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CAPITOLO I. LA RAPPRESENTAZIONE NELL’AMBITO SOCIOLOGICO
Il concetto di alterità costituisce un passaggio fondamentale in rapporto alla comprensione dei
processi di costruzione dell’immagine dell’Altro, sia a livello verbale che a livello iconico.
L’idea che si possiede dell’Altro è strettamente legata ad un’idea del Noi ed è ormai
inevitabile riconoscere come l’altro sia in realtà colui che incarna i nostri aspetti più desiderati,
colui che realizza quei comportamenti proibiti all’interno di un contesto sociale considerato
“civile”.
Il rapporto con l’Altro è quindi importante per arrivare ad una definizione del sé, del Noi. Il
metodo di paragone Noi-Loro può essere rappresentato come il primo modo attraverso cui
l’individuo si è rapportato con un altro individuo, percepito come un non-simile.
Il concetto di differenza si trova quindi alla base di questo rapporto e costituisce il primo
elemento di una catena di concetti scelti e presentati qui, in riferimento allo scopo dello studio.
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I.1 Il valore della differenza all’interno della società occidentale
La percezione dell’uomo nei confronti del mondo circostante si è generalmente basata su un
elemento a prima vista naturale: la differenza. Ancor prima che si delineasse un panorama
sociale ampio e vario, così come noi oggi lo viviamo e vediamo, la differenza costituiva un
importante elemento di definizione sociale. Da sempre, infatti, ciò che appariva lontano da se
stessi e dalle proprie abitudini è stato oggetto della volontà di definire queste differenze e,
possibilmente, di lasciarle al di fuori della propria quotidianità.
L’importanza data alla differenza è dovuta solo a questa tendenza verso la categorizzazione?
Sicuramente la differenza costituisce un qualcosa di irriducibile. La sua esistenza è funzionale
alla comprensione di tutto ciò che circonda l’uomo. In realtà, il perché la differenza abbia un
impatto così forte prevede una risposta molto ampia e, come suggerisce S. Hall (1997),
possiamo individuare, negli ultimi anni, quattro contributi teorici molto importanti, che
argomentano questo concetto in riferimento al rapporto con il suo significato.
Il primo di questi proviene dalla linguistica: partendo dal presupposto che il significato è
relazionale, ciò che porta alla sua costruzione e definizione risiede nella differenza tra A e B.
In questo modo la diversità del mondo viene evidenziata come compresa tra due estremi, senza
sviluppare la possibilità di concettualizzare l’esistenza di un qualcosa che occupi posizioni
intermedie.
Il rapporto tra differenza e significato viene evidenziato però anche attraverso un diverso
punto di vista: un tipo di approccio linguistico più vicino a Bachtin che non a de Saussure,
identifica la differenza come un elemento indispensabile in quanto il significato risulta essere
costruibile solo attraverso un dialogo con l’altro. Il presupposto per questa visione risiede
perciò nel fatto che il significato sia un elemento dialogico e che venga modificato ogni qual
volta si instauri un’interazione con un’altro individuo. Ecco quindi perché l’Altro, ciò che è
differente, risulta indispensabile ai fini del significato.
Se pensiamo in particolare all’esistenza di un significato inteso come culturale, così come
proprio dell’antropologia, la differenza diventa il criterio di un processo adottato dal gruppo
sociale avente lo scopo di creare un ordine simbolico entro cui ogni elemento ha un significato
definito e univoco. In particolare, secondo M. Douglas, questo sistema classificatorio si basa
sull’opposizione binaria, quindi sull’esistenza del concetto di differenza (1996).
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Anche Freud contribuisce a questa riflessione: secondo l’approccio psicanalitico, l’Altro è
fondamentale per la costituzione del sé, per noi come soggetti, per il significato (o meglio, la
costruzione del significato) della nostra identità sessuale.
I.2 Lo stereotipo
La tendenza dell’uomo, così come abbiamo visto anche nei riferimenti sopra indicati, consiste
nel classificare, nel dare un orientamento, nel controllare l’ambiente circostante e nel
mantenere quest’ordine il più costante e protetto possibile.
Non si può certo pensare che questo tipo di atteggiamento non abbia avuto alcuna
ripercussione sul mondo odierno. Ancora oggi siamo immersi in una concezione orientata in
questo senso ed è proprio a partire da questa che si sviluppano le metodologie atte a
rappresentarci quello che è, ancora una volta, l’Altro, diverso e quindi spesso destinato a
rimanere imprigionato in questa sua unica definizione.
Il nostro pensiero e il nostro modo di esprimerci sono ancora oggi mezzo di espressione di tali
tendenze e lo strumento attraverso cui si sono maggiormente concretizzate è quello dello
stereotipo. Infatti, lo stesso S. Hall (1997) individua nello stereotipo un regime razziale di
rappresentazione.
Possiamo inizialmente definire lo stereotipo come un significante che riduce il suo significato
a pochi elementi essenziali, fissati in Natura attraverso caratteristiche minime semplificate.
Già in questa breve definizione si evidenziano alcuni elementi utili per il nostro scopo:
“ridurre”, “elemento essenziale”, “fissato in Natura”, “caratteristica semplificata”. Se questa
terminologia venisse decontestualizzata e isolata, risulterebbe immediatamente chiaro il suo
carattere arbitrario a priori, costruito e determinato dalla volontà di chi la sostiene. Lo
stereotipo, in riferimento all’ambito che viene preso qui in considerazione, implica una
strategia di divisione: divide il normale da ciò che non lo è ed esclude tutto ciò che è diverso
(S. Hall, 1997). Quindi essenzializza, naturalizza e fissa la differenza.
Riuscire ad identificare il processo alla base della costruzione di uno stereotipo è necessario
per comprendere un altro fenomeno, non solo linguistico, che si è creato nel corso
dell’evoluzione (involuzione) del rapporto con l’alterità: il razzismo.
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I.3 Il pregiudizio
Prima di affrontare un qualsiasi discorso sul razzismo è indispensabile però rendersi prima
conto che anche pregiudizio e razza sono due fattori da valutare molto attentamente, poiché è
soprattutto attraverso il loro sviluppo che il razzismo si è espresso così come la nostra storia lo
ha vissuto.
Se immaginiamo un ipotetico sistema di cerchi concentrici, il nostro nucleo è costituito dalla
categoria, lo stereotipo è ciò che la ingloba (riducendo però in questo modo le caratteristiche
proprie di un individuo) e il pregiudizio è l’espansione estrema di questa visione. Infatti, il
pregiudizio non si limita ad ampliare le connotazioni riguardo delle caratteristiche predefinite
(tendenzialmente di tipo morale), ma amplia anche il target a cui si rivolge. L’elemento di
riferimento non è più un singolo individuo che appare corrispondere a determinate
caratteristiche tipologiche, ma è un gruppo di individui omogeneo. Anche in questo caso si
assiste indubbiamente ad un processo di espansione, il quale però avviene in senso negativo:
l’individuo risulta avere contorni sempre più sfumati, inglobati in una visione negativa e
duratura (B. M. Mazzara, 1997)
Il pregiudizio può avere un impatto più o meno forte. Colui che fa corrispondere in larga
misura o totalmente, anche se magari in modo involontario, le proprie opinioni ai pregiudizi,
subisce gli effetti di questo stesso processo: osserva in modo omogeneo, connota in modo
negativo e si rivela incapace di qualificare ogni singolo individuo indipendentemente dalla
casella mentale in cui è stato inserito fin da subito.
L’effetto di questa forma di rappresentazione non si rivela solo a livello comportamentale, ma
anche, se non soprattutto, a livello linguistico (in realtà, non ne è solo l’effetto ma anche la
causa). Come si vedrà successivamente, il presupporre che testata giornalistica e readership
siano concordi nel definire secondo canoni predeterminati l’altro, permette di raccontare
avvenimenti o di riportare discorsi attraverso un vocabolario e immagini linguistiche in grado
di dimostrare la realtà e veridicità degli stessi presupposti. Si elimina quindi completamente la
possibilità di far sorgere dei dubbi, almeno per ciò che rientra in queste categorie condivise.
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I.4 Il concetto di razza
Una visione limitata nei confronti di un individuo “diverso” è stata contemporaneamente frutto
e punto di partenza di un ampio discorso scientifico riguardante la razza. Fin dai primi
momenti storici in cui l’uomo si è trovato ad affrontare un concreto discorso con l’alterità, la
superiorità del conquistatore non dipendeva solo strettamente dalla sua personalità, ma anche,
se non soprattutto dalla sua appartenenza, da ciò che noi oggi definiremmo “nazionalità”.
Questo carattere geografico si rivela infatti fondamentale nel condurre l’uomo ad avere un
atteggiamento razzista e costituisce un elemento affrontato in modo particolare da Renate
Siebert (2003).
Il senso del vedere è un senso comunemente considerato oggettivo, e in modo oggettivo si è
sempre visto che gli indios così come gli africani hanno caratteristiche fisiche diverse da
quelle di chi li “scopre” ed “educa”. Ecco allora che, durante tutti questi secoli, la razza si è
presentata come la prova scientifica e biologica della diversità, intesa attraverso termini
stereotipati e pregiudizievoli. È stato necessario attraversare momenti storici tristi e violenti, il
più conosciuto dei quali è il nazismo, affinché ci si rendesse conto della vera valenza di questo
elemento.
All’interno delle scienze sociali, oggi la razza ha perso il valore di prova scientifica, e il
termine designa quindi sia la percezione delle differenze fisiche, che il modo in cui queste
percezioni influenzano i rapporti sociali. Comunque sia, nella quotidianità, noi in quanto esseri
viventi spesso manteniamo la tendenza ad identificare le caratteristiche fisiche come i primi
elementi che rappresentano una razza piuttosto che un’altra, innalzando queste caratteristiche a
giustificazione di una coesione con quello che è il “nostro simile” di fronte a situazioni
quotidiane inserite in un contesto multiculturale spesso difficilmente tollerato (Michel
Wieviorka, 1996).