5
Tuttavia la politica borbonica non si dimostra adeguatamente solida per reggere lo
scontro con il sistema dei privilegi profondamente consolidato in una società tipicamente di
antico regime come quella meridionale, dove il fronte conservatore in cui teoricamente si
ritrovano allineati baroni ed ecclesiastici (anche se i fatti dimostrano ben altra complessità),
saldamente radicato nei centri decisionali più influenti, si oppone decisamente a qualsiasi
iniziativa che possa ledere le proprie sfere di potere reale.
I rapporti di forza esistenti tra le parti sono ancora eccessivamente sbilanciati a favore
dei ceti più conservatori per cui molti degli sforzi dell’autorità centrale vengono in concreto
vanificati mentre, allo stesso tempo, appare chiaro che il processo di evoluzione sociale,
mancando di una necessaria azione rivendicativa da parte degli strati subalterni, resti ancora a
livello embrionale.
Nella seconda metà del secolo prende avvio un più netto e consistente fenomeno di
affermazione delle classi rurali, ma non già dei contadini e braccianti quanto dei "massari"
che, avendo operato un’attenta e opportuna tesaurizzazione e raggiunto una certa rilevanza
economica, attraverso l'acquisto o la gestione di rilevanti possedimenti fondiari, s’impongono
come una nuova borghesia agraria.
Un processo, questo, a cui però non si associa una parallela presa di coscienza del
proprio ruolo e peso politico, per cui, di fatto, una più rilevante trasformazione sociale viene
rimandata al XIX secolo.
In complesso, dunque, la rete degli interessi consolidati risulta solo scalfita, non
abbattuta, dalla monarchia borbonica che, incapace di far valere fino in fondo la sua politica,
vedrà svuotarsi di significato il contenuto di gran parte delle più importanti e radicali riforme.
In tal modo, anche quello che si presenta come il progetto più ambizioso nel campo
fiscale, il catasto onciario del 1741, un nuovo sistema tributario che garantirebbe maggiore
equità nella ripartizione delle imposte, s'impone come novità assoluta per il periodo ma si
rivela concretamente velleitario in ordine alla realizzazione del suo obiettivo.
Sulla portata effettiva dell’opera riformistica sia di Carlo III che di Ferdinando IV
pende perciò un giudizio di sostanziale incompiutezza, soprattutto da parte della storiografia
contemporanea che non rispetto agli storici coevi, più inclini ad ammettere ipotetiche
giustificazioni.
6
Un'incompiutezza i cui effetti sono sempre più evidenti allorché dal centro la visuale si
apra sull’orizzonte della periferia, maggiormente complessa e articolata, dove in genere
l’ondata del cambiamento è ulteriormente attutita dalla distanza fisica dalla capitale e da una
debolezza e un isolamento più evidenti delle classi subalterne al cospetto di un potere feudale
troppo forte.
In tale quadro storico, l’università di Locorotondo rappresenta un “caso” all’interno
della provincia di Terra di Bari. Pur integrata con la sua specifica funzionalità nell’assetto
amministrativo del Regno, essa vive però da lontano e di riflesso questa particolare fase in cui
la continua tensione tra innovatori e conservatori scatena effetti di considerevole portata estesi
all’intero contesto meridionale.
Il suo esempio può essere la conferma di un tendenziale allineamento ad una posizione
priva di iniziativa, ravvisabile nella quasi totalità delle amministrazioni comunali, in pratica
declinanti ogni responsabilità in merito a decisioni che invece le riguardano direttamente,
oppure può rivelare una singolarità in un modo alternativo di interagire con le autorità
superiori, affermando quindi una propria identità.
Cellula minimale della provincia pugliese (dove si riscontrano condizioni meno
depresse rispetto ad altre aree del Regno), Locorotondo pare caratterizzarsi per uno schema
socio-economico di antico regime (non discostandosi dal modello di organizzazione più
comune nel XVIII secolo), con le sue gerarchie profondamente marcate che sanciscono la
stabilità di una posizione incontrastata di vertice a favore del feudatario e di un nucleo
circoscritto di nobili e borghesi professionisti e il progressivo succedersi dei massari, nonché
dei contadini e artigiani, in un sistema produttivo a carattere agricolo e zootecnico e con una
sostanziale sperequazione nella distribuzione della ricchezza.
Questo primo approccio permette di individuare immediatamente gli elementi generali
del “luogo” ma non dev’essere inteso in senso definitivo: l’indagine deve penetrare all’interno
per scoprire le relazioni effettive tra funzionari comunali, borghesi e subalterni, tra uomini di
campagna e residenti del centro storico, e individuare le peculiarità proprie della comunità.
La fonte documentaria primaria utilizzata in un simile lavoro di approfondimento è
costituita dai Libri di Introito ed Esito dell’Università di Locorotondo, compilati annualmente
secondo criteri espressamente stabiliti dalle prammatiche regie e dotati perciò di una loro
7
“ufficialità”, da non sottovalutare, nei confronti degli organi superiori di controllo, i quali ci
consentono un esame dello stato della finanza comunale durante il periodo considerato.
All’epoca il comune è investito di una funzione essenziale nell’apparato tributario del
Regno poiché è deputato alla tassazione dei cittadini sulla base di appositi parametri sociali ed
economici, esazione delle relative imposte e loro versamento al Regio Erario. L’entrata in
vigore del nuovo catasto rappresenta un momento di significativa rilevanza perché, a seguito
delle modifiche nel regime impositivo, determina ripercussioni immediate nella relazione tra
autorità centrale, organismi municipali e contribuenti residenti.
L’evoluzione dei movimenti finanziari tra le parti si concretizza come il riflesso dei
mutamenti che si susseguono nella situazione economico-sociale dell’università che, a sua
volta, risulta condizionata dalle scelte governative in un inestricabile circolo vieppiù vizioso,
che non virtuoso, per le amministrazioni locali.
Il bilancio dunque, penetrando nella realtà dell’economia locorotondese, si presta ad
assurgere quale strumento d’indagine dettagliata, percependo ed evidenziando il collegamento
diretto e imprescindibile con le finanze regie.
Allo stesso tempo i funzionari comunali assolvono altresì a un incarico di gestione e
controllo dei bisogni collettivi della comunità locale attraverso un utilizzo ponderato delle
risorse pubbliche.
In considerazione della stretta complementarietà e inscindibilità delle due funzioni,
tributaria e amministrativa, emerge la costante precarietà degli equilibri sui quali essi devono
dimostrare abilità nel destreggiarsi.
Ottimamente conservata presso l’Archivio Storico Comunale di Locorotondo1, la serie
pressoché completa di tali rendiconti di cassa dal 1748 al 17782, è stata oggetto di lettura
attenta e analisi particolareggiata.
Nel contempo, per ricostruire un quadro più generale della società e dell'economia
locorotondesi durante il XVIII secolo, al cui interno riportare le osservazioni desunte dai
bilanci stessi, si è fatto riferimento, da una parte, alla storiografia locale che, seppur non molto
estesa quantitativamente, ha comunque suscitato e stimolato spunti di particolare interesse,
1
Da ora in avanti: ASCL.
2
ASCL, Libri di Introito ed Esito dell’Università di Locorotondo, 1748-1778, busta 13, fasc. 101; busta 14, fasc.
102.
8
dall'altra, per ciò che concerne invece il contesto più generale relativo al Regno di Napoli, ad
una bibliografia, sia coeva che più recente, con la consapevolezza di non averla certamente
affrontata in modo pienamente esaustivo data la vastità quantitativa e qualitativa dei
molteplici aspetti di un simile argomento di studio.
Il nucleo fondamentale del lavoro di tesi resta comunque la presentazione dei bilanci
comunali che costituiscono il presupposto imprescindibile per una lettura più articolata del
movimento tendenziale di evoluzione socio-economica presente a Locorotondo nel corso del
Settecento.
Sebbene considerati singolarmente si prestino a valutazioni statiche, in quanto fissano
la situazione di competenza in un determinato intervallo di tempo, un'analisi in serie consente
invece di individuare le dinamiche più articolate in un orizzonte di media-lunga scadenza.
In essi l'andamento temporale delle diverse voci di entrata e di uscita si pone come
possibile traccia di mutamenti più o meno rilevanti che, originati ad uno stadio superiore, si
ripercuotono poi gradualmente sui livelli inferiori, dando prova in tal modo del
funzionamento di un meccanismo di collegamento e condizionamento diretto tra uno scenario
storico ampliato e la vita delle singole unità che lo compongono.
9
CAPITOLO 1
IL REGNO DI NAPOLI NEL XVIII SECOLO
1.1 DAL VICEREGNO AL REGNO
La situazione politico-sociale meridionale all’inizio del XVIII secolo appare
particolarmente critica e complessa. La morte di Carlo II proprio nell’anno 1700 pone la
controversia della successione spagnola, che si conclude con l’avvento al trono di Filippo V
per un breve periodo di tempo.
Nel precedente Viceregno gli spagnoli sono stati accusati di aver oppresso e sfruttato il
napoletano, in diretta relazione alla pratica, attuata a partire dalla metà del Cinquecento per
sostenere le spese belliche, di ricorrere a ingenti prestiti presso i privati garantiti dalla
cessione di rendite tributarie, originando così una fuga costante di capitali e un rapido
aumento del debito pubblico locale.1
Il consolidamento di una simile prassi unitamente ad una politica economica
complessivamente inefficiente, tanto per il territorio nazionale che per i domini, ha accentuato
le dimensioni della crisi economica spagnola, che ha raggiunto l’apice alla fine del Seicento.
Il Viceregno è stato travolto da conseguenze disastrose a causa dello stretto rapporto di
dipendenza finanziaria imposto dalla Corona. Particolarmente gravi sono risultate le
ripercussioni in campo commerciale e valutario, che incidendo sulla bilancia dei pagamenti
hanno determinato una pericolosa instabilità nella situazione monetaria, quale culmine del
progressivo peggioramento.
Rispetto ad una simile situazione i provvedimenti centrali, poiché isolati e parziali, si
sono dimostrati inutilmente velleitari.
Se l'orientamento spagnolo sembrava indirizzato ad evitare un atteggiamento
autoritario, di fatto però il tracollo conseguente ad una conduzione economica così deficitaria,
1
Cfr. R. MANTELLI, Burocrazia e finanze nel Regno di Napoli, Napoli, Pironti, 1981, pp. 301-302.
10
esasperando oltremodo la popolazione meridionale, ha diffuso un malessere che ha alimentato
manifestazioni veementi di risentimento sia nei confronti della monarchia che dei funzionari
locali alle dipendenze regie, ritenuti i veri colpevoli.2
Il fermento intenso della società meridionale a cavallo tra i due secoli accompagna
l’ascesa politica ed economica del ceto civile, descritto come la classe dei dottori e dei gruppi
agiati, che accede ai vertici del potere politico-amministrativo con il controllo dei supremi
organismi statali in materia di politica e amministrazione (Consiglio Collaterale), di giustizia
(Sacro Regio Consiglio), e in campo fiscale e finanziario (Regia Camera della Sommaria).
A questa situazione di fatto, gli aristocratici cercano di opporsi a livello locale con il
sistema dei Seggi (Giunta degli Eletti o Decurionato), che, attraverso un allargamento
strategico anche al terzo ceto, cerca di ampliare il proprio bacino di influenza proponendosi
idealmente come strumento di rappresentanza delle istanze tanto della nobiltà quanto delle
classi popolari ed assumendo competenza nei più svariati settori della vita politica ed
economica.
Peraltro la conseguente teorizzazione di un presunto rapporto di rivalità tra nobili e
togati viene evidentemente smentita dall’intreccio empirico di ambigue relazioni di
connivenza, in nome di una comune difesa di tornaconti particolaristici contro l’autorità dello
Stato, e con la sostanziale esclusione dei ceti meno abbienti, in evidente sconfessione di
linearità ideologica.
Un simile atteggiamento è valso ad attribuire al ceto forense napoletano un giudizio
storiografico tendenzialmente negativo. Ma la realtà, come sempre più complessa, pretende
approfondimenti continui. Nello specifico, occorre considerare che proprio in questo periodo,
2
Sul governo spagnolo del Viceregno napoletano durante il XVII secolo è interessante operare un confronto tra
un giudizio più assolutorio in B. CROCE, Storia del Regno di Napoli, Bari, Laterza, 1966, pp. 144-150, con uno,
invece, più critico in A. MUSI, Finanze e politica nella Napoli del ‘600: Bartolomeo d’Aquino, Napoli, Guida,
1976. In quest'opera l'autore illustrando la figura dell’arrendatore d’Aquino, nella sua particolare funzione di
mediazione finanziaria tra gli interessi della Corona e i contribuenti napoletani, ne sottolinea la necessità per il
governo spagnolo che, a seguito del clima di forte malcontento sociale, teme di perdere la regolarità nell’incasso
di imposte e donativi.
Sull'importanza di Napoli come mercato valutario internazionale, oltreché interno, cfr. L. DE ROSA, Il
Mezzogiorno spagnolo tra crescita e decadenza , Milano, Mondadori, 1987, pp. 194-196. Mentre
sull'individuazione della questione monetaria come problema fondamentale del napoletano alla fine del Seicento
cfr. L. DE ROSA, Alle origini della questione meridionale: problema e dibattito monetario al tramonto del
Viceregno spagnuolo di Napoli (1670-1706), in AAVV., Studi storici in onore di Gabriele Pepe, Bari, Dedalo
Libri, 1969, pp. 581-583. L'autore attribuisce la causa dell’instabilità monetaria al logoramento della bilancia dei
pagamenti e sostiene l'inutilità della svalutazione in quanto intervento temporaneo e non accompagnato ad una
trasformazione dei processi produttivi che possa trattenere i capitali per nuovi investimenti.
11
anche all’interno di questa classe c’è chi partecipa attivamente alla nascita di un nuovo
movimento culturale e a un rinnovato senso dello Stato, più vicino all’idea della “pubblica
utilità”.
Tale moto di rinnovamento culturale e politico si consolida durante il regno di Filippo
V, generando un effetto diretto significativo che consiste nell’aprire il dibattito sulla
investitura pontificia del Regno, ritenuta indispensabile da Roma ma, in concreto, superata
con una vera e propria negazione di tale diritto secolare. Momento, questo, che per alcuni
studiosi rappresenta la nascita storica del laicismo moderno.
Nel contempo, il governo borbonico continua a tentare di promuovere un’intesa più
salda con le forze locali, fino a quando, nel 1707, l’ingresso a Napoli dell’esercito imperiale
sancisce l’instaurazione del Viceregno austriaco.
Al loro arrivo gli Asburgo non possono che constatare le generali gravi condizioni di
crisi economica e sociale di tutto il Meridione, dove periodi di guerre e fiscalismi eccessivi
rendono difficile l’avvio nell’immediato di una politica che promuova dall’interno un
processo di ripresa.
L’attività produttiva fondamentale, base di tutto il sistema economico, resta
l’agricoltura anche se, con il passare degli anni, questa - in special modo la produzione
granaria - risulta sempre più legata alla sussistenza, condizionata da una politica annonaria
resa ancor più cruciale dalla forte crescita demografica, a scapito di una più redditizia attività
commerciale di esportazione.
Gli altri settori produttivi contribuiscono in maniera molto limitata alla formazione del
prodotto nazionale, mentre il deficit pubblico tende ad allargarsi progressivamente.3
Frattanto la città di Napoli si contraddistingue per una condizione economico-sociale
articolata e peculiare, in cui è possibile individuare solo alcuni tratti evolutivi in comune con
le altre grandi città europee.
La popolazione appare in crescita tendenziale da oltre un secolo, anche se il saldo
positivo è dovuto principalmente a fenomeni di immigrazione dalle province; il sistema
produttivo è sorretto da alcune produzioni di generi di lusso, come la seta, in una congiuntura
3
Per il governo asburgico del Viceregno napoletano, le strategie di base e i risultati raggiunti sono analizzati
dettagliatamente nell'opera di A. DI VITTORIO, Gli Austriaci e il Regno di Napoli 1707-1734. Ideologia e
politica di sviluppo, Napoli, Giannini, 1973, a cui si rimanda per un approfondimento più specifico.
12
favorevole, le quali difficilmente, però, possono sostenere la concorrenza internazionale nel
lungo periodo.
Particolarmente vivace, comunque, si dimostra il contesto economico che si sviluppa
attorno al suo porto, con l’intensificarsi delle attività della pesca, delle costruzioni navali,
delle relazioni commerciali con l'estero.
Inoltre, anche l’attività di coniazione di monete risulta in espansione, malgrado la
relativa circolazione appaia ancora insufficiente a creare un adeguato livello di domanda.
Ciò che caratterizza in maniera singolare la città di Napoli è, in realtà, la sua
incapacità a rendersi finanziariamente autonoma.
Napoli è esente da imposte dirette, per cui la base essenziale delle sue entrate è
costituita dalle imposizioni indirette che, tuttavia, sono state progressivamente alienate ai
privati in un sistema di persistente commistione tra economia e politica che rende impossibile
l’attuazione di un serio programma di sviluppo.
La capitale ha dunque una situazione finanziaria instabile, chiamata a sostenere uscite
rilevanti soprattutto per effetto dei donativi dovuti alla corona spagnola e per la politica
annonaria cittadina. Poiché tali spese hanno provocato un deficit cronico di bilancio, è
apparso inevitabile ricorrere ad un sempre più massiccio appoggio finanziario presso le
province, assumendo perciò una condizione parassitaria all’interno del Regno.
Così, all’avvento degli austriaci Napoli è in passivo ed è passiva, caratterizzata da
un’atonia economica, che è anche un’atonia sociale.
La fragile struttura finanziaria del Regno va valutata come conseguenza diretta di una
fragilità economica propria della stessa capitale.4
L'atteggiamento inizialmente tenuto dagli Asburgo è rivolto a sviluppare un rapporto
di intesa con gli organi amministrativi cittadini per confermare gli equilibri locali già
consolidati, evitando di provocare ulteriori turbamenti. Alleanza che conduce ad un
rafforzamento del potere municipale e del ceto civile, a scapito di quelle che vengono
individuate come forze eversive nei confronti dello Stato: il baronaggio e, soprattutto, la
Chiesa.
4
Un esame puntuale dei diversi aspetti che caratterizzano la condizione di Napoli nel periodo del governo
austriaco (popolazione, produzione, consumi, moneta, prezzi, finanze cittadine) è realizzata da R. ROMANO,
Napoli: dal Viceregno al Regno, Torino, Einaudi, 1976.
13
Tuttavia, essendo la monarchia austriaca impegnata in vaste campagne militari,
s’impone da subito la necessità di inasprire la politica fiscale in tutto il Viceregno. Solo con la
fine della guerra di successione spagnola nel 1714, il governo asburgico può progettare una
strategia economica programmatica e duratura.
Importanti riforme di portata generale vengono intraprese in ambiti diversi, quali
politica agraria, commerciale, portuale e universitaria, in relazione soprattutto alle richieste
del ceto civile; mentre, per contro, gli aristocratici si dimostrano molto più propensi a tutelare
esclusivamente interessi corporativi. Il fronte diventa, invece, unitario nel campo
ecclesiastico, allorché grandi polemiche scaturiscono dal dibattimento sui problemi
dell’immunità locale e sul diritto d’asilo in una nuova prospettiva di indipendenza
dall’influenza pontificia romana.
Agli inizi degli anni ‘20 la politica economica austriaca diviene più concreta nei suoi
obiettivi: riforma delle tariffe e regolamentazione delle dogane sono gli esempi più importanti
di questa volontà. Un limite evidente si rivela però nella sostanziale trascuratezza del settore
produttivo principale, quello agricolo. Infatti, alcuni buoni raccolti di quegli anni illudono
sulla procrastinabilità di interventi radicali unitamente ad una strategia austriaca a base dello
sviluppo che tende ad orientarsi verso altre finalità.
Intanto si fanno sempre più pressanti le influenze nobiliari che, grazie all’antica prassi
dei donativi, riescono a vanificare alcuni progetti rilevanti, come la numerazione dei fuochi o
la funzionalità del banco pubblico di S. Carlo, condizionando in maniera rilevante il buon
esito delle riforme.
Tra l’altro, il governo asburgico non appare capace di conquistare neppure il pieno
sostegno del ceto civile, per cui di fatto l’azione operativa che ne deriva si rivela circoscritta e
frammentaria, la politica del caso per caso.
In un simile contesto generale è interessante riflettere sulla circostanza della
costituzione pratica di un fronte unico anticurialistico, nel quale convergano forze ed interessi
diversi, in relazione ad una più estesa e omogenea sensibilità alla questione. La fonte di questa
maggiore omogeneità nella relativa avversione è da ricercare, infatti, nell’oggettività e nella
dimensione del condizionamento ecclesiastico sullo sviluppo meridionale, a differenza della
lotta antifeudale dove, viceversa, agiscono schieramenti molto più variegati e controversi a
causa dei rapporti che si intrecciano tra togati e baroni.
14
Una rete di interessi trasversali sempre più intricata che vanifica la politica riformistica
asburgica.5
Più positivo appare, invece, il giudizio sulla struttura amministrativa locale e sui
rapporti burocratici con il governo centrale attuati in questo periodo, perché verranno
sostanzialmente ripresi e mantenuti anche successivamente dai Borboni, nonché sul
contestuale rinnovamento culturale promosso anche investendo su tematiche piuttosto
pericolose, quali la base istituzionale della morale e della religione, e che continuerà per tutto
il Settecento.
Durante il governo austriaco, dunque, non mancano progetti riformistici importanti,
specie nel campo finanziario. La stessa politica imperiale assume un ruolo decisivo perché si
pone l’obiettivo di integrare Napoli nel vasto quadro politico ed economico dell’Impero, ma
la contemporanea condotta militare viennese fortemente esasperata, generando un fiscalismo
eccessivo, si ritorce contro le condizioni finanziarie del Viceregno.6
In questi anni, il bilancio pubblico napoletano si contraddistingue per un costante
deficit, in ordine ad uno squilibrio strutturale causato da un livello delle entrate inadeguato a
coprire quello delle uscite.
La fonte principale degli introiti è costituita dalle imposte dirette, cioè i pagamenti
fiscali, particolarmente onerosi per i ceti popolari, mentre le entrate indirette (dogane, gabelle,
sovraimposte, jus prohibendi, diritti da uffici e sigilli), pur avendo una base impositiva più
ampia, hanno un peso specifico molto limitato, considerato anche che buona parte di queste
sin dal 1649 sono oggetto di arrendamento, cioè di appalto a privati creditori dello Stato.
Le uscite statali sono rappresentate soprattutto dalle spese per la gestione economica
del Regno, cioè interessi passivi che si accumulano sul debito pubblico consolidato e servizi
vari per la burocrazia amministrativa, politica e giudiziaria, a cui si aggiunge un’ulteriore
rilevante componente negativa costituita dalla spesa militare per il potenziamento delle truppe
5
A questo proposito A. M. RAO (Il Regno di Napoli nel ‘700, Napoli, Guida, 1983, p. 54) afferma: “Le
esperienze di riforma tentate durante il Viceregno austriaco si conclusero dunque in maniera fallimentare, sia per
le resistenze locali, sia per l’ambiguità del riformismo asburgico, che ledeva interessi consolidati senza però al
tempo stesso lasciar intravedere sbocchi diversi da uno spietato fiscalismo.”
6
Cfr. A. DI VITTORIO, Crisi economica e riforme finanziarie nel Mezzogiorno dei primi decenni del XVIII
secolo, in La finanza pubblica in età di crisi, (a cura di) A. Di Vittorio, Bari, Cacucci, 1993, pp. 245-253, in cui
l’autore individua tre direttive fondamentali attraverso cui il governo asburgico tenta di sviluppare una politica di
riorganizzazione per il Mezzogiorno: l’avvio dal 1728 della ricompra dei fiscali con il Banco di S. Carlo,
15
dell’esercito, delle fortificazioni del Regno e della Marina da guerra. Esigui risultano, invece,
i fondi stanziati per le opere pubbliche, di carattere tipicamente civile (strade e ponti).
Il ruolo delle guerre austriache diviene, perciò, cruciale, perché da un lato esasperano
le finanze e la capacità contributiva dei napoletani, ma dall’altro, quasi paradossalmente, si
pongono come stimolo concreto per lo sviluppo produttivo del sistema economico
meridionale. Esse riflettono ciò che effettivamente accade a Napoli in questo periodo, dove
qualcosa si avvia, ma, rivelandosi troppo isolato e contingente, comporta risultati spesso
controversi.
In pratica viene a mancare una politica economica e finanziaria ampia e
programmatica che consenta trasformazioni e miglioramenti duraturi per avviare un vero
moto di crescita progressiva.7
Il governo austriaco, in definitiva, si dimostra incapace a promuovere nel Regno di
Napoli un processo di sviluppo vasto e generale. Gli sforzi riformistici risultano
concretamente limitati e disorganici, fortemente condizionati dalla presenza ingombrante
della Chiesa e dall’ascesa politica del ceto civile, che, eccessivamente chiuso in un
corporativismo di fatto, impedisce l’avvio di quelle necessarie evoluzioni sociali.
Occorrerà attendere un’ulteriore maturazione culturale. Ma, intanto, i cambiamenti
politici nell’Europa degli anni ‘30 costringono gli austriaci ad abbandonare il Regno di Napoli
e a riconsegnarlo agli spagnoli.
l’istituzione nel 1729 della Giunta dell’Università per il controllo della finanza locale e la numerazione dei
fuochi nel 1732 (mai utilizzata però ai fini fiscali).
7
Cfr. A. DI VITTORIO, Gli Austriaci e il Regno di Napoli 1707-1734. Le finanze pubbliche, Napoli, Giannini,
1969, pp. 103-297. L'autore valuta la politica finanziaria nel periodo del Viceregno austriaco approfondendo le
componenti principali del bilancio pubblico napoletano e operando un’opportuna riclassificazione secondo criteri
più “moderni”ai fini di una comprensione più esaustiva.
16
1.2 IL GOVERNO DEI BORBONI
L’avvento di Carlo di Borbone sul trono napoletano nel 1734 è direttamente legato
all’evoluzione negli equilibri tra le grandi potenze europee, all’interno di un quadro
internazionale in fermento dopo gli ultimi avvenimenti bellici. In particolare, sono la
questione della successione nella monarchia polacca e gli interessi contrari al consolidamento
dell’egemonia austriaca che portano il primogenito della regina di Spagna a diventare re di
Napoli.
Il Regno napoletano riacquista in questo modo la piena indipendenza, e una rinnovata
fiducia nella nuova casa regnante da parte della popolazione assurge a fondamento della
speranza che questo governo riesca a realizzare un cambiamento radicale delle generali
condizioni economico-sociali.
All’epoca del ritorno dei Borboni il contesto meridionale si presenta in condizioni
economiche non meno precarie di quelle in cui gli stessi spagnoli l’avevano lasciato,
aggravate inoltre da una politica finanziaria deficitaria a causa di un fiscalismo eccessivo sui
ceti meno abbienti, una cattiva amministrazione dei beni e delle entrate pubbliche, oberato da
un pesante e inutile apparato militare. Nonostante, nei primi decenni del Settecento, gli
austriaci abbiano cercato di intraprendere un’opera più organica e sistematica di
riordinamento amministrativo, tentativo rimasto inattuato per il repentino succedersi degli
eventi storici.8
L’unico settore dinamico appare quello delle lettere e delle scienze, ma piuttosto per
una casuale simultanea coesistenza di grandi uomini d’ingegno che non per una particolare
attenzione e cura da parte dell’amministrazione centrale.9
I primi anni del governo di Carlo III sono pertanto il riflesso di una criticità ereditata
che stimola importanti propositi riformistici.
Dopo un immediato periodo di assestamento vengono infatti varati i primi
significativi provvedimenti: la costituzione della Regia Camera di S. Chiara, che sostituisce il
8
Cfr. M. SCHIPA, Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone, Milano-Roma-Napoli, Albrighi, Segati e
C., 1923, vol. II, p. 92.
9
Un simile riscontro settoriale essenzialmente positivo nell’ambito delle generali condizioni di precarietà
all’arrivo di Carlo III si rileva in P. COLLETTA, Storia del Reame di Napoli dal 1734 sino al 1825, Capolago,
Elvetica, 1834, tomo I, pp. 59-93.
17
vecchio Consiglio di Stato, nonché l’istituzione della Soprintendenza d’Azienda e la
riorganizzazione delle quattro Segreterie (quella degli affari di Giustizia viene affidata a
Bernardo Tanucci, una figura di grande rilevanza nell’evoluzione del periodo borbonico),
mentre sul piano finanziario si procede alla revisione degli strumenti fiscali.10
Il nuovo sovrano, all’inizio, sembra riscontrare un consenso ampio e generalizzato,
perché tutti, sia i ceti più popolari che quelli privilegiati, vedono in lui il possibile strumento
per la rivendicazione o la riaffermazione delle proprie istanze di classe. Tuttavia è un
atteggiamento speculare e strategico, perché essendo gli interessati in forte contrapposizione,
nel momento in cui la politica governativa esternerà le proprie direttive, inevitabilmente, si
schiererà a favore di una parte e contro l’altra. E data la sostanziale incompatibilità delle
reciproche posizioni, non sarà certo realizzabile una politica che possa conciliare tutti gli
interessi.
I primi interventi concreti dimostrano una propensione governativa a favorire un
processo di cambiamento e di redistribuzione socio-economica all’interno del Regno,
accogliendo così le richieste delle classi meno abbienti, sfavorite fino a questo momento, e
predisponendo una strategia vigorosa in chiara antitesi ai poteri forti, Chiesa e baronaggio, sia
sul piano giurisdizionale che su quello fiscale.
L’atteggiamento antiecclesiastico trova un sostegno vasto in uno schieramento ormai
consolidato, e viene decisamente esasperato dal comportamento intransigente del pontefice
stesso che nega l’investitura del nuovo sovrano. La disputa che ne deriva irrigidisce il governo
in una ferma presa di posizione sulla necessità improrogabile di procedere ad un
rinnovamento che riguardi, prima di tutto, la materia fiscale. Viene perciò direttamente
attaccato il diritto di franchigia fiscale annesso alle patenti ecclesiastiche, che prevede una
serie di agevolazioni quali l’immunità fiscale, il diritto di essere giudicati dal foro
ecclesiastico nonché quello di portare armi. A questo si accompagna la negazione della
possibilità di costituire un proprio corpo di guardie armate, perché implicante
l’amministrazione di un territorio.
Nel contempo una serie di altri provvedimenti, come la riforma universitaria e le
concessioni a favore degli ebrei, sembrano tutti finalizzati a circoscrivere ancora di più l’area
di influenza curiale.
10
Cfr. I. ZILLI, Carlo di Borbone e la rinascita del Regno di Napoli, Napoli, E.S.I., 1990, p. 51.
18
Il Concordato del 1741 segna un evidente compromesso tra le due opposte posizioni
che hanno alimentato lo scontro. Fortemente caldeggiato dal Tanucci, esso rappresenta, in
ogni modo, una conquista sostanziale per la monarchia borbonica, poiché per la prima volta
viene stabilito il principio della tassazione dei beni ecclesiastici nella misura della metà delle
imposte dovute sui beni laici.11
Parallelamente, l’intento governativo di dare maggiore organicità all’ordinamento
giuridico del Regno, estende il conflitto alla materia giurisdizionale. Si tratta di voler
ricomporre la secolare frammentarietà che causa la coesistenza di soluzioni diverse per
numerose questioni di diritto positivo con relativi problemi di competenza e prevalenza.
In campo ecclesiastico la controversia maggiore concerne la questione dell’immunità
locale, che consente ai rei di ottenere protezione presso le sedi curiali con impossibilità per il
sovrano di far valere la propria autorità.
Questo principio, dai canonici considerato di istituzione divina, ha radicato nel tempo
prassi comportamentali molto discutibili, per cui i criminali perseguitati dall’autorità regia
sono pronti a commettere ulteriori reati che rientrino nella lista di accettazione ecclesiastica
pur di trovare asilo presso tali sedi dove, a volte, si stabiliscono definitivamente, potendovi
introdurre in pieno il proprio stile di vita.
Anche questa contesa si risolve con un compromesso che rappresenta comunque un
piccolo passo in avanti, poiché non potendo ottenere l’estrazione dei criminali, viene almeno
riconosciuta la possibilità di applicare una politica elastica con procedure e rimedi differenti a
seconda dei casi, e in particolare con l’eventualità di imprigionare in loco i rei.12
L’aspirazione all’organicità dell’ordinamento giuridico inevitabilmente allarga lo
scontro all’ambito feudale, dove il proliferare incontrastato di situazioni particolaristiche è
fonte dei maggiori arbitri e ingiustizie.
L’intera questione viene appunto inserita in un quadro sistematico di rinnovamento
giudiziario e legislativo, di cui le due prammatiche del 1738 rappresentano il tentativo più
concreto.
11
Cfr. A. M. RAO, Il Regno..., cit., p. 66.
12
L’inquadramento storico e giuridico della questione della riforma legislativa nel Regno di Napoli è opera di R.
AJELLO, Il problema della riforma giudiziaria e legislativa nel Regno di Napoli durante la prima metà del
secolo XVIII, Napoli, Jovene, 1968, il quale dedica una parte (pp. 22-72) specificatamente all’analisi degli
strumenti normativi e delle implicazioni sociali nell’ambito della giurisdizione ecclesiastica.