dignità di tecniche dello spirito, nate dalla vita dello spirito e al servizio del suo
interno sviluppo storico.
Il nostro lavoro intende dimostrare questa riuscita concentrandosi sul problema
dell’apocalittica nella riflessione dell’ultimo De Martino, attraversando le apocalissi mitico-rituali,
l’apocalisse cristiana e quella marxiana per soffermarsi con particolare attenzione sul concetto-
chiave dell’ et hos del trascendimento della vita nel valore intersoggettivo. Ciò consentirà di
approfondire nei suoi esiti estremi il metodo storicistico che ne costituisce l’applicazione riguardo
alle religioni come complesse tecniche di salvaguardia del medesimo et hos.
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Ernesto De Martino, La fine del mondo, Einaudi, Torino, 1977 e 2002, brano 137, pag. 264.
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Ivi, brano 155, pag. 279.
Il presente lavoro nasce inoltre nella ricorrenza del 50° anniversario della morte di Ernesto
De Martino, avvenuta a Roma nel 1965, ed è rivolto alla sua opera incompiuta: La fine del mondo.
Nella medesima si legge a chiare lettere la concezione che egli aveva, e di cui fu sempre testimone,
della morte e dell’opera. Della morte ebbe a dire:
la morte dell’individuo è il momento strettamente privato dell’individuo stesso, il più clamoroso
segno della egoità: è l’incomunicabile per eccellenza, tanto che la stessa parola “morte” è l’unico
suono necessario che tuttavia non ha messaggio da trasmettere, l’unico dire che raccoglie tutta la
possibile insignificanza del dicibile umano.
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Dell’opera, in relazione alla morte, affermava:
l’uomo è nella storia. [...] per storia lo storicismo intende l’uomo in quanto produttore di valori
culturali, cioè in atto di trascendere il qui e ora del divenire e di sollevarsi alle permanenze
idealmente immortali dell’opera umana qualificata secondo determinati valori. [...] E se anche
nell’ordine dell’ordine del tempo misurabile e della spazialità visibile scomparissero l’operatore e
l’umanità tutta un istante dopo che l’opera è stata compiuta, nulla può questa immane catastrofe
materiale contro la permanenza che l’opera secondo valore fondò sulla roccia: l’attualità
dell’operare ha sperimentato l’interiormente eterno, ha trasceso il qui e l’ora, e senza evadere dal
mondo ha reso immortale il mondo al di là di ogni possibile catastrofe cosmica.
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Se la morte di De Martino pertanto pose termine alla sua esistenza fisica, la sua
di opera, come quella di tutti noi, era e rimane eterna, interiormente ma di conseguenza anche
esteriormente. In quanto tale essa trascende il mero passare delle persone e degli eventi dal qui e
ora del contingente nella storia che non passa e che la storiografia è chiamata a registrare, a
comprendere e a spiegare, affinché possa essere fertile e generare nuova storia, per nuovi uomini.
Ciò trova peculiare testimonianza proprio nell’opera postuma, pubblicata nel 1977 a cura
della sua allieva Clara Gallini, a partire da un corpus di materiali isolati da Angelo Brelich. Tale
raccolta di appunti, laboratorio da cui De Martino avrebbe dovuto trarre la sua opera più
importante, era e rimane un cantiere anche per noi, da cui ripartire per costruire, con i materiali e
gli abbozzi lasciatici da lui, un nostro contributo alla sua ricerca, che pertanto diviene la nostra
ricerca, parte integrante della nostra storia e della storia universale che non smette di essere
alimentata da ciò che egli ha operato, e che ci ha tramandato.
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Ernesto de Martino , Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, Torino, 1973, 1997
e 2007, pag. 70.
Ca pit olo 1 – L e a poca lis s i mit ico-rit ua li
1 .1 – Pres enza e pres entificazione
L’itinerario storico-filosofico di De Martino trova il suo punto di partenza nel concetto di
presenza, il quale, come gli altri concetti paradigmatici di De Martino, vede la sua genealogia nel
campo etnografico e in modo specifico in quel lavoro sul primitivo – attuato con i propri originali
strumenti storiografici a partire dai resoconti di altri etnografi recepiti sul campo – che mise capo a
I l mondo magico, pubblicato nel ’48 ma frutto di sei anni di lavoro, la sua opera seconda, dopo il
testo metodologico Nat uralismo e st oricismo nell’et nologia del 1941, ma quella che inaugura la
ricerca demartiniana di storicizzare l’indicibile, o almeno ciò che lo storicismo di matrice idealista
riteneva fosse il momento negativo dello spirito.
La fine del mondo è a quest’opera direttamente collegata in quanto rappresenta come un
completamento, o meglio come un tentativo di completamento, del percorso di ricerca
demartiniano, che partì dalla notte antecedente l’alba della civiltà, quella del mondo primitivo, per
terminare sempre nella notte che segue il tramonto, quella successiva alla fine di una civiltà o della
civiltà t out court, come egli reputava sarebbe accaduto alla civiltà occidentale nel XX secolo.
Queste due notti egli vagliò con la lampada della ragione storica.
Punto di partenza imprescindibile è la «crisi della presenza», concetto centrale del M ondo
magico, dove De Martino studia la
singolare condizione psichica in cui molto spesso cadono gli indigeni, quasi vi fossero naturalmente
disposti. Questa condizione, chiamata lat ah dai Malesi, olon dai Tungusi, irkunii dagli Yugakiri,
amurak dagli Yakuti, menkeit i dai Koriaki, imu dagli Ainu è stata osservata e descritta da parecchi
autori. Nello stato latah, così come è descritto da Sir Hugh Clifford, l’indigeno perde per periodi più
o meno lunghi, e in grado variabile, l’unità della propria persona e l’autonomia dell’io, e quindi il
controllo dei suoi atti. In questa condizione, che subentra in occasione di una emozione, o anche
soltanto di qualche cosa che sorprende, il soggetto è esposto a tutte le suggestioni possibili.
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Come si vede da questa iniziale citazione i concetti demartiniani sono il prodotto di
esperienze pratiche, reali, riscontrabili e sperimentabili. Principio a cui sempre si attenne fu infatti
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Gino Satta, Le fonti etnografiche del Mondo magico, in appendice a E. de Martino, Il mondo magico, op. cit., pag.
291.
di filosofare solo ed esclusivamente sullo storico concreto. Il modo di procedere dell’etnologo e
dell’antropologo in questo già differisce da quello del filosofo, le cui chiavi concettuali sono in
linea di principio soluzioni autonome e gestibili compiutamente solo da lui stesso. A riguardo
notevole è proprio il cambiamento terminologico, che riflette parimenti un cambiamento di
significato, che nella stesura del M ondo magico De Martino attraversa
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. Da «labilità della persona
magica» o «sintesi psicologica» si passa a «coscienza magica» e infine a «presenza», secondo un
raffinamento del rapporto soggetto-oggetto che da una presupposta separazione, che risente
ancora della concezione moderna, arriva ad un termine unico che tale separazione estingue
affidandosi alla semantica dell’atto, dell’azione, della prassi. Un raggiungimento che De Martino
poi mantenne nel resto della sua opera e applicò non solo al mondo magico, ma all’intera sua
analisi dell’umano.
Questa la genesi del concetto. Ma cos’è la presenza? O meglio, che genere di presenza è? I l
mondo magico non ne fornisce compiute e astratte definizioni, perché De Martino è troppo
impegnato a descriverne la formazione mediante la battaglia per essa che vi si combatte, e che alla
fine vi si vince. Ecco la sua sintesi, al termine del secondo capitolo, della storia magica della
presenza:
La radice di tale mondo storico affonda in una esperienza fondamentale: la presenza in rischio, che
insorge a difesa della insidia che la travaglia. La presenza non resiste allo sforzo di esserci: fugge, si
scarica, è sottoposta a influenze maligne, è rubata, è mangiata, e simili. Fugge e si scarica per le
aperture del corpo, è rubata nelle peregrinazioni solitarie, è attratta dal cadavere, cade in
soggezione per l’apparizione di qualche evento nuovo, emozionante, che rompe l’abitudine, che
attrae comunque l’attenzione. In date circostanze, la perdita di orizzonte della presenza si spinge
sino al punto che si diventa una eco del mondo, ovvero un posseduto, in preda a impulsi
incontrollati. Vi è un oltre rischioso della presenza, un angoscioso travaglio del suo orizzonte
condendo: e, correlativamente, anche il mondo entra continuamente in crisi di orizzonte, e
trapassa continuamente nell’oltre angosciante. Al limite, ogni rapporto della presenza col mondo
diventa un rischio, una caduta di orizzonte, un non mantenersi, un abdicare senza compenso:
qualcosa di simile alla situazione che costringe lo schizofrenico alla immobilità statuaria dello
stupore catatonico, cioè alla volontà sbarrata, spasmodicamente chiusa all’insidia del mondo. La
magia risale questa china e si oppone risolutamente al processo dissolvitore. Essa mette capo a una
serie di istituti attraverso i quali il rischio è segnalato e combattuto. Un sistema di compensi, di
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E. de Martino, Il mondo magico, op. cit., pagg. 165-166.
compromessi, di guarentigie, sorgono a rendere possibile, in forme più o meno mediate, il riscatto
della presenza. In virtù di questa plasmazione culturale, di questa creazione di istituti, il dramma
esistenziale di ciascuno non resta isolato, irrelativo, ma si inserisce nella tradizione e si avvale delle
esperienze che la tradizione conserva e tramanda. La presenza che fugge è agganciata, è trattenuta:
mercé l’istituto dell’alter ego essa riprende drammaticamente se stessa nel compromesso
dell’oggetto associato al destino personale. Il morto che succhia l’anima è separato, allontanato,
fissato, consolidato. La presenza si concede all’azione, ma muovendosi tra una fitta rete di domini
interdetti o accessibili a condizioni determinate. I momenti critici dell’esistenza connessi con il
lungo peregrinare, con la solitudine, la notte ecc. sono riplasmati in orizzonti definiti con i quali la
presenza entra in rapporti regolati. Il mondo è rialzato dalla sua caduta mercé il novus ordo delle
partecipazioni. Le aperture del corpo sono vigilate, e la forza che ne esce è padroneggiata,
controllata, diretta, convertendosi in mezzo di potenza. Eppure tutti questi temi del riscatto
magico, e gli altri infiniti di cui consta la magia, sarebbero stati ancora poca cosa se non fosse sorto
l’eroe della presenza, il Cristo magico, cioè lo stregone. Attraverso lo stregone il rischio della labilità
viene deliberatamente riassorbito nella demiurgia umana, diventa un momento del dramma
culturale. E attraverso lo stregone tutta la comunità si apre con rinnovata intensità al dramma del
rischio e del riscatto. Si scatena ora, elevato a istituto, l’agone delle presenze nella vicenda delle
fatture e delle controfatture. Ed è possibile ora il grande esorcismo dello specialista, la evocazione
delle forze nascoste e il loro padroneggiamento. Lo stregone è infatti colui che ha acquistato il
potere di regolare la labilità altrui.
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Nel mondo primitivo la presenza si ottiene pertanto mediante l’opera della magia che ne fissa i
cardini coi suoi istituti, e l’azione di tali istituti ha uno svolgimento storico, fondato su precise fasi
di sviluppo e momenti di azione che partono da precise motivazioni pienamente razionali, sebbene
secondo una ragione tipica del magico e del primitivo, cioè una ragione ancora inconscia. Questo
svolgimento termina appunto col fissare la presenza e liberarla all’attività quotidiana, attività che
rientra nella propria storia culturale, che essa continua a nutrire, storia pure segnata
ineludibilmente dalla magia, ma appunto in modo magicamente rigoroso.
La storia dunque agisce in due modi sulla presenza: in un modo liberante, ed è lo
svolgimento degli istituti magici, che trovano il loro perno concreto nello stregone quale loro
controllore e principale agente, ed in un modo liberato, ed è il lascito positivo che detti istituti
arrecano all’individuo, che dopo aver affrontato e risolto le sue crisi può inserirsi nel corso della
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E. De Martino, La fine del mondo – Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino, 1977 e 2002, brano
379, pag. 666.
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Ernesto De Martino, Scritti filosofici, Società Editrice Il Mulino – Istituto Italiano per gli Studi Storici, Napoli, 2005,
pag. 2.
storia e della cultura della propria civiltà. Pertanto liberata dalla storia, e liberata nella storia, la
presenza può così definirsi come lo stare nella storia:
La presenza è presentificazione: essa è sempre in situazione, e al tempo stesso, sempre in
decisione, cioè sempre in atto di andar oltre – di trascendere – la situazione, di emergere da essa
come energia morale di valorizzazione intersoggettiva, di comunicazione universalizzante. La
presenza è esserci-nel-mondo, e la sua norma di esistenza è tutta racchiusa in quel ci che attualizza
l’essere e si apre all’essere, che riprende il passato e dischiude il futuro. Il mondo, in cui la presenza
ci è, in un distacco che sempre si rinnova, è il mondo della natura e della storia, della società e della
cultura determinate.
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È evidente qui l’uso del linguaggio esistenzialistico heideggeriano, ma intriso ora di un significato
storicista. L’«esserci» infatti non è solo ora «esserci nel mondo» ma esserci nel mondo della storia,
e attraverso le modalità della storia, essere dunque ripresa del passato e apertura al futuro, quindi
un esserci condizionato dal passato e condizionante il futuro, termini la cui esistenza e forma è
anteriore all’esserci e dai quali l’esserci non può prescindere in alcun modo.
Non può esistere presenza senza storia, né storia senza presenza, dato che l’atto
presentificante riprende la storia e la allarga, la riproduce non per ripetizione o replica, ma
inseminata dalla storia genera nuova storia. Rispetto all’individuo biologico, il quale è
«scambiabile nella sua astrazione con un qualsiasi altro individuo, e persino con un qualsiasi altro
animale»
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il singolo è questo atto storico, cioè il farsi decisione valorizzante e rivolta alla comunità
storica dei suoi simili. Il singolo o persona non esiste perciò senza la propria storia comunitaria che
possiede e rinnova, essendo al tempo stesso da essa posseduto e rinnovato: è il circolo storico che
potremmo in questo senso paragonare al circolo ermeneutico, per il quale l’interpretazione
consiste nel muovere dalle parti che compongono il testo da interpretare al tutto e, viceversa,
secondo un moto circolare e paradossale, dal tutto alle parti. Il singolo è in maniera non dissimile
parte di un testo più grande di lui, quello della storia della civiltà, da cui promana, ma al contempo
anche colui che continua a scrivere lo stesso testo da cui è scritto. Come operazione da compiere
sul testo in De Martino abbiamo la fondamentale, perché antecedente ogni altra operazione,
presentificazione della vita nel valore, che trascende la naturalità nella storia e, in modo appunto
circolare e paradossale, utilizza la storia per trascenderla, e lo fa cominciando a storificare la