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Hayek, scriveva che “se il problema economico di una società è quello di adattarsi
velocemente ai mutamenti di date circostanze nel tempo e nello spazio, ne dovrebbe
conseguire che le decisioni finali siano lasciate alle persone che hanno più familiarità
con queste circostanze, che conoscano direttamente i cambiamenti e le risorse per
risolverli immediatamente”(Hayek, 1945).
L’intervento di Hayek, trasposto nella problematica del decentramento dei poteri è
decisivo, se è vero che “non ci si può aspettare che questo problema sia risolto
comunicando tutta l’informazione a un organo centrale il quale, dopo averla elaborata,
impartisca gli ordini” (Hayek, 1945).
L’insegnamento in questo caso è abbastanza chiaro e semplice: decide chi può farlo
nella maniera migliore, chi ha a disposizione le informazioni necessarie per risolvere il
problema.
L’elemento informativo, a cui Hayek si riferisce quale possibile giustificazione del
decentramento, è di diretta rilevanza per la teoria economica tradizionale del
federalismo fiscale, la quale si fonda su due ipotesi.
La prima è l’eterogeneità delle preferenze dei cittadini. Ciò che interessa i cittadini, e
che poi giustifica i diversi livelli di governo, è proprio il livello di offerta dei diversi
beni e servizi pubblici. I cittadini hanno preferenze diverse (la sanità o l’istruzione, le
strade, i parchi ecc.) e di questo gli enti locali possono tenerne conto in misura più
soddisfacente di quanto possa fare il governo centrale, tanto è vero che se le preferenze
fossero omogenee a livello nazionale, non ci sarebbe ragione per l’esistenza di diversi
livelli di governo.
La seconda ipotesi è che gli enti sub-centrali abbiano una vantaggio informativo:
conoscono meglio, cioè, la struttura delle preferenze dei cittadini all’interno del proprio
territorio. Il governo centrale è limitato, nella sua azione, dall’assenza di perfetta
informazione; se il governo centrale volesse davvero stabilire il bene o il servizio
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pubblico, potrebbe soltanto agire sulla base della “preferenza media” di un cittadino
rappresentativo, offrendo una quantità uniforme di bene sull’intero territorio nazionale,
non tenendo conto della diversità di preferenze.
Perciò, anche la limitata informazione del governo centrale, è un’ipotesi fondamentale
alla base della teoria tradizionale, accanto a quella della eterogeneità delle preferenze
dei cittadini.
E’ da queste assunzioni che parte William Oates (1972) per l’elaborazione del suo
teorema, alla base della teoria del federalismo fiscale. Per comprendere il suo modello è
necessario premettere che:
- la popolazione complessiva di uno stato è divisa tra due enti locali;
- uno stesso bene pubblico deve essere offerto in entrambi gli enti;
- l’offerta del bene non provoca esternalità; i benefici, cioè, rimangono all’interno
dell’ente;
- le preferenze all’interno dell’ente sono omogenee, si può fare quindi ricorso al
concetto di individuo rappresentativo, ma le preferenze tra enti sono eterogenee;
- in ultimo il governo, se dovesse decidere di offrire il bene pubblico in questione,
potrebbe produrne una quantità uniforme a causa della limitata informazione.
Il grafico riporta i risultati del teorema.
Come possiamo notare, tutto nasce dal confronto tra le curve di domanda D
A
e D
B
,
rappresentative della domanda di bene pubblico nell’ente A e nell’ente B, da cui
scaturiscono le quantità prodotte all’interno di ciascun ente (Q
A
e Q
B
), e la quantità
uniforme Q
C
, risultato dell’offerta centralizzata.
Se i due enti avessero potuto scegliere autonomamente il livello di offerta del bene
pubblico, avremmo avuto Q
A
per l’ente A e Q
B
per l’ente B, i punti in cui il prezzo (la
curva di domanda) incontra il costo marginale (costante perché abbiamo supposto che i
costi di produzione fossero costanti).
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Verifichiamo, dunque, che per entrambi gli enti locali c’è una perdita di benessere.
Nell’ente A, infatti, i cittadini saranno costretti a consumare una quantità addizionale
pari alla differenza Q
C
-Q
A
, quantità per la quale sono disposti a pagare un prezzo
sicuramente inferiore al costo marginale: il triangolo abc rappresenta la differenza
(negativa) tra i benefici totali (area bcQ
A
Q
C
) e i costi totali (area abQ
A
Q
C
) derivanti dal
consumo del bene pubblico. In questo caso infatti la perdita di benessere ha natura di
mancata copertura dei costi inerenti al bene pubblico.
Nell’ente B, invece, i cittadini saranno costretti a consumare una quantità inferiore di
bene pubblico rispetto alle loro preferenze, quantità per la quale sono disposti a pagare
sicuramente in più rispetto a quanto pagheranno il bene pubblico prodotto nella quantità
Q
C
: il triangolo ade, in questo caso, rappresenta la differenza (positiva) tra i benefici
totali (area deQ
B
Q
C
) e i costi totali (area aeQ
B
Q
C
). La perdita di benessere, ha natura di
beneficio mancato.
Una prima conclusione è possibile: in presenza di omogeneità delle preferenze
all’interno degli enti locali considerati, ma di eterogeneità delle preferenze tra gli stessi
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enti locali, l’offerta centralizzata del bene pubblico provoca una perdita di benessere,
somma delle perdite di benessere registrare nei singoli enti sub-centrali.
Vogliamo ora analizzare le conseguenze della rimozione di alcune delle ipotesi
inizialmente introdotte.
Se, invece di considerare soltanto due enti locali, ne considerassimo di più, cosa
succederebbe?
Il risultato non cambierebbe, o almeno non dovrebbe cambiare: basterebbe aggiungere
alle due iniziali, le altre curve di domanda dei consumatori rappresentativi. La perdita
totale di benessere sarebbe la somma di tutte le perdite di benessere registrate in
presenza di offerta centralizzata. Ovviamente, se le curve di domanda fossero tra loro
molto distanti (indicatrici di una maggiore eterogeneità di preferenze tra i consumatori
rappresentativi), la perdita totale di benessere sarebbe sicuramente più alta. Così come,
invece, se le diverse curve fossero sostanzialmente vicine (e le preferenze
tendenzialmente omogenee), si avrebbe una buona approssimazione proprio nel livello
di offerta a livello centrale.
Questo ci permette di arrivare a una seconda conclusione: maggiore è l’eterogeneità
delle preferenze tra enti locali, maggiore la perdita di benessere derivante da un’offerta
centralizzata uniforme.
E se, come avviene nella realtà, anche all’interno di uno stesso ente le preferenze sono
eterogenee? Estendiamo il teorema di Oates a questa nuova ipotesi.
Ebbene, nella figura prima considerata, dovrebbero essere aggiunte altre curve di
domanda che tengano conto delle diverse preferenze dei cittadini rappresentativi. A
questo proposito, si veda il secondo grafico (fig. 1.2), in cui compaiono le domande del
bene pubblico relative a 3 residenti (D
iA
, D
iB
, D
iC
con i=1,2,3) per ciascuno dei 3 enti
considerati (A,B,C): la collettività nazionale sarà così formata da 9 individui
equiripartiti in tre enti locali.
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In questo caso, però, di preferenze eterogenee anche all’interno degli enti, si introduce
un’altra dimensione di analisi. Dobbiamo cioè, prima di tutto, verificare se ci sono
perdite di benessere all’interno dell’ente, e poi in secondo luogo, se la soluzione
decentralizzata, anche in presenza di perdite di benessere interne, sia preferibile a una
soluzione centralizzata. Ciò dipenderà dal grado di eterogeneità delle preferenze locali.
Vediamo nel dettaglio cosa accade.
Supponiamo che le quantità prodotte nelle tre giurisdizioni siano pari a Q
A
, Q
B
, Q
C
.
Nella località A, l’individuo 1 soffre di una perdita di benessere dovuta a un consumo
maggiore non desiderato (area abc), l’individuo due soddisfa completamente le proprie
preferenze e l’individuo 3 avrà anch’egli una perdita di benessere, causato, questa volta,
da un consumo inferiore a quello da lui preferito (area dce). Lo stesso ragionamento si
potrà fare per gli altri due enti. E si potrà facilmente constatare che proprie a causa
dell’eterogeneità delle preferenze all’interno degli enti locali, si registreranno perdite
di benessere.
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Il punto fondamentale rimane stabilire se la scelta centralizzata provoca o meno una
perdita di benessere maggiore rispetto a quella provocata da una soluzione
decentralizzata. Per fare questo, diviene necessario misurare le perdite di benessere,
nell’ipotesi che ci sia una quantità uniforme di bene pubblico stabilita a livello centrale
(fino ad ora abbiamo ragionato prendendo in considerazione le quantità di bene offerte a
livello locale), individuata in base all’equilibrio dell’elettore mediano.
Ipotizziamo, allora, che a livello centrale si decida di offrire la quantità Q
B
. Quali
cambiamenti si verificano per le diverse perdite di benessere prima registrate?
Accade che, per esempio, l’individuo 1 dell’ente A veda aumentare la sua perdita di
benessere (dell’area cgfb), l’individuo 2 solo adesso soffrirà per il consumo maggiore
che dovrà operare (area chg), mentre soltanto l’individuo 3 godrà (la perdita si riduce di
dcgi) per questa maggiore quantità di bene offerta dal centro, maggiore rispetto a quella
offerta precedentemente a livello locale. Ma allora quale soluzione sarà preferita?
Quella decentrata o quella accentrata?
Tutto dipenderà dalla variazione delle perdite di benessere degli individui considerati.
In particolare, se risulterà che cgfb + chg > dcgi, allora sarà la soluzione decentralizzata
a essere scelta, perché comporta una perdita di benessere inferiore.
Possiamo, però, nella nostra analisi, scendere ancora di più nel dettaglio. Se infatti la
curva del terzo individuo fosse stata più lontana da quella dell’elettore mediano
(individuo 2), allora ci sarebbe stata una riduzione della sua perdita di benessere
sicuramente maggiore. In questo caso, a parità di preferenze degli individui 1 e 2, la
soluzione da preferire probabilmente sarebbe stata quella centralizzata perché avrebbe
comportato una riduzione della perdita totale (degli individui 1, 2 e 3) di benessere.
Questo ci porta a un’ulteriore conclusione: maggiore è l’eterogeneità delle preferenze
all’interno di un ente locale, rispetto all’eterogeneità nazionale, maggiore è la
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probabilità che, in quell’ente locale, una soluzione centralizzata produca una minore
perdita di benessere.
Questo risultato, come si può notare contraddice fortemente la conclusione del teorema
di Oates: maggiore l’eterogeneità delle preferenze, maggiore la perdita di benessere
derivante da un’offerta centralizzata uniforme. La validità delle conclusioni a livello
nazionale (tra enti locali), trova un limite molto forte proprio nell’eccessiva eterogeneità
delle preferenze all’interno degli enti locali.
In verità, Oates giunge a risultati “non ambigui” proprio perché ha assunto che le
preferenze all’interno degli enti sub-centrali siano omogenee e rappresentate da una sola
curva di domanda. Se introduciamo la eterogeneità, diventa necessario misurare e
confrontare le diverse perdite di benessere; il che, è operazione estremamente difficile.
Dopo questa analisi teorica, è facile concludere che in un mondo di individui con
differenti preferenze, i governi decentrati hanno la capacità di migliorare l’allocazione
efficiente delle risorse nel settore pubblico attraverso la diversificazione dei beni e dei
servizi prodotti a seconda delle preferenze locali.
E che la soluzione decentralizzata diventa tanto più preferibile quanto maggiore è
l’omogeneità all’interno delle singole giurisdizioni, e maggiore è la disomogeneità tra
le diverse giurisdizioni.
1.1.2 Quando le preferenze sono molto eterogenee: Tiebout e il “voting with the
feet”
Alla base della teoria del decentramento appena analizzata, condizione necessaria per la
sua validità generale, è proprio l’esistenza (o l’ipotesi della esistenza) di
un’omogeneizzazione delle preferenze a livello locale.
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In verità, nella realtà è estremamente difficile immaginare che ci sia una seppur relativa
omogeneizzazione.
Tiebout, infatti, supponendo una diffusa eterogeneità delle preferenze a livello locale,
ha elaborato un modello che rientra in quelli della teoria tradizionale, grazie al quale si
giunge verosimilmente a una riduzione di quella eterogeneità: il “voting with the feet”,
ovvero il “voto con i piedi”.
Nel 1956 Tiebout elabora uno schema teorico in base al quale i cittadini possono
spostarsi da un ente all’altro, in accordo alle loro preferenze sulla combinazione di
imposte e beni pubblici, proprio come accade quando si spostano da un negozio all’altro
per l’acquisto di un bene. Il modello prodotto, è la risposta alle diffidenze di Musgrave
del 1939 e Samuelson nel 1954 sulla possibilità di rilevare correttamente le preferenze
dei cittadini in merito ai beni pubblici nazionali e costruire così le curve di domanda:
per essi tutto lasciava il posto alla determinazione di un processo decisionale (votazione
a maggioranza).
In special modo, la conclusione di Samuelson si basava essenzialmente sulla
convinzione che all’interno di gruppi numerosi la mancata rivelazione delle preferenze
ha un impatto quasi nullo sulla offerta complessiva del bene pubblico considerato; in
poche parole, i cittadini sono spinti a comportarsi come dei “free rider”, perché, anche
nascondendo le proprie preferenze rispetto ai beni pubblici, sanno che non possono mai
esserne esclusi dal consumo, proprio per la caratteristica della non escludibilità del bene
pubblico (Liberati, 1999).
Tiebout, riconoscendo la validità della conclusione di Samuelson, aggiunge che proprio
quella rivelazione delle preferenze che gli individui non fanno spontaneamente, si può
ottenere in modo indiretto attraverso il “voto con i piedi”, ovvero attraverso la scelta, da
parte dei cittadini, dell’ente locale ritenuto il migliore per quanto riguarda la
combinazione preferita di imposte/beni pubblici. In questo modo, si introduce il
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concetto fondamentale di mobilità spaziale degli individui, che riescono a selezionare le
comunità territoriali che meglio rispondono alle proprie esigenze.
Un modello rivoluzionario, dunque, che apre la strada al teorema di Oates: infatti,
all’interno di un ente considerato, grazie alla perfetta mobilità della popolazione, le
preferenze tenderanno ad omogeneizzarsi ricostituendo le premesse iniziali per il già
citato teorema; altresì, come seconda conseguenza, poiché gli individui si spostano e
scelgono senza vincoli, spontaneamente si raggiungerà l’unanimità in merito alle scelte
future, senza la necessità di un meccanismo decisionale collettivo.
Se per un momento, ci rifacciamo alla figura 1.2, e applichiamo le conclusioni a cui
siamo appena giunti, tutto ciò significa consentire al terzo individuo di B e C si spostarsi
in A, al secondo individuo di A e C di spostarsi in B, e al primo individuo di A e B di
spostarsi in C. Così, avendo solo 3 curve di domanda, ognuna rappresentativa delle
preferenze all’interno di ciascun ente, aumenterebbero le possibilità che una soluzione
decentralizzata sia superiore a una centralizzata, secondo quando stabilito da Oates.
Facciamo però, un passo indietro, perché è importante conoscere le premesse al modello
di Tiebout:
- la mobilità è perfetta e i costi per lo spostamento sono assenti;
- le preferenze sulla combinazione imposte/beni pubblici, è l’unico determinante che
spinge i cittadini a muoversi;
- esiste un numero elevato di comunità territoriali tra le quali scegliere, ma finito per
l’esistenza di fattori fissi di produzione (per esempio, la terra);
- gli individui percepiscono redditi in somma fissa (questo per evitare che il motivo della
migrazione sia il lavoro);
- c’è perfetta informazione sulla diverse combinazioni imposte/beni pubblici esistenti;
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- lo spostamento da un ente all’altro non produce esternalità né nell’ente di partenza, né in
quello di destinazione; se così non fosse, si creerebbe una soluzione instabile e si
renderebbe necessario il ritorno agli enti di partenza;
- non ci sono effetti di traboccamento dei benefici prodotti dal bene pubblico, né economia
di scala nella produzione degli stessi e le imposte vengono applicate sulla base del
principio del beneficio.
Appare evidente che in questo modello, maggiore è il numero degli enti esistenti,
maggiori sono le probabilità di riuscire a trovare l’ente con la combinazione preferita, e
che ogni individuo possa allocarsi ottimamente, ricostituendo così l’omogeneità delle
preferenze.
Critiche al modello di Tiebout
Ci rendiamo ben presto conto, però, che le condizioni su cui si basa questo modello
sono piuttosto eroiche. Tiebout stesso, lo definisce “estremo”, anche se l’idea
sottostante del “voto con i piedi” contiene degli elementi interessanti. Cerchiamo di
capire perché.
Una prima linea di critica è quella che sostiene la possibilità di equilibri instabili.
Se, per esempio, la domanda di bene pubblico ha una elasticità positiva rispetto al
reddito, la mobilità supposta da Tiebout potrebbe avere come effetto la costituzione di
enti locali stratificati per classi di reddito (Mc Guire, 1974). Immaginiamo che il
finanziamento del bene pubblico avvenga attraverso un’imposta progressiva, pagata sia
dai cittadini dell’ente A che hanno elevato reddito e, naturalmente, preferenze
omogenee, e dai cittadini dell’ente B che hanno un reddito più basso. Riscuotendo il
gettito (alto) derivante dall’imposta progressiva, l’ente A riuscirà ad offrire una
maggiore quantità di bene pubblico; nell’ente B le quantità saranno, invece, inferiori:
per questo i suoi cittadini saranno spinti a spostarsi per avere a disposizione una
quantità maggiore di bene pubblico, pagando proporzionalmente meno in termini di
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imposte rispetto alla loro situazione precedente. E’ anche ovvio, però, che i ricchi
rifiuterebbero i più poveri che pagano meno. Una soluzione definitiva e stabile si
avrebbe solo con la predisposizione di regole che impediscano l’accesso ai poveri
(prescrivendo, per esempio, che le case debbano avere determinate dimensioni),
attuando vere e proprie politiche di zoning. In pratica, impedendo una delle premesse
fondamentali, ovvero, la perfetta mobilità delle persone.
Da tutto ciò si può allora desumere che la mobilità dipende anche da un incentivo
pecuniario (i poveri si spostano perché pagano proporzionalmente meno) e che
all’interno degli enti, così costituitisi, non saranno possibili politiche redistributive.
Come seconda linea di critica, evidenziamo il caso in cui se l’ente è troppo piccolo
potrebbe non riuscire a produrre la quantità di bene pubblico al minimo costo, dato
l’andamento ad “U” della curva dei costi medi. Potrebbe cioè fermarsi in un punto in
cui la curva è ancora decrescente, violando i princìpi dell’efficienza produttiva.
Ancora. Abbiamo fino ad ora supposto e portato avanti l’idea che ci fosse una mobilità
perfetta, soprattutto in senso statico; in altre parole, abbiamo supposto che gli individui
si spostano, e riescano a spostarsi senza costi relativi al trasporto, in base alle loro
preferenze; ma sappiamo che queste preferenze possono cambiare, evolvere nel corso
della vita. E’ più che plausibile pensare che le esigenze, e dunque le preferenze, di un
giovane di 20 anni siano diverse da un uomo di 60 anni. In base a questo gli enti
costituitisi non rimarranno mai uguali per sempre, cambieranno nel tempo in
dimensione e composizione, in base alle mutate esigenze della popolazione.
Così come la mobilità da un ente all’altro può essere facilmente frenata, come
l’osservazione empirica suggerisce (Liberati, 1999), se la principale fonte di reddito
deriva dal lavoro, se questo è localizzato territorialmente, se esistono costi di trasporto
elevati, se risulta difficile trovare nell’ente di destinazione una nuova abitazione; anche
gli stessi legami affettivi e culturali, che definiscono il “surplus del cittadino” in termini
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di attaccamento al territorio di appartenenza, possono rappresentare un serio ostacolo
allo spostamento, tant’è che in genere la migrazione avviene solo quando la condizione
nell’ente di partenza è particolarmente deteriorata.
1.2 Come decentrare: funzioni da attribuire agli enti sub-centrali
L’impianto della teoria tradizionale appena esaminato è rivolto a ricercare le ragioni e le
motivazioni per le quali alcune funzioni debbano essere esercitare su base
decentralizzata piuttosto che centralizzata (maggiore o minore perdita di benessere per i
cittadini degli enti sub-centrali, maggiore benessere derivante da una migliore
combinazione di imposte e beni pubblici). Una volta che si è stabilita la eventuale o
potenziale superiorità degli enti sub-centrali nell’offerta dei beni e servizi pubblici, si
pone il problema di quali funzioni essi debbano effettivamente esercitare.
Infatti il “principio di sussidiarietà”, là dove afferma che le funzioni collettive debbano
essere svolte ai livelli superiori di governo solo quando quelli inferiori non appaiono
nelle condizioni di operare in modo efficiente, deve essere qualificato proprio
verificando quali cose gli enti territoriali possono fare meglio.
1.2.1 Musgrave e gli obiettivi di politica fiscale: allocare, redistribuire e
stabilizzare
La teoria del federalismo fiscale ha tratto spunto dal contributo di Musgrave (1959) per
la definizione del ruolo del settore pubblico nell’ambito dell’attività economica. In
verità il dibattito sul federalismo ha riguardato anche aspetti al confine tra scienza della
politica e teoria delle scelte pubbliche, come la capacità di perseguire obiettivi di libertà,
democrazia e partecipazione individuale alla vita collettiva.
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Ciò che qui, invece, preme sottolineare è la divisione degli obiettivi di politica fiscale e
di bilancio, per il raggiungimento dei quali, l’uso di strumenti fiscali deve essere rivolto a :
- concorrere all’aggiustamento dell’allocazione delle risorse;
- assicurare aggiustamenti nella distribuzione del reddito e della ricchezza;
- assicurare un certo grado di stabilizzazione economica;
Originariamente, questa tripartizione è stata rivolta a delimitare i suddetti obiettivi in un
sistema in cui esiste un settore privato e un unico livello di governo. Successivamente
questa teoria è stata estesa al caso della presenza di più livelli di governo.
Il risultato principale di questa estensione è che i livelli inferiori di governo debbano
concorrere soltanto alla realizzazione del primo obiettivo, mentre il perseguimento degli
altri due (redistribuzione e stabilizzazione) dovrebbe essere riservato al governo
centrale. La ragione fondamentale di questa scelta è che, poiché l’obiettivo del governo
centrale nell’esercizio della funzione allocativa è quello di utilizzare le risorse nella
maniera più efficiente possibile, il teorema di Oates consiglia di lasciare il compito di
questa allocazione a chi può fare meglio; quindi, anche al governo sub-centrale. Nel
caso della funzione redistributiva e di stabilizzazione, invece, gli obiettivi del governo
centrale sono sicuramente diversi; nel primo caso, si vorrebbe garantire il rispetto di una
equità di trattamento complessivo; nel secondo, si potrebbe voler assicurare la stabilità
dei prezzi, la riduzione delle fluttuazioni economiche o il mantenimento di un basso
livello di disoccupazione. In tutti questi casi, il pericolo (per il sistema nazionale) in
agguato è una certa conflittualità tra governo centrale e governo locale, le cui scelte
potrebbero non essere in accordo, impedendo il raggiungimento degli obiettivi previsti.
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1.2.2 Come allocare efficientemente le risorse: il bene pubblico locale e il principio
di “fiscal equivalence”. Critiche.
Cosa significa allocare le risorse? O meglio, quali sono le risorse che dovrebbero essere
allocate in modo efficiente? Il punto di riferimento di questo obiettivo è proprio la
fornitura di beni e servizi pubblici. Come sappiamo i beni pubblici “puri”, secondo la
definizione di Samuelson, godono dei requisiti della “non-rivalità” e della “non-
escludibilità”, e sono dunque disponibili per tutti. Il problema nasce proprio perché i
beni pubblici puri sono assai rari; sono molto più diffusi quelli impuri, che non sono
accessibili a tutti, o esplicano i loro benefici in un’area limitata.
In questi casi, la politica ottimale nell’allocazione di queste risorse “impure” può
trovare un qualche fondamento nella teoria dei club (di cui parleremo in seguito) o nella
concorrenza tra enti locali (Tiebout e il suo “voto con i piedi”). Nessuno di questi due
modelli, però, fornisce la spiegazione di quali siano le funzioni da assegnare agli enti
locali, nell’ottica dell’obiettivo allocativo.
Per esempio, come si può decidere che gli enti locali debbano essere responsabili della
manutenzione delle strade piuttosto che del servizio sanitario? O dei parchi pubblici
piuttosto che dell’istruzione scolastica? Tutti questi beni e servizi riguardano l’esercizio
della funzione allocativa, ma non tutti possono essere offerti dall’ente locale con lo
stesso grado di efficienza.
E’ per questo motivo che è stato introdotto il concetto di “bene pubblico locale”, ossia
di un bene pubblico che gli enti locali sono in grado di offrire, e i cui benefici non si
diffondono sull’intera area nazionale, ma rimangono confinati entro aree geografiche
delimitate. E’ evidente che c’è un’applicazione concreta del principio secondo il quale
le decisioni allocative dovrebbero essere effettuate dal livello di governo più prossimo
alla distribuzione spaziale dei benefici dei beni pubblici.