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INTRODUZIONE
Parlare di cinema e più in generale degli audiovisivi nel XXI
secolo è ormai divenuta una prassi quotidiana: siamo
continuamente bombardati da immagini di tutti i tipi e di
conseguenza non possiamo fare a meno di chiederci cosa stiamo
vedendo e soprattutto il perché.
La maggior parte delle persone si è ormai assuefatta e abituata al
concetto che bisogna apparire sullo schermo per essere qualcuno,
per essere un “vero” cittadino di questa società videocratica. In
poche parole tutti vogliono essere protagonisti. L’essere
unicamente spettatori è diventato quasi un insulto, un sinonimo
di fallimento. I quindici minuti di cui parlava Andy Warhol non
bastano più a saziare la fame mediatica della cosiddetta gente
comune.
Quello che voglio dire è che si sta lentamente perdendo
l’importanza dell’esperienza spettatoriale e del “subire” le
immagini rispetto al farne parte. Vedere un film o un altro
prodotto audiovisivo non significa essere escluso o separato da
esso: lo spettatore è l’ultimo ma fondamentale anello dell’intero
processo creativo e produttivo. Ogni film, ogni immagine
contiene nel suo farsi un destinatario ideale a cui si rivolge. Senza
quest’ultimo il messaggio del mittente cade nel vuoto e rende
tutto vano. E’ per questo che ho scelto di analizzare il film di Tim
Burton Ed Wood, perché è uno di quei film che ribadisce il valore
della presenza di un uomo davanti ad uno schermo. Quando
penso a questo film e più in generale al cinema in sé, mi viene in
mente l’immagine della scultura di Antonio Canova Amore e Psiche
conservata al Louvre in cui due figure sono in procinto di
abbracciarsi e baciarsi formando un cerchio con le loro braccia.
Ecco, per me questo abbraccio tra Amore (aspetto emozionale) e
Psiche (aspetto spirituale) è lo stesso che si consuma tra il film e il
suo spettatore. Coloro che fanno film pensano continuamente a
coloro che li guarderanno e li giudicheranno (basti pensare
4
semplicemente al film blockbuster che viene concepito in ogni
sua parte per allietare il pubblico). Questo concetto nel film di
Burton è reso ancora più forte dal fatto che è un film su di un
uomo che realizza film ma che allo stesso tempo rimane incantato
nel guardarli. Insomma Ed Wood è come se fosse nello stesso
tempo il regista e lo spettatore dei suoi film. Ed è proprio
l’esserne spettatore partecipe che gli permette di affrontare con
entusiasmo e determinazione la fase registica e produttiva. In Ed
Wood da una parte viene narrata la storia di questo personaggio
così come è conosciuto cioè come l’autore di film raffazzonati e
inconcludenti, dall’altra parte ci viene mostrata tramite le sole
immagini, i puri e semplici fotogrammi una sorta di contro-storia
del medesimo personaggio cioè quella di un uomo vittima del
fascino del cinema.
Vedere il film Ed Wood diventa quindi un’esperienza riflessiva sul
cinema, sulla sua importanza emozionale quasi spirituale:
realizzare un film o semplicemente esserne spettatore diventa un
modo per le persone di comunicare con altre persone, siano esse
lontane geograficamente oppure frutto della fantasia.
Come si evince dal titolo della mia tesi, vorrei dimostrare come
nel film di Burton sia centrale la figura dello spettatore, inteso sia
come colui a cui è destinato il film sia come colui che ne è
protagonista. Avvalendomi degli studi sullo spettatore e
sull’enunciazione di Francesco Casetti, Gianfranco Bettetini e
Christian Metz, vado ad analizzare le inquadrature e scene del
film dove a mio avviso è riscontrabile, sul piano enunciativo o su
quello della composizione interna dell’inquadratura, l’appello
diretto al destinatario della pellicola. Una volta terminata l’analisi
seguendo le direttive di questi studiosi, cercherò di addentrarmi
ancora di più in Ed Wood inseguendo un nuovo “bianconiglio”
questa volta più legato ad un aspetto metaforico e simbolico. Mi
riferisco alla tematica dell’uomo-ostrica puramente burtoniana e
legata alla sua intera filmografia. L’uomo-ostrica è un personaggio
isolato dagli altri a causa del suo guscio il quale a volte lo aiuta a
5
difendersi dagli attacchi esterni ma altre volte gli impedisce di
instaurare dei rapporti affettivi con altri individui. Dai vari
tentativi di uscire da questo guscio, nascono le varie storie dei
personaggi dei film di Tim Burton, sempre in bilico tra il
chiudersi in se stessi e l’aprirsi agli altri. Anche Ed Wood, che al
contrario degli altri personaggi burtoniani è realmente esistito,
non sfugge a questa tematica. Nel suo caso, egli tenta di uscire
dalla sua conchiglia correndo tutti i rischi (ma anche i vantaggi)
che esso comporta.
Una volta aver ripercorso di nuovo il film soffermandomi su
inquadrature e scene che mettano in luce questo tema burtoniano,
dedico l’ultimo paragrafo della tesi a colui che ha ispirato tutti
questi miei ragionamenti (e magari sproloqui) su Ed Wood e cioè
Roland Barthes e il suo senso ottuso. Per Barthes stesso è difficile
definire cosa sia questo senso ottuso o terzo senso in quanto è
qualcosa che sfugge al linguaggio e ad ogni gabbia descrittiva. Si
può solo dire che è qualcosa legato all’ambito dell’emozione e
della passione verso un qualcosa che si ama a prescindere da ogni
valutazione razionale o obiettiva. Essendo il senso ottuso legato al
travestimento, all’eccesso, al dettaglio, alla bellezza che è un
tutt’uno con il ridicolo, ho subito ricollegato il tutto con Ed Wood.
Ed Wood per me è tutto questo: spettatore, ostrica, senso ottuso.
In altre parole è un dono che uno spettatore (Tim Burton) fa ad
altri spettatori mostrando come non ci sia poi tanta differenza tra
chi fa il film e chi li guarda, in quanto fanno tutti e due parte della
medesima visione, del medesimo processo creativo che ha bisogno
di un mittente ma anche di un destinatario.
La mia tesi inizia con una premessa metodologica in cui affronto
sia colui che mi ha ispirato, e cioè Roland Barthes e il senso ottuso,
sia il dibattito sull’enunciazione e sullo spettatore da parte di
Gianfranco Bettetini, Francesco Casetti e Christian Metz in modo
da avere chiari gli strumenti analitici di cui mi servirò nella parte
di analisi della tesi.
6
Il primo capitolo è invece di carattere storico ed è dedicato
all’autore del film, Tim Burton, e al suo protagonista, Edward D.
Wood Jr., dei quali vado a ripercorrere la biografia e la
filmografia. Dopo aver contestualizzato Burton nell’ambito del
più vasto fenomeno del cinema postmoderno, contestualizzerò
anche Wood inserendolo nell’ambito del cinema di fantascienza
degli anni ’50. Tratteggiando a grandi linee questo periodo, mi
soffermerò brevemente su un particolare personaggio che vado a
collegare a Burton e Wood: sto parlando di Roger Corman. Il
cinema di Corman presenta caratteristiche simili a quello di Wood
come la velocità delle riprese e l’economia sui costi di
produzione, ma riscuote, al contrario dei film woodiani, un
grande successo di pubblico. Sono stati inoltre i film di Corman a
inculcare nel piccolo Burton l’amore per il cinema. Non ho
resistito quindi alla tentazione di inserire anche Corman nel mio
discorso su Burton e Wood per sottolineare ancora una volta che
è solo a partire dal grande amore che questi cineasti provano per
il cinema in veste di spettatori che poi nascono i loro film, a
prescindere se essi siano degli insuccessi o dei capolavori.
Infine, il secondo e ultimo capitolo, in cui vanno a convergere
l’approccio analitico della premessa e quello storico del primo
capitolo, si concentrerà sull’analisi del film e delle sue
inquadrature per far emergere la figura dello spettatore, la
tematica dell’uomo-ostrica e il senso ottuso.
Ora non resta che augurarvi buona lettura e chiedervi di leggere
questa tesi come un tentativo da parte di una spettatrice di
abbracciare un film che ha tanto amato!
7
PREMESSA METODOLOGICA
La mia tesi prende spunto dall’intervento del semiologo Roland
Barthes dal titolo Le troisième sens pubblicato sul numero 222 dei
Cahiers du cinéma nel 1970 in cui egli rivede la sua posizione nei
confronti dell’analisi di un testo espressa in varie opere, come
Eléments de sémiologie
1
(1966): esso non si può ridurre a un insieme
ordinato di segni le cui relazioni sono perfettamente spiegabili ma
diventa un luogo di incontro e scontro di forze quasi misteriose e
non riducibili a un sistema prestabilito.
Analizzando un fotogramma di Ivan Groznij (di Sergej M.
Ejzenstejn, 1944, Urss) in cui due cortigiani versano una pioggia
d’oro sulla testa dello zar durante la cerimonia della sua
incoronazione, Roland Barthes vi individua tre diversi livelli di
senso. Il primo è il «livello informativo, in cui si condensa tutta la
conoscenza che mi forniscono lo scenario, i costumi, i
personaggi, i loro rapporti, la loro inserzione in un aneddoto che
conosco. Questo è il livello della comunicazione»
2
della cui analisi
possono essere considerate un valido aiuto le scienze del
“messaggio” come la prima semiotica.
Il secondo è il “livello simbolico” del quale si occupano le scienze
del simbolico: seconda semiotica, psicanalisi, drammaturgia, etc.
1
In quest’opera Roland Barthes delinea appunto gli elementi della semiologia
dividendoli in quattro grandi sezioni, che traggono origine dalla linguistica
strutturale: Lingua e Parola, Significato e Significante, Sintagma e Sistema, Denotazione e
Connotazione. Il suo discorso prende avvio dalla definizione di semiologia: essa è
la scienza generale dei segni, come aveva affermato per la prima volta nel suo
Cours de Linguistique Générale Ferdinand de Saussure, ed ha per oggetto di studio
tutti i sistemi di segni (immagini, abbigliamento, gesti, suoni melodici)
considerandoli come dei “linguaggi” o dei sistemi di significazione. Ma su un
punto fondamentale Roland Barthes si discosta dal “padre” della semiologia:
non è la linguistica a far parte della semiologia ma, viceversa, è la semiologia
una parte della linguistica e, più specificatamente, quella parte che si occupa
delle grandi unità significanti del discorso.
2
Roland Barthes, Sul cinema, il Nuovo Melangolo, Genova 1994, p. 115.
8
Roland Barthes definisce questo livello come più complesso
rispetto al precedente:
Un livello simbolico: è l’oro versato. Questo livello è a sua volta stratificato.
C’è il simbolismo referenziale: il rituale imperiale del battesimo mediante
l’oro. Vi è poi il simbolismo diegetico: è il tema dell’oro, della ricchezza. Vi è
ancora il simbolismo ejzenstejniano – un critico potrebbe scoprire che l’oro,
la pioggia, oppure la tenda, la figurazione, possono venire accolti in una rete
di spostamenti e di sostituzioni, propria di Ejzenstejn. Vi è infine un
simbolismo storico. Questo secondo livello, nel suo insieme, è quello della
significazione
3
.
Sembrerebbe tutto finito eppure, afferma Roland Barthes, c’è
ancora qualcosa che non gli permette di “staccarsi
dall’immagine”…ed ecco spuntare un terzo livello, più difficile da
individuare e da definire, eppure «evidente, erratico, ostinato»
4
.
Ignoro quale sia il suo significato, quantomeno non riesco a esprimerlo, ma
vedo con chiarezza i tratti, le accidentalità significanti di cui questo segno,
fin dall’inizio, è composto: una certa compattezza del belletto dei cortigiani,
spesso, calcato, oppure liscio, distinto; il naso “stupido” di uno, il disegno
fine dei sopraccigli di un altro, il suo biondo slavato, la sua carnagione
bianca e vizza, la piattezza curata della sua acconciatura, che tradisce il
posticcio, il raccordo sullo sfondo della carnagione gessosa alla polvere di
riso
5
.
In opposizione ai primi due livelli, in particolare al senso
simbolico che si potrebbe chiamare ovvio (dal latino obvius: ciò che
mi viene incontro), questo terzo senso può essere chiamato ottuso
(dal latino obtustus: ciò che è smussato, di forma arrotondata) sia
perché è più grande degli altri sia perché è al di fuori del sensato e
del misurabile. Questo senso insomma è qualcosa di eccessivo o
di eccedente e il suo ambito è quello della significanza.
3
Ivi, p. 116.
4
Ibidem.
5
Ivi, pp. 116-117.
9
Soffermiamoci un momento sul senso ovvio e vediamo come
viene tratteggiato:
E’ un senso che mi cerca, in quanto destinatario del messaggio, soggetto
della lettura, un senso che parte da Ejzenstejn e che viene incontro a me:
evidente, senza dubbio, ma di un’evidenza chiusa, presa in un sistema
completo di destinazione
6
.
Il senso ottuso invece «appartiene alla razza dei giochi di parole,
delle buffonerie, delle spese inutili; indifferente alle categorie
morali o estetiche (il triviale, il futile, il posticcio e il pasticcio), sta
dalla parte del carnevale»
7
. Infatti nasce spesso dal travestimento
di uno o più personaggi: in particolare da quei travestimenti che
seppur evidenti non cessano d’attirare l’attenzione. Come la cuffia
calcata eccessivamente sulla fronte della vecchia donna nel
fotogramma di Ivan Groznij che ha convinto definitivamente
Roland Barthes di questo terzo senso o il pizzo puntuto di Ivan
in un’altra immagine del medesimo film.
Il posticcio ejzenstejniano è nello stesso tempo il posticcio di se stesso, cioè
pasticcio, e feticcio derisorio, poiché lascia vedere il suo taglio e la sua
sutura
8
.
Riguardo la sfera dell’erotismo, il senso ottuso «nasce sia dalla
folgorazione della bellezza, sia dal suo contrario, cioè dal laido e
dal ridicolo, sia infine da qualcosa d’altro ancora, cioè dal disagio
e forse dal sadismo.[…]Ciò che caratterizza il senso ottuso allora
è la sua capacità di indicare qualcosa di coinvolgente, di toccante,
di sensibile: il suo primo dominio è quello dell’emozione»
9
.
Credo che il senso ottuso esprima una certa emozione, presa nel
travestimento, quest’emozione non è mai appiccicosa; è un’emozione che
6
Ivi, p. 117.
7
Ivi, p. 118.
8
Ivi, p. 123.
9
Francesco Casetti, Teorie del cinema, Bompiani, Milano 1993, p. 228.
10
designa semplicemente quello che si ama, che si vuole difendere; è
un’emozione-valore, una valutazione
10
.
Esso non appartiene all’ordine del linguaggio articolato («se lo si
elimina, la comunicazione e la significazione restano, circolano,
passano»
11
), ma piuttosto a quello dell’interlocuzione: coinvolge il
rapporto che si instaura tra immagine e osservatore «alle spalle del
linguaggio»
12
.
«Il senso ottuso è un significante senza significato; donde la
difficoltà di nominarlo»
13
. «E’ un supplemento che si aggiunge a un
gioco di per sé autosufficiente, e cui non di meno l’osservatore si
appoggia per entrare in relazione con quanto sta osservando»
14
.
Il significante (il terzo senso) non si riempie; esso si trova in uno stato
permanente di deplezione (termine della linguistica, che designa i verbi vuoti,
polivalenti, come ad esempio in francese il verbo faire). Si potrebbe dire
allora, con un capovolgimento che sarebbe altrettanto corretto, che questo
stesso significante non si vuota (non arriva a vuotarsi); si mantiene in uno
stato di eretismo perpetuo; in esso il desiderio non giunge fino a quello
spasmo del significato, che, di solito, fa ricadere il soggetto voluttuosamente
nella pace delle nominazioni. Infine il senso ottuso può essere visto come un
accento, come la forma stessa di un’emergenza, di una piega (o meglio di una
falsa piega), che contrassegna il pesante strato delle informazioni e delle
significazioni. Se potesse venir descritto (contraddizione nei termini),
avrebbe la stessa proprietà del haiku giapponese: gesto anaforico senza
contenuto significativo, specie di sfregio da cui è rigato il senso (la voglia di
senso)
15
.
L’eccessività si nota soprattutto rispetto al racconto: esso è
indifferente alla storia narrata ed è vuoto di informazioni proprie.
10
Roland Barthes, Sul cinema, cit., p. 123.
11
Ivi, p. 125.
12
Ivi, p. 128.
13
Ivi, p. 127.
14
Francesco Casetti, Teorie del cinema, cit., p. 229.
15
Roland Barthes, Sul cinema, cit., pp. 128-129.
11
Il senso ottuso è la contro-storia stessa; disseminata, reversibile, strettamente
legata alla propria durata; è destinato a fondare (se lo si segue) una
segmentazione totalmente diversa da quella dei piani, delle sequenze e dei
sintagmi (tecnici o narrativi): una segmentazione inedita, contro-logica e
tuttavia “vera”
16
.
In realtà è l’idea stessa di rappresentazione ad essere messa in
causa in quanto «da un lato è costretta a riconoscere il gioco
concreto che la sottende, dall’altra è costretta a sporgersi oltre se
stessa, per trovare altrove, in uno sguardo che la ripercorre, la sua
vera ragione di vita»
17
.
“Le trosième sens” infine conduce al cuore stesso del “filmico”
inteso come «la qualità che fa di una pellicola un oggetto singolare
(nell’accezione sia di unico che di anomalo)»
18
rivelandosi essere
un’apertura a un’utopia qual è quella di «una rappresentazione che
non può venir rappresentata»
19
.
Il terzo senso, che si può situare teoricamente ma non descrivere, appare
allora come il passaggio dal linguaggio alla significanza, e l’atto fondatore del
filmico stesso
20
.
Roland Barthes conclude poi il suo intervento soffermandosi sul
fotogramma, inteso come luogo d’elezione dell’epifania del
filmico il quale «paradossalmente, non può essere colto nel film
“in situazione”, “in movimento”, “al naturale”, ma solamente,
ancora, in quell’artefatto maggiore che è il fotogramma»
21
.
Con la mia tesi vorrei dimostrare come nel film di Tim Burton Ed
Wood il senso ottuso (o coinvolgimento emotivo, come dir si
voglia) viene a parer mio suscitato dal fatto di assistere alla storia
16
Ivi, pp.129-130.
17
Francesco Casetti, Teorie del cinema, cit., p. 230.
18
Ibidem.
19
Roland Barthes, Sul cinema, cit., p. 131.
20
Ibidem.
21
Ivi, p. 132.
12
di qualcuno che è a sua volta vittima di questo famigerato senso
ottuso e cioè Ed Wood, il protagonista del film.
Quello che noi proviamo nei confronti del film è lo stesso
sentimento che prova Ed di fronte a ciò che ha davanti a lui e in
particolare di fronte a Bela Lugosi. Il suo stupore e la sua
contentezza di conoscere Lugosi e di lavorare con lui è quella di
uno spettatore che si ritrova a incontrare e a camminare con un
personaggio visto al cinema, con un’ombra proiettata su di un
telo. Alla storia di Ed Wood come peggior regista del mondo, fa
quindi da controcanto quella di lui come miglior spettatore del
mondo.
Scopo della mia tesi sarebbe quello di esaminare come un testo
filmico, il suo emittente e il suo destinatario vadano a intrecciarsi
tra loro alla ricerca di un “abbraccio cinematografico” che sia più
reale della realtà proprio perché virtuale.
Prendendo avvio da Roland Barthes e agganciandomi alle
domande che Francesco Casetti pone nella premessa del suo libro
Dentro lo sguardo: «In che modo il film tiene conto del suo
spettatore? Come ne anticipa i tratti e il profilo? In che misura
confessa di averne bisogno? E fino a che punto se ne assume la
guida?»
22
, affronterò il dibattito sull’enunciazione cinematografica
e sullo spettatore in quanto come afferma Francesco Casetti:
Ogni analisi dello spettatore non può che iniziare dall’attimo in cui il film
prende letteralmente consistenza: riempiendo di sé lo schermo, esso subito
vi si porta in superficie, incontro a quegli occhi e a quelle orecchie che sta
chiamando a ripercorrere le immagini e i suoni
23
.
Gli anni settanta-ottanta vedono una revisione del concetto stesso
di rappresentazione in cui riemergono questioni mai del tutto
22
Francesco Casetti, Dentro lo sguardo. Il film e il suo spettatore, Bompiani, Milano
1986, p. 7.
23
Ivi, p. 142.
13
rimosse riguardo cosa sia un film, chi lo realizza e a chi è
destinato.
Esemplare di questo nuovo spirito interrogativo è un saggio di
Jacques Aumont che, all’inizio degli anni ottanta, parla del sistema
di rappresentazione alla base dell’immagine filmica e della
costruzione dello spazio in cui si svolge l’azione. Quest’ultimo è,
secondo Aumont, costituito sia da un “al di qua” cioè dai colori,
la luce, le forme, sia da un “al di là” cioè dagli effetti che sortisce
sullo spettatore.
L’analisi di un film deve quindi sempre tener conto di queste due
dimensioni che vanno a interagire tra loro usando lo schermo
come ponte.
Francesco Casetti nel quindicesimo capitolo del libro Teorie del
cinema individua tre grandi rami di indagine sulla
rappresentazione:
Il primo fa appello ai meccanismi costitutivi del testo filmico: per capire cosa
è la (una) rappresentazione bisogna esaminare come le immagini e i suoni
arrivano letteralmente a formarsi. Il secondo mette al centro dell’attenzione
l’attività cognitiva dello spettatore: per capire che cosa è la (una)
rappresentazione bisogna entrare nella mente di coloro che di fatto la
(ri)costruiscono. Il terzo pone l’accento sui processi sociali di produzione del
senso: per capire che cosa è la (una) rappresentazione, bisogna vedere come
una società dà dei significati ai prodotti che vi circolano. Il primo si riallaccia
alla semiotica e al suo interesse per il testo. Il secondo alla psicologia
cognitiva e alla sua attenzione per i meccanismi di percezione e
comprensione del film. Il terzo alla pragmatica e al suo tentativo di esplorare
le relazioni tra il testo e lo spazio sociale
24
.
Ad interessarci in particolare è il primo gruppo di studio cioè
quello che affronta i meccanismi dell’enunciazione.
E’ la seconda semiotica a volgere nello specifico la sua attenzione
all’enunciazione cioè a «quelle operazioni linguistiche che danno
letteralmente vita a un testo»
25
passando da una virtualità a una
24
Francesco Casetti, Teorie del cinema, cit., p. 263.
25
Ibidem.
14
manifestazione, «nel nostro caso designa ciò che consente a un
film, a partire dalle potenzialità insite nel cinema, di prender
forma e di palesarsi»
26
.
L’enunciazione filmica quindi è un testo manifestato prodotto
“da qualcuno verso qualcuno” che va a instaurare una vera e
propria conversazione audiovisiva con il suo destinatario.
La conversazione audiovisiva è di fatti il titolo del libro di Gianfranco
Bettetini del 1984 in cui lo studioso adotta l’idea che durante un
film si attui una vera e propria conversazione simulata tra
l’enunciatore e l’enunciatario, cioè le protesi simboliche
rispettivamente dell’autore e dello spettatore.
Il corpo dello spettatore interagisce con una produzione simbolica,
immateriale e fantasmatica, ma dotata di un’elevata carica illusoria. Fra il
contenuto dell’immagine audiovisiva e l’occhio e l’orecchio dello spettatore
si realizza una spazialità “vuota”, un luogo che lo spettatore è spinto a
riempire e a formare dal suo stesso ruolo nello scambio comunicativo. […]
Sollecitato sensorialmente da una messa in scena simbolica, lo spettatore
reagisce a sua volta per mezzo di una produzione simbolica, per mezzo di
una messa in scena che trova in quello spazio vuoto il luogo della sua
realizzazione
27
.
Secondo Gianfranco Bettetini lo spettatore cinematografico
risponde alla mancanza di corporeità della materia significante
esibita ai suoi occhi con una sua altrettanta dematerializzazione:
Si può dire che il corpo dello spettatore “allunghi” la sua azione
costruendosi un “altro” di natura simbolica, costruendosi una vera e propria
protesi simbolica. […] Non potendo “sentire” completamente quel mondo,
(lo spettatore) entra in contatto simbolico con i suoi fantasmi e con la loro
organizzazione semiotica, adeguando la sua protesi alle forme del corpo
26
Ibidem.
27
Gianfranco Bettetini, La conversazione audiovisiva. Problemi dell’enunciazione filmica
e televisiva Bompiani, Milano 1984, pp. 25-26.
15
simbolico che li ha prodotti (quelli del soggetto enunciatore), eventualmente
attraverso la mediazione del soggetto enunciatario
28
.
Lo spettatore quindi costruisce un proprio fantasma per poter
“conversare” con quello dell’enunciazione filmica.
Un testo filmico o televisivo non implica, al livello dell’esercizio di massa,
alcuna possibilità di conversazione paritetica tra emittente e recettore, nel
senso che l’uso assegna al termine “conversazione” nel rapporto
interpersonale. Ciononostante, ogni testo audiovisivo prevede lo
svolgimento di un’azione di approccio alle sue forme significanti da parte
dello spettatore e contiene dentro di sé elementi concreti per guidarla e
indirizzarla: si potrebbe dire che è costruito perché il recettore “versi” se
stesso nel modo previsto dal progetto comunicativo sui segni del testo e,
quindi, in un certo senso, “con-versi” con il testo. Lo spettatore, poi, si trova
al centro di due manifestazioni progettuali: quella immanente al testo e
quella che lui stesso si costruisce, anche durante il rapporto con il testo; si
potrebbe dire che agisce affinchè il testo si “versi” sulla sua disponibilità
recettiva e, quindi, “con-versi” con lui
29
.
Il soggetto recettore empirico può conversare con il testo in due
modi: “assistendo” o “partecipando”.
Nel caso dell’ assistenza: «lo spettatore rimane all’esterno del testo
e assiste alla conversazione simbolica messa in scena dal testo
stesso tra enunciatore ed enunciatario.[…]L’elemento qualificante
sta proprio nella “estraneità” del suo sguardo ai materiali
significanti del testo e nella sua rinuncia al gioco dialogico che la
struttura enunciatore-enunciatario gli propone. Il dialogo al quale
assiste è consumato da figure simboliche con le quali non
intrattiene alcun rapporto di interazione»
30
.
28
Ivi, p. 27.
29
Ivi, p. 99.
30
Ivi, p. 102.